“Montaigne non si stancherà mai di lamentarsi della sua cattiva memoria. Giunto a una certa perizia, vede in essa il suo vero difetto. Il suo intelletto e la sua capacità di percezione sono straordinari. Ciò che vede, comprende, osserva e riconosce, lo coglie con lo sguardo rapido del falco. Ma poi, come si rimprovera sempre, è troppo pigro per ordinare in modo sistematico queste conoscenze, per svilupparle in forma logica, e appena ha formulato un pensiero, lo perde e lo dimentica. Dimentica i libri che ha letto, non ha alcuna memoria per le date, non ricorda gli eventi essenziali della sua vita. Tutto gli scorre davanti come un fiume e non lascia niente, nessuna convinzione profonda, nessuna solida opinione, niente di fisso o di stabile. Questa debolezza di cui tanto si lamenta è in realtà la forza di Montaigne. Questa tendenza a non fermarsi su nulla lo spinge ad andare sempre più avanti. Per lui niente è finito”.
Il piacere che deve aver provato Stefan Zweig a dipingere il ritratto di quest’uomo – che “ama la sua casa, ama la sua ricchezza, la sua nobiltà e ammette di portare sempre con sé, per la sua tranquillità personale, una cassetta piena d’oro”, e allo stesso tempo “ha cercato la libertà abbandonando il gran mondo della politica, le cariche, gli affari”, che ha rifiutato un titolo di gran consigliere del re – sarà stato senza dubbio dei più alti, e si sente.
L’eternità del messaggio del non-filosofo (come si definiva), nella Francia cinquecentesca contesa tra cattolici e ugonotti, proviene più dal suo modo di vivere che non dai suoi Saggi. Di famiglia nobile da solo tre generazioni di ex mercanti arrivisti, per volere del padre passò i primi anni d’infanzia a vivere tra il popolo, seguì un periodo casalingo di immersione totale e forzata nella lingua latina – imparò il francese solo a sei anni – durante il quale veniva svegliato al mattino da suonatori di flauto e violinisti. Nel più moderno degli scenari il piccolo Michel odiò la scuola, “se esce indenne da questa prigione della sua gioventù è solo perché […] scopre un sostegno segreto e una consolazione: il libro di poesia accanto al libro di testo”.
“A tredici anni termina esternamente la formazione del fanciullo ineducabile; da allora per il resto della vita, Montaigne sarà il maestro e l’allievo di se stesso”.
Quello che Zweig vuol maggiormente far trapelare da questa biografia, anche per cercare connessioni con la sua vita di intellettuale borghese ebreo costretto alla fuga dal regime nazista, è questa totale sete di libertà del sé, ma non nella concezione egoista che gli accusa Pascal, una libertà del sé per arrivare alla libertà del mondo (e proprio per questo si trovano paragoni con Socrate). “Non è soltanto l’Io, il Sé che cerca Montaigne, egli cerca allo stesso tempo l’umanità. Percepisce chiaramente che in ogni uomo c’è qualcosa di universale e qualcosa di unico: la personalità. Una essence, una combinazione che non è paragonabile a nessun’altra e si forma intorno ai vent’anni, e a fianco l’umanità comune, che rende tutti simili, che fa si che tutti abbiano le stesse fragilità, limiti, debolezze, che siano sottomessi alle grandi leggi, intrappolati nel tempo che va dalla nascita alla morte”.
Il Michel de Montaigne di Zweig – qui tradotto in italiano per la prima volta da Ilenia Gradante per Castelvecchi – è saggio ma non eroico, nel suo essere moderno traspaiono le sue debolezze, è animato da un’esaltante pigrizia introspettiva diretta a capire sé stesso e l’uomo, scrive i primi due volumi dei suoi Saggi chiuso per dieci anni nella torre del suo castello. “Egli non appartiene ai filosofi che cercano la pietra filosofale, la panacea universale. Non vuole alcun dogma, nessun precetto, e teme costantemente le affermazioni categoriche: «Non affermare nulla temerariamente, non negare nulla alla leggera». Non ha alcun obiettivo. Ogni percorso è per il suo pensée vagabonde quello giusto”.
Il più grande insegnamento strappato dalle scelte e dall’opera del pensatore francese diventa un comandamento per chi vuole dedicarsi alla scrittura, da dipingere sulle travi del tetto della propria stanza, così come Montaigne aveva fatto con cinquantaquattro motti latini : “Chi racconta la propria vita vive per tutti gli uomini, chi parla della sua epoca parla per tutte le epoche”.
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).