C’è stato un tempo in cui ho pensato di poter raccontare, e in quel tempo non ero sola. Scrivendo a volte ci si sente soli. Questo presente mi ha insegnato che la solitudine non passa in fretta, e che quasi sempre sono contraria alla rassegnazione se le numerose anomalie possono considerarsi addii naturali, luminose o sparute morti.
C’è stato un tempo in cui ho pensato che a mettere le mani in bocca potessi toccarmi il cuore, averne così l’assoluta certezza. Non sono mai stata sicura di me. Non sono mai sicura di esistere.
Qualcuno, negli anni, si è sforzato di dimostrarmi che una storia non è un congegno meccanico ma un corpo vivente, narrativo, costituito da un sistema nervoso, un apparato circolatorio, uno scheletro, poi anche da un cervello e dalla pelle. Io non credo. Allo stesso modo in cui non credo nelle storie concepite come casa. Non c’è uno spazio reale per le storie. O se c’è, dov’è? Chi lo abita? “Con la sua sola luce, la casa è un occhio aperto sulla notte” accende Gaston Bachelard ne La poetica dello spazio. La venuta del giorno può attendersi con speranza, è vero, ma nella pienezza dell’oscura intimità, nell’acutizzarsi della fatalità dei sensi, negli echi dell’anima in cui sbatte e rimbomba la paura della morte: “sono reali soltanto gli spettri”. È la rivelazione di Vladimir Holan in Quante volte. “Ecco che cos’è l’aspettare”.
Ho preso l’abitudine di cullarmi la testa per far accadere i fatti appena tollerabili soltanto nella mia mente. Sono viva per miracolo, e lo sono per questo. Perché sono limitata, e non voglio più esserlo.
Non voglio più credere che sia necessario fornire agli altri emozioni non proprie, dentro quella che si leva come una nuova forma di economia umana, uno spaccio di minuscole volte stellate; dunque penso che il mio corpo sia una storia non scritta da me. Forse dovrei crearmi un bisogno: dividere il cielo dalla terra. Anna Maria Ortese in Attraversando un paese sconosciuto annuncia: “Sono lieta, in mezzo alle mie tristezze mediterranee, di essere qui. E di dirvi com’è bello pensare strutture di luce, e gettarle come reti aeree sulla terra, perché essa non sia più quel luogo buio di schiavi che a molti si dimostra”. Somiglia la sua voce all’emozione che disvola un prossimo scomparire, come quando ci si interroga sulla morte: morendo cosa farò? Gli altri cosa faranno? Che succederà?
Vorrei difendermi da sola perché “dovunque siano occhi che vi guardano con pace o paura, là vi è qualcosa di celeste, e bisogna onorarlo e difenderlo”, così dice Ortese. Vorrei difendermi da sola dai miei terrori, e i miei terrori sono le presenze, soprattutto le persone.
“Io non vedo nulla a cui paragonare la grande bellezza di un’anima”. È Teresa d’Avila a illuminare le consorelle con l’isolamento, lei, santa segreta nelle sette dimore del suo castello interiore. Cieca sono ché tu cammini ancora! ribatte Amelia Rosselli chiudendo in faccia le porte delle sue Variazioni belliche: Cieca sono che tu cammini e il mondo è vedovo e il mondo è cieco se tu cammini ancora aggrappato ai miei occhi celestiali.
Sono confusa dalle parole e dalla vita, dalle mie parole e dalla mia vita. Cerco l’equilibrio giostrando addosso agli altri, sopra le altalene delle frasi, scivolando giù dalle loro biografie. Non so se sia giusto. Inseguo verità non sapute prima e le difendo cercando là dove il mondo mai esistito cominciasse d’improvviso, con prodigio, a esistere.
Leggenda, o piccolo spettacolo reale
Non conosco nessuno che si sia liberato dei propri morti.
So che da bambina mangiavo un tipo di pane messo a lievitare sotto alle coperte di lana e poi cotto a legna fra le frasche umide di erica scoppiettante e di rosmarino. So che non tornerà. So che mia madre continuerà a piantare i bulbi delle sue fresie gialle tra i miei gerani rossi nonostante le proteste, che seminerà me stessa per farmi gettare ancora come un fiore davanti a una cancellata di rose. So che invento le rose. (“Certamente, un qualsiasi passante crederebbe che la mia rosa vi rassomigli, ma lei, lei sola, è più importante di tutte voi, perché è lei che ho annaffiata. Perché è la mia rosa”, Il piccolo principe, Antoine De Saint- Exupéry).
So che ho visto un gatto bianco e nero con la coda mozzata – anche due lucertole di nuova primavera – so che possono cadere le tegole dai tetti. So che la felicità si può scrivere. Perché la vedo. Perché si scrive e si legge con le orecchie. Perché Van Gogh si è amputato un orecchio e l’ha offerto in segno di rinuncia alla carne, celebrandone il sacrificio. So che mio padre dice: “Raccogli le arance sofferte, sei pallida, ci fai la spremuta”. Sento mio nipote chiedere: “Scaricati Ruzzle sul telefonino”. Io gli chiedo cos’è e lui risponde: “Sei antiquariata”. So che mia zia piange sul suo bel divano d’alcantara blu di Prussia, sommersa dai cuscini di raso azzurrino: “Non voglio vivere più”. So che Sofia ha otto mesi e batte le mani quando finisce la musica. E queste due stanno sedute una accanto all’altra. Zia ogni tanto chiude gli occhi a lungo.
I frammenti di realtà normale mi spaventano più di ogni altra cosa, come se fossi cieca e sentissi fragori irrompere al mio fianco senza averne presagio, senza avere nemmeno il presagio di qualcosa che devo ancora vedere. Ma per questo cammino, anche se il mondo è finito.
Didascalia solitaria
“L’uomo stolto, fra gli altri mali, ha anche questo: vuol sempre ricominciare a vivere”, Epicuro.
Volevo dirvi “mi fate tutti solo male, ma poi non è vero. Sono io sola”.
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).