I cantori omerici non descrissero mai la morte di Achille. Capaci di tecniche compositive che fanno ancora invidia, illustrarono il destino di breve vita del grande eroe all’inizio dell’Iliade, e per tutto il poema noi sappiamo che Achille deve morire ma intanto lo vediamo correre, gridare, guerreggiare, fradicio di irrefrenabile vitalità. Della sua morte sapremo soltanto nell’Odissea, come di un fatto lontano. Ma le storie sono note. La forza dell’omissione omerica non le ha nascoste e semmai le ha esaltate. Achille fu ucciso da una freccia scoccata dal più vile degli eroi: Paride. E Paride a sua volta fu ucciso da una freccia. Scoccata dall’arco che Eracle aveva regalato a un eroe spesso dimenticato: Filottète. Quell’arco divino, l’eroe volle consacrarlo nel golfo dell’Italìa dove approdò al suo ritorno da Troia. Lo depositò assieme alle frecce davanti al “mare color del vino”, e lì fece erigere un tempio per Apollo destinato a immensa celebrità fra Greci e non Greci nei secoli a venire.
C’è ancora qualche pietra del tempio di Apollo Aleo, per chi si aggiri oggi sui lidi più meridionali della penisola. Ma quelle pietre sono abbandonate a una miseria che Filottete non ha mai meritato. Fra Punta Alice e Cirò Marina, la natura magnifica – ulivi piegati dal vento, distese profumate di inula viscosa – e i mercati saraceni restaurati di recente, lasciano il campo a uno stabilimento dismesso dell’Enichem, un’immensa proboscide scintillante che cala in mare. “Chiusa da sei anni” mi dicono sul bagnasciuga “Il mare è pulitissimo. Dovrebbero soltanto rimuoverla”. Rimuoverla e ridare vita al tempio – sembra un atto dovuto. Restituire onore a quelle pietre oggi abbandonate dietro una rete per la maggior parte divelta, i cartelli devastati dall’incuria, una grande buca zeppa di cenere proprio al centro del tempio dove si trovava la statua del dio, un dio giovane e bellissimo, la cui testa è possibile ammirare nel piccolo Museo. Sono fuori orario, quando mi affaccio nella piazza di Cirò Marina, ma le abitudini di rispetto che Filottete stabilì con gli stranieri resistono. Il custode cade dal letto, scende le scale, mi apre, illumina le due stanze, è felice che ci sia qualcuno in visita. Dovevano invidiare queste abitudini, i Greci che arrivarono qui nell’VIII secolo, molto dopo il mitico sbarco di Filottete. Crotone e Sibari giunsero addirittura a contendersi il tempio. Tuttavia non fu per questo che vennero alle armi.
Era il 610 e Sibari era arrivata a “tanta fortuna che esercitava il suo potere su quattro popoli e venticinque città”. Il giudizio degli storici antichi è unanime. Nessun’altra polis di Magna Grecia ebbe tanta potenza. I motivi sono evidenti. La fertilità dei campi tra due fiumi attirò folle di genti in cerca di fortuna e la città divenne immensa. Si parla di trecentomila cittadini. Lusso e opulenza talmente esagerati che l’aggettivo “sibaritico” ancora oggi suona “molle e raffinato, dedito solo al godimento”. La guerra con Crotone, però, fu devastante. Tanta fu la furia distruttiva dei crotoniati che i fiumi vennero deviati e l’acqua inondò la città, oscurandola per sempre. Anche l’acqua che quest’anno ha inondato quel che nel secolo scorso fu riportato alla luce tra difficoltà immense, è stata deviata da mano umana. Stavolta, però, i lavori a sbancare gli argini del fiume accanto al sito dell’antica Sibari sono stati condotti con l’insipienza dei privati che cercano solo ampliamenti e ignorano la forza della natura, quando si scatena. Mentre il solito rimpallo di responsabilità riempie procedure infinite in stanze asfittiche, Sibari aspetta i fondi per essere liberata dal fango. Il toro che era il suo simbolo, un toro selvaggio che incorna ciò che gli si oppone, è una figura dimenticata nel magnifico museo. Come dimenticato è l’antico potere che Sibari esercitava sull’Italìa. La città moderna è un insieme di case sparse su due strade e la lussuria tanto esaltata resiste solo nel vertiginoso viavai di prostitute sulla statale 106, fra qui e Marina Schiavonea.
Risalendo verso nord, invece, le cose cambiano. Le infinite terre che erano il dominio di Sibari si perdono verso il Pollino eppoi diventano Basilicata. Superato il confine, Policoro è il paese a cui fermarsi se si vuole seguire un’altra storia di distruzione. Qui infatti sorgeva Siri, l’unica colonia greca che in questa regione fu creata da genti dell’Asia Minore. Venivano da Colofone (costa turca dalle parti di Smirne), e si diceva avessero seguito coloni troiani in fuga. La sua storia durò poco più di un secolo perché già attorno al 580 le città attorno, al tempo ancora alleate, come Crotone e Sibari, decisero di eliminarla. La sua ricomparsa e valorizzazione, alle spalle di un paesino accogliente, si deve soprattutto a un archeologo di cui quest’anno si celebrano i cent’anni dalla nascita. Dinu Adamesteanu, “romeno di nascita, cittadino del mondo per vocazione, lucano per scelta”, volle vivere e morire qui, a Policoro. Il custode del bel Museo, suo braccio destro, ricorda la passione indomabile, quando con parlata ormai lucana, gli diceva: “Mentre che ti riposi non è che mi aiuti in questo lavoro?”
A stringere l’assedio su Siri fu da nord un’altra colonia peloponnesiaca come Crotone e Sibari: Metaponto. È qui che si deve arrivare per toccare quello che è forse il simbolo della grandezza magnogreca sullo Ionio: le Tavole Palatine, un tempio sacro a Era di cui restano intatte quindici colonne doriche di bellezza inarrivabile. Un sito mozzafiato, a poche decine di metri dalla 106, macchine che sfrecciano, l’unico disturbo per chi cerchi pace. Ma anche 2800 anni fa, quando fu costruito, la strada passava lì a due passi. Il tempio era infatti un avamposto fuori dalle mura cittadine, mura i cui scavi oggi sono ben visibili a qualche chilometro dal borgo della moderna Metaponto. I prefabbricati dove vivono immigrati neri sono l’unico bastione di vita attorno alle lande dove un tempo fiorì la città che accolse Pitagora in fuga da Crotone. Le piattaforme per osservare gli scavi, costruite con i fondi europei, sono in disarmo; i pezzi antichi, numerati e ordinati sui fianchi di una casetta sbarrata, sono incustoditi. Non c’è nessuno. Si gode l’aria di un tempo e l’odore acre dell’incendio che ha spazzato la zona del Castro romano. “Siamo sempre di meno” mi dicono nel museo, maestoso, attrezzato e tragicamente vuoto come tutti i musei di questa Magna Grecia ionica, “Facciamo gli straordinari pur di tenere aperto”.
Aprire, mostrare le straordinarie vestigia di un mondo che non è affatto lontano come si sarebbe portati a credere. Quel che sognano a Taranto, l’ultima colonia su questa strada di estremo sud, l’unica colonia spartana. Il museo aspetta di riaprire a fine anno. Il soprintendente, Luigi La Rocca, fa un’eccezione perché io possa vedere come i lavori stiano ridando luce a pezzi ineguagliabili. Amelia D’Amicis, esperta del museo, mi accompagna, ha parole per ogni frammento, quasi corre verso piccoli particolari che s’inscrivono in un contesto immenso. Ripete che “tutto è sempre lo stesso, perché in fondo gli esseri umani non cambiano mai e tutto è ancora come un tempo”. Io le credo. Tra i tesori stupefacenti c’è un pezzo che lascia sbalorditi: una donna velata che si affaccia alla finestra e guarda intorno, guarda fuori, cerca. Forse è la donna sepolta nella tomba in cui il vaso fu ritrovato e che continua a guardarci dall’aldilà. Forse è la donna che si sporge dalle finestre dei palazzi délabré di Taranto antica, l’isola centrale dove sorse l’Acropoli di cui restano due grandi colonne accanto al Castello Aragonese. Forse è la donna che cercano i ragazzi che fanno su e giù per via Duomo, mentre a pochi chilometri l’Ilva continua a bruciare. “Solo voi forestieri credete che l’Ilva sia ormai chiusa” mi dice il capocameriere della trattoria che domina questa meravigliosa città. Scuote il capo ridacchiando, mentre racconta la sua storia, quella che secondo lui è anche la storia eterna del sud. “Eravamo a Roma, tutti tarantini, gestivamo un ristorante e andava benissimo. Poi abbiamo litigato. Impossibile che si vada d’accordo tra noi. E così arriva chi è più forte e ti porta via il locale”. Qui, su tutte queste colonie litigiose, piene di cultura, speranze, timori, e in continua lite fra loro, arrivò Roma. Arrivò la città unita e priva di timori, pronta a depredare e rinnovare. Ma senza distruggere fino in fondo. Perché è vero: nulla si perde, nella natura dei popoli, nulla cambia mai.
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La prima parte è qui.
La seconda qui.
Il reportage di Matteo Nucci è originariamente apparso sul “Venerdì di Repubblica”.
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).