Raccontano i miti che tutto ebbe inizio con una fuga d’amore. La bella Aretusa che corre, gioca e caccia fra i boschi del Peloponneso, sprezzante del fascino che esercita sugli uomini. Il fiume che la ragazza vede in un pomeriggio torrido mentre la cappa di afa sembra soffocare anche il muggito incessante delle cicale. Il fiume chiaro e silenzioso in cui si tuffa nuda e il mormorio che cresce dalla corrente, il fiume che si fa uomo e che vuole unirsi a lei. Inizia una corsa a perdifiato attraverso tutto il Peloponneso fino alle rive del mar Ionico. Alfeo, il fiume che ancora oggi percorre la penisola dalle tre dita, insegue Aretusa senza darle tregua. E la ragazza disperata invoca Artemide, quando il mare sembra averne interrotto la corsa. Allora il sudore, la rugiada, le lacrime di Aretusa prendono il sopravvento. La ragazza diventa acqua dolce, si trasforma in fonte sorgiva che s’inabissa nelle profondità sottomarine, mentre Alfeo ritornato fiume continua a inseguirla. La corsa finisce a Siracusa, nella piccola isola di Ortigia, dove Aretusa torna alla luce zampillando e Alfeo unisce le sua acque a quelle della ragazza. Il mito racconta l’arrivo dei Greci a Siracusa.
Oggi, attorno alla fonte Aretusa sommersa da baracchini turistici e gelaterie di mille colori sgargianti, noi sappiamo che il mito guardava lontano, ma non abbastanza. Perché la Sicilia per i Greci fu sempre e solo Sicilia. Mentre quella che essi chiamavano Italìa era altrove. E fu lì, non in Sicilia, che si espanse la Megàle Hellàs, la Magna Grecia. Bisogna guardare alla storia, allora. La storia racconta i fatti ordinatamente. Era passata da poco la metà dell’VIII secolo a.C. e da Calcide, in Eubea, la lunga isola adagiata nell’Egeo poco lontano dalle coste attiche, navi e navi di coloni avevano percorso i “sentieri di mare” che secondo Omero collegavano le acque greche a quelle italiche. Si fermarono a Cuma, innanzitutto, poi fondarono colonie sulla costa orientale siciliana e la città più vicina all’Italìa la chiamarono Zancle. Dunque guardarono di là dello stretto. Conoscevano a memoria i versi che cantavano di Scilla e Cariddi, la roccia dei due speroni mostruosi e divini, roccia che “rombava terribile, in fondo la terra s’apriva, / nereggiante di sabbia”. Sapevano che per controllare lo stretto era necessario dominare su entrambi i versanti. Da Zancle (ribattezzata poi Messene e oggi Messina), si lanciarono oltre il mare e fondarono Reggio.
Il ponte ideale che i greci di Calcide gettarono fra Sicilia e Italia si richiuse in pochi anni e forse non si è mai più aperto. Il ponte reale, di cui da anni si discute, quando è ben visto da siciliani e reggini, lo è soprattutto per una ragione. Sottrarsi al monopolio dei traghettatori privati che quotidianamente fanno su e giù fra Messina e Villa San Giovanni e che hanno significativamente preso il nome del figlio della Notte, colui che traghettava le anime nell’aldilà: Caronte. Quali gli inferi a cui conduce oggi la ditta di Caronte? Villa San Giovanni, divorata dalle automobili in fila al porto, oppure Reggio, dove la famigerata autostrada ancora si spegne in una delirante progressione di limiti di velocità fino a trasformarsi in una delle vie cittadine, a pochi minuti dal centro? Qui le cronache sono impietose. Un magnifico museo di antichità chiuso da quattro anni e la riapertura avvolta nel mistero. La bellezza sconcertante dei famosi bronzi di Riace esposta senza concedere nulla agli osservatori: due salme distese dietro un vetro nel Palazzo della Regione. Nient’altro ricorderebbe i fasti antichi tranne le antiche mura della città sul Lungomare che ha preso il nome del sindaco più amato, Italo Falcomatà, il protagonista della “primavera di Reggio”. Ma è qui che si deve venire per ritrovare il cuore della città. Lungo quello che, stando ai racconti, D’Annunzio ribattezzò “il più bel chilometro d’Italia”, tra le palme e i lampioni liberty, la folla sciama in continuazione. Di sera, l’Arena dello Stretto si riempie. È come la replica di un piccolo teatro greco che guarda verso Messina. Nessuno lo chiama col nome che gli fu imposto pochi anni fa, per glorificare il sindacalista e senatore missino Ciccio Franco, “leader dei Boia chi molla” come recita l’iscrizione sotto la statua. Giovani e vecchi si accalcano. Ibico, il poeta che nacque a Reggio all’inizio del VI secolo a.C. racconta ancora quel che accade in queste serate estive. Le sfumature fra cielo e mare che Quasimodo tradusse “colori del porfido”; i ragazzi divorati da Eros che “Afrodite e Persuasione, la divinità tenero sguardo, allevarono tra fiori di rosa”; i vecchi che temono le “reti inestricabili di Afrodite” e tremano “come un cavallo abituato alle vittorie che sulla soglia della vecchiaia / a malincuore entra in gara contro carri veloci”.
I viali e i bei palazzi con cui Reggio, come Messina, fu ricostruita dopo il terremoto del 1908 lasciano a sud il posto a una periferia da cui sbuca come il figlio più amato e odiato la strada regina della Magna Grecia, la statale Jonica 106, una lingua d’asfalto che percorre la storia della colonizzazione greca e raggiunge le città che dominarono e scomparirono e che scomparendo rimasero per sempre. È tutto ancora come duemila e settecento fa, per esempio, sulla costa dei Gelsomini, a Capo Bruzzano, dove sbarcarono i coloni provenienti dalla Locride Ozolia, sul golfo di Corinto, pochi anni dopo la fondazione di Reggio. Per qualche anno vissero lì, sul promontorio detto Zefirio, protezione dal vento di ponente. Il tornante della 106 si allarga in un muretto di mattoni grigi mai intonacati a delimitare lo spiazzo polveroso infestato di automobili. Una mano ha scritto PRIVATO fra i tralicci, forse per respingere i pochi estranei. Del resto, nulla qui, sulla magnifica spiaggia di sabbia fine cui si accede scendendo lungo la sterrata, ha il sapore dell’accoglienza. Protetti da pagliericci occasionali i villeggianti calabresi scuotono il capo, ripetono che da nessuna parte sarà possibile trovare acqua o bibite, la spiaggia è solo per chi arrivi preparato. Cartacce svolazzano ma non è il vento Zefiro a sollevarle. I Locresi abbandonarono questi luoghi dopo poco. Se ne andarono una manciata di chilometri più a nord a fondare Locri Epizefiri, la Locri della madrepatria, cioè, ma riplasmata oltre il promontorio Zefiro. Cercavano luoghi adatti a una grande città e li trovarono. Del resto, erano guidati da una particolare forma di entusiasmo, un entusiasmo tutto femminile.
Qui il mito s’intreccia alla storia ma sbaglia chi vuole ridurre le storie mitiche a semplici favole. Perché gli uomini che abbandonarono la Locride della madrepatria erano stati respinti con grande ingiustizia. E poiché la peggior forma d’ingiustizia sta nel replicare l’ingiustizia subita, essi cercarono di percorrere l’altra via e ambirono dunque a una legislazione perfetta. I fatti andarono così: durante la prima guerra che contrapponeva Sparta a Messene (a fine VIII secolo), Locri si svuotò. Gli uomini liberi andarono a combattere al fianco degli spartani e dopo anni di assenza le donne decisero che il tempo era scaduto e si accoppiarono agli uomini rimasti in città: gli schiavi. I figli di queste unioni vennero più tardi cacciati dai locresi tornati in patria. Percorsero i “sentieri di mare” fino a sbarcare a Capo Bruzzano. Le donne che li seguirono non furono da meno, quanto a intraprendenza e autonomia, rispetto alle madri. E fu forse questo carattere a forgiare, in città, abitudini matriarcali, assieme all’istituzione della prostituzione sacra. Mentre si entra nella spettacolare area archeologica aperta sulla statale 106, di tutto questo si è persa traccia. I resti dei quartieri residenziali e delle botteghe artigiane restituiscono ancora la pianta della città e delle sue case; il tempio di Marasà ci accoglie con la sua colonna spezzata nel silenzio di una vegetazione rigogliosa; e semmai solo quanto fu ritrovato nel santuario di Demetra potrebbe raccontarci ancora qualcosa, con i piccoli quadretti di terracotta in bassorilievo (i famosi pinakes) offerti come ex voto alla dea delle messi Demetra, in onore di Persefone, sua figlia rapita da Ade, dio dell’Oltretomba, allo stesso modo delle ragazze strappate alle madri e alla tranquillità familiare dal matrimonio. Ma nel bel museo resta poco di questi quadretti, ora nascosti nel chiuso delle stanze di Reggio. Quel che è straordinariamente in mostra è invece uno dei due Dioscuri, Castore e Polluce, che secondo il mito intervennero in aiuto di Locri per difendersi da Crotone.
Da qui in poi, infatti, la storia della Magna Grecia è una storia di guerre fratricide. Oggi le guerre intestine sono quelle di cui tutti abbiamo sentito notizia da queste parti: faide familiari e semmai lotta contro se stessi, ossia lo strumento principe della ‘ndrangheta: mantenere la terra in uno stato di povertà e prostrazione per dominarla meglio. È così che appare il resto del sito archeologico locrese. Solo qualche centinaio di metri oltre il museo, il teatro greco è abbandonato nell’incuria assoluta, la casetta del bigliettaio bruciata, le reti di protezione divelte e le pietre antiche trasformate in ritrovo serale. “Almeno servono ancora no?” mi dice un vecchio attraversando quello che era stato progettato come un parcheggio per i turisti in arrivo e che è diventato un piazzale di mondezza e falò improvvisati. Mi ronza nelle orecchie la frase borbottata a mezza bocca sulla spiaggia di Capo Bruzzano. “Un baracchino che vende bevande, cerca? Lo brucerebbero subito. Qui tutto deve rimanere come sempre è stato”. La conservazione a tutti i costi. È quello che vuole la criminalità di qui. E sembra paradossale che invece la conservazione delle leggi fosse stato il traguardo della giustizia a cui aveva portato l’ambizione dei coloni locresi ingiustamente espulsi dalla madrepatria. La legislazione di Zaleuco di Locri fu sempre ricordata per la sua severitá. E per lo spietato atteggiamento nei confronti di chiunque avesse tentato di mutare da quella retta via. Era questo il senso di una delle più famose fra le leggi di Zaleuco. Prevedeva per chi volesse istituire una novità legislativa di avanzare la proposta con un cappio attorno al collo. Se la proposta veniva accettata, se ne tornava a casa tranquillo. Altrimenti il cappio veniva tirato. Ma, commentava l’ateniese Demostene più di due secoli dopo: “Era una città ben governata. (…) Si preservavano le antiche istituzioni e non si legiferava per favorire i desideri e i sotterfugi dei trasgressori”. Il contrario, insomma, di quel che sarebbe avvenuto nel Novecento.
Il reportage di Matteo Nucci è originariamente apparso sul “Venerdì di Repubblica”.
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).