Humo, un racconto della scrittrice argentina Giovanna Rivero uscito su Buenos Aires Review, e tradotto per Nuovi Argomenti da Ilaria Veronica Tomasello.
I ricordi inutili sono i più belli. Avrò avuto circa 8 anni quando arrivò a casa dei miei nonni questo ragazzo col nome da canarino, Piri. Venne per aiutare mia nonna nella piccola impresa di insaccati e panetteria che era installata nel terzo cortile. Nonostante sembri una bugia, in quella casa c’erano tre cortili e al terzo, come dicevo, mia nonna aveva messo su una vera industria a vapore di salami e pane. Se ci entravi la mattina presto, potevi fantasticare con l’idea che tutto quel fumo che le macinatrici, i forni, i trituratori, gli imbottitori e le pentole eruttavano all’unisono fosse, logicamente, lo smog febbrile espulso da macchine di ultima generazione del primo mondo.
In quello che doveva essere l’ingresso della casa, mio nonno aveva l’ufficio del registro civile nel quale riceveva i migranti dall’entroterra per iscrivere i neonati, i neo defunti e i novelli sposi. Piri diceva che quello di mio nonno era un lavoro da pappamolle: schiacciare i bottoncini di un giocattolo come se in essi ci fosse la vita, proibire ai poveri di chiamare i propri figli con nomi da gringo come Johnny, Chuck o Michael e, come hobby, giocare a carte imbrogliandosi da solo. Il concetto di “macchina da scrivere” era assolutamente ridicolo per lui: eravamo abituati a macchine brutali che convertivano la carne in una massa rossiccia e informe e successivamente in salame.
Nel pomeriggio Piri era incaricato di misurare i metri di budella di maiale da utilizzarsi in giornata. Forse non è letterariamente corretto che si racconti, però bisogna farlo. Piri metteva il secchio per terra e, seduto con la schiena dritta, calcolava tendendo con entrambe le mani, pezzo per pezzo, i metri di quella tela trasparente che mia nonna avrebbe poi riempito con carne tritata.
Allora non mi faceva schifo. C’era un piacere inesplicabile nello scricchiolio liquido che faceva la matassa di budella nel secchio con acqua e aceto e nel viso di Piri mentre usava la poca matematica che conosceva. Notavo che Piri si teneva sempre un pezzetto di quella membrana viscosa nella tasca dei pantaloni, anche se a volte le budella puzzavano ancora di merda. Si metteva l’indice davanti alla bocca per farmi capire di non dire niente ed io tacevo.
Un pomeriggio mia nonna chiese a Piri di fare una commissione nella capitale. Sarebbe dovuto rientrare quella notte stessa, ma non lo fece. Mia nonna dedicò l’anima, la vita e il cuore a investigazioni degne di Sherlock Holmes. Interrogò un paio di possibili fidanzate, sostenne uno scambio del tipo bugia-verità con un allibratore di lotte tra galli, si parlò di debiti e minacce e alla fine dovette accettare la dichiarazione iniziale di un autista testimone, un tipo di Montero irritabile con buona memoria. Semplice. Piri era salito su un micro* interprovinciale, aveva pagato il tragitto fino a Santa Cruz, anche se esisteva la possibilità che l’avesse pagato fino a Warnes, un paesino intermedio, il quale, dedusse mia nonna, dimostrava soltanto che il ragazzo non aveva pianificato con premeditazione e perfidia quello che in seguito sarebbe diventata la leggenda di famiglia: “l’inesplicabile fuga di Piri” o, per i più rudi “di come Piri svanì nel fumo”.
Con il tempo mia nonna chiuse la sua impresa, più che per i suoi problemi di salute, per oscuri motivi che vanno di là del mio racconto.
Quello che è certo è che non abbiamo mai saputo perché Piri scese nel bel mezzo del nulla, in una zona senza sentieri né fattorie né coltivazioni, solo pascoli, alberi e il Sole che fluttuava in una lenta morte d’estate.
Pochi anni dopo, quando il paese inaugurò la sua prima strada asfaltata, mentre accompagnavo mia nonna ad una visita medica nella capitale –i suoi polmoni, dicevano le radiografie, erano due maledette placche carbonizzate- allora il micro* si fermò da qualche parte e un ragazzo denutrito scese con lo zaino in spalla e iniziò a camminare tra i pascoli, tra il grasso melograno e i rumorosi maiali, come dirigendosi verso il Sole.
Appoggiai la fronte al finestrino per vederlo meglio. Sarebbe mai finito il mondo se avesse camminato e camminato fino alla fine? Ebbi anch’io voglia di scendere. Il pomeriggio era enorme e tiepido e si poteva già vedere il brillio di alcuni lontanissimi pozzi petroliferi che la gente diceva ardessero senza sosta e a volte ingerissero un boccone di persone, come l’inferno. Leggendomi nella mente mia nonna strinse la mia bambola con la sua mano callosa. Mi tratteneva, me o i miei pensieri. E allora disse, come se cadesse a fagiolo: “Le budella del maiale le usano gli uomini per non avere figli.”
Lei, senza dubbio, riusciva a farlo: gonfiare qualunque cosa con magia o carne trita e subito dopo distruggerla.
* Il micro è una tipologia di bus.
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).