Traduzioni. Tre istantanee sul declino

da | Apr 14, 2014 | Senza categoria

Le traduzioni dalle riviste letterarie straniere iniziano con Buenos Aires Review.
Il racconto, Tres instantáneas en el descenso di Edgardo Cozarinsky, è stato tradotto da Ilaria Veronica Tomasello.

 

Il vecchio non trova pace

Ma cosa vuole? Stavo per squadrare il barman con impeccabile freddezza, deciso a fulminarlo con lo sguardo, quando mi resi conto che non era me che fissava; guardava un altro vecchio, più giovane di me ma con quei segni esteriori di senilità che io mi curo di non offrire alla perfidia estranea, testa bassa, sguardo definitivamente vinto dalla bionda che si scuote spasmodica sulla pista.
Come avrebbe trovato pace, il vecchio? Chissà quanto champagne già aveva offerto alla bionda, e chissà quanto altro se questa non è la prima volta. E anche lei, come troverà pace? Cercherà, ma non la troverà con un altro, né con due, né con quattro, anzi con nessuno, persa dentro se stessa, non si aspetta molto da chi le si pone davanti, posseduta da In a Gadda da Vida. Chi l’avrebbe detto che dopo mezzo secolo avrebbero passato ancora gli Iron Butterfly? Li ballavo a Buenos Aires nella mia preistoria.
E io sono da solo; per lo meno in piedi, e ne sono fiero, non crollato su uno sgabello come il vecchio in questo bar di merda di Roma, almeno fosse nel centro storico o a Trastevere, ma mi trovo ai Parioli in un posto da jeunesse dorée, non so se la chiamano ancora così, io la riconosco da lontano, qui o a Buenos Aires, nell’878 o peggio nel Rond Point, figlie di papà o della pubblicità.
Però ad un certo punto capisco che il vecchio è un avvertimento, non c’era bisogno che il barman mi fissasse, nel vecchio vedevo il riflesso possibile di tutto quello che sto posticipando, di quello che non posso negare; accettare la mia età, credere che posso ancora avvicinarmi ad una preda e parlarle e passare da un ballo all’altro senza che mi veda prima di tutto come qualcuno disposto ad offrirle da bere, nel migliore dei casi come un personaggio divertente con cui parlare un po’, niente di più.
Sono certo che ciascuno scelga la propria follia, non ne ho mai dubitato, e ci sono notti in cui l’imitazione di Corsini non mi viene del tutto male: “Continua a riempire il bicchiere, mio buon amico oste!”.

La fine della magia

Lei mi dice che con me si sente meglio che con chiunque altro; nonostante questo, durante la notte, si allontana dal tavolo del bar, dicendomi che è per fumare una sigaretta, non mi fido, aspetto due, tre minuti, la seguo e la trovo che parla al cellulare, sicuramente con il mostro con l’herpes, un pretendente orribile che non conosco, ma che cercai su Internet immaginando che la sua notorietà di pubblicitario doveva avergli fatto ottenere la diffusione di una foto, e lo trovai, sguardo torvo, sorriso astioso, peluria d’ordinanza.
Mi dice che lui non c’entra niente, che parlava con un’amica alla vigilia del parto, dimenticandosi che mezz’ora prima mi diceva che non la sopporta, che parla tutto il tempo delle acque che stanno per rompersi, e d’altra parte a chi viene in mente di chiamare dopo mezzanotte una partoriente in dirittura d’arrivo? Mi domando se si rende conto che io sì mi rendo conto che mente, ma penso che non le importi, che direbbe qualunque cosa perché sa che il silenzio è più ricco e mi lascerebbe immaginare di più e peggio.
Mi dice di chiudere gli occhi, obbedisco, non fidandomi del tutto, e mi passa sulle labbra un dito che le mordo, ha un gusto amaro e mi accorgo che l’ha sfregato con MDMA, glielo succhio e quando non ne rimane più le dico che è pazza, che l’MDMA se lo deve mettere nella fica e così sì che glielo succhierei con gusto, fichetta dulce de leche la chiamo sempre, mi dice che questa notte no, che vuole solo che mi allontani e la smetta con questa gelosia ridicola, però in quel momento suona il suo cellulare e sta per rispondere quando glielo tolgo dalle mani, lo getto sul marciapiede e lo calpesto.
Mi dice che sono una bestia, mi chiede dei soldi per comprarsi un altro cellulare, di allontanarmi dalla dulce de leche, dice che ha già iniziato a dimenticarsi di me, che non ha mai detto di stare meglio con me che con chiunque altro, che ho inventato tutto, “segaiolo di merda, dammi i soldi adesso o mi metto a urlare”.
Non parlo subito. Metto mano al portafogli, prendo una banconota da cinque pesos e gliela lancio ai piedi, “vai in una cabina e chiamalo, vediamo se ti contagia l’herpes”, le dico e me ne vado, lei mi segue e mi scarica pugni nella schiena, sulla testa, un poliziotto ci guarda, “che le sembra, gli dico, sono coraggiose quest’estate”, lui sorride, io sorrido e lei stanca si mette a piangere.

Presagio di gennaio

È il quindici di gennaio e fa molto caldo a Buenos Aires, sebbene noti che i giorni iniziano ad accorciarsi; alle otto e mezza di sera il cielo passa dall’azzurro al celeste al grigio, non resiste luminoso un’ora di più, come in un glorioso 21 di dicembre, quel giorno più lungo dell’anno in questo emisfero sud che tanto mi costò amare dopo molto tempo in cui posi stupide distanze tra noi.
È gennaio a Buenos Aires e la città non è deserta, è solo abbandonata dalla fatica e dal malumore di quasi tutto l’anno, per questo mi piace tanto riservarmi questo mese per godermela mentre le folle si accalcano nelle spiagge a insozzare il mare. Per camminarci e osservarla e tacere.
Questo gennaio ho ricominciato a bere vino bianco, dopo anni che l’avevo abbandonato, effettivamente perché nel corso degli anni ne ho abusato, adesso mi fa compagnia, fresco, secco, in questo calore che promette di alleviarsi quando una brezza svogliata agita appena le fronde degli alberi di quest’angolo.
Come sempre a gennaio il tavolo del caffè che mi fa da rifugio in quest’angolo è sul marciapiede, quest’anno gli shorts sono tornati di moda e non cessa la sfilata di natiche sode, insolenti, arroganti.
Il ragazzo che mi porta il bicchiere di vino bianco commenta: “Vede come si fanno seguire con lo sguardo? E in un giorno in cui minaccia pioggia: oggi la passerella è moscia”.
So che presto l’estate sarà finita, che l’autunno benigno di queste latitudini verrà senza freddo ma con luce decadente, e sarà come l’età che non sembra ferirci ma ci toglie altra luce, quella che sappiamo che non ritroveremo (Bécquer, sempre, chi se no?).

 

 

(Corsivi in lingua originale nel testo)

Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).