Some day you will find me
Caught beneath the landslide
In a champagne supernova in the sky
OASIS
Se l’attenzione a scrittori esordienti e emergenti è stata una costante della storia di Nuovi Argomenti, ci è sembrato giusto dedicare la sezione monografica di questo numero di anniversario (il sessantesimo), rinnovamento (con le copertine di Julian Opie e la nuova impostazione grafica) e innovazione (il nuovo sito web www.nuoviargomenti.net) a una ricognizione dei narratori nati dopo il 1985.
Il criterio anagrafico, nella sua sbandierata oggettività e pretesa neutralità, è innanzitutto un criterio debole. Che, tuttavia, se intercetta qualcosa di simile a ciò che abitualmente si definisce «spirito del tempo», si trasforma in ipotesi critica forte.
Dal punto di vista della sociologia e della storia sembra che i nati dopo il 1985 abbiano qualcosa di epocalmente diverso da chi li ha preceduti, sia pure di pochi anni.
Gli autori qui antologizzati appartengono alla prima generazione che non ha nessuna memoria viva della Guerra Fredda. Non possono ricordare (alcuni non erano nati) il crollo del Muro di Berlino. Né, per venire in ambito italiano, lo sconvolgimento giuridico-politico che ha portato alla fine della cosiddetta «Prima Repubblica». Sono i primi che hanno vissuto un’adolescenza (o addirittura un’infanzia) condizionata dalla disponibilità di internet e telefono cellulare.
In una parola sono la prima generazione che non appartiene a quello che Eric Hobsbawm ha definito, con un sintagma felice e fortunatissimo, «secolo breve».
Il dubbio è se sia possibile trovare una comunanza letteraria che corrisponda a questa unità sociopolitica.
Molti di questi autori devono ancora esordire, altri hanno pubblicato il loro primo libro. Definire costanti generazionali universali in modo apodittico può apparire esercizio presuntuoso e affrettato. Ma leggendo in sequenza i nove narratori abbiamo notato delle linee di tendenza, una specie di denominatore comune.
In questa breve introduzione ci limiteremo a indicare due tratti comuni che, allo stato attuale, possono valere da ipotesi critiche dotate di valore euristico che la produzione successiva dei nove autori (e di altri nuovi) potrà verificare o falsificare.
Il primo di questi tratti (in qualche modo condizione logica necessaria al secondo) è che il rapporto con la tradizione cessa di essere collettivo e condiviso e si fa individuale, atomico.
La tradizione cessa di essere, come la legge, uguale per tutti e si fa proteiforme, un prisma da cui ogni autore può attingere il proprio colore. È dunque in qualche modo paradossale che il primo tratto in comune sia l’assenza di un paradigma generazionale, di un canone comune. Che però non si traduce in una brusca frattura con il canone stesso, quanto in un rapporto personale (customized?) con le infinite possibili fonti. È macroscopica la differenza di tono e approccio dall’uno all’altro dei nove racconti: si passa dall’orfismo lirico di Viola Di Grado, all’approccio descrittivo fenomenologico di Niccolò Contessa, dallo sfondo storico (novecentesco) del racconto di Michela Monferrini, al racconto di formazione di Cubeddu e Ghiotti (lo fa sotto forma di pastiche digressivo il primo, di
narrazione pura il secondo, appena diciottenne). E dal primo al secondo tratto comune il passo è breve. Nel tracciare
ognuno la mappa della propria ispirazione e delle proprie influenze la letteratura non occupa più un luogo privilegiato.
Forse non è la prima generazione ad avere riferimenti culturali di provenienza miscellanea, ma è la prima a non vergognarsi dei suoi riferimenti culturali.
I Supernova non accolgono più ciò che amano con una scrollatina di spalle che davanti al mondo suona come l’occhiolino dell’attore rivolto al pubblico o l’atteggiamento «non è vero però lo leggo» di chi consulta avidamente gli oroscopi.
Si assumono – forse inconsapevolmente, di certo con naturalezza – la responsabilità dei propri gusti.
Questo è particolarmente evidente in un autore come Cubeddu che mette insieme con naturale disinvoltura Nabokov e «Non è la Rai». Ma hanno la stessa matrice i tormenti del latinista alle prese con Jack Frusciante nel racconto di Gaia Coltorti. Ed è certo che i riferimenti culturali solidi e condivisi, riconoscibili, di Ingenito siano vissuti con l’ardore languido del fan davanti alla pop-star, come se, per le caratteristiche del suo ingegno, la sua passione ammirata si sia rivolta non verso Madonna o i Radiohead ma verso Goldoni, Proust e la Woolf – e a loro riserva lo stesso atteggiamento che una groupie ha al concerto della sua band preferita.
E c’è una radicale differenza con le numerose (e spesso meritevoli) operazioni di recupero «del basso».
I racconti di Ginevra Lamberti e Matteo Trevisani, di tonalità diversissima, mostrano chiaramente che gli schemi pop sono ormai introiettati e, come un’intuizione pura kantiana, organizzano l’esperienza letteraria.
Così sembra che, per i Supernova, non esista contrapposizione tra popolare e elitario. Non esista, finalmente, differenza ontologica tra alto e basso.
Al giudizio estetico si era tradizionalmente associata una funzione di controllo per cui chi voleva essere uno scrittore apprezzato dalla comunità letteraria doveva astenersi non solo dal lodare pubblicamente ma proprio dall’apprezzare intimamente scrittori, cantanti, registi ritenuti non all’altezza degli standard culturalmente condivisi. E questo generava una falsa coscienza di fondo, un uso pubblico del gusto che nascondeva il piacere autentico.
Ma gli anni zero hanno posto allo zenit del consenso critico due forme espressive generalmente guardate con sospetto: i cartoni animati e i serial televisivi. E lo hanno fatto non solo attraverso opere autoriali (Persepolis, Appuntamento a Belleville, The Wire), ma anche e soprattutto attraverso prodotti di consumo, successi planetari quali i cartoon della Pixar, i Simpsons, Lo
st, Downton Abbey.
E finalmente questi nuovi scrittori sono potuti uscire dalla prospettiva che guarda alla letteratura come a un residuo irriducibile e nobile, uno strumento di resistenza ai tempi della barbarie.
Perché forse la salvezza non è nello scontro con lo zeitgeist ma nell’essere calati in lui. Ci sono opere che appartengono all’aria di un certo tempo e, per questo nostro tempo, abbiamo declinato la parola tempo con la parola età. Limitante e obiettivo – aggettivo e sostantivo – criterio di messa a fuoco.
Forse il nome cerca di mostrare questi autori come stelle non comunicanti, monadi nel buio di un universo da cui è venuto a mancare il centro unificante del canone condiviso. Eppure quanto mai splendenti, anzi al massimo della loro luminosità. Esplosive. Forse le ultime stelle prima del buco nero che inghiottirà una civiltà in crisi.Un’ultima parola sul nome scelto. Spiegare le metafore è spesso inelegante e riduttivo. Ma il lettore si sarà chiesto: perché «Supernova»? Anche qui rispondiamo con un’ipotesi.
Ma al di là dell’ipotesi possiamo attenerci al significato letterale. Super-nova. Super-nuovi. I primi figli di un nuovo secolo. Di un nuovo millennio. In fondo, esiste solo la tradizione del futuro.
Carlo Carabba è nato a Roma nel 1980. Ha pubblicato le raccolte di poesia Gli anni della pioggia (peQuod, 2008 – Premio Mondello per l'Opera Prima), Canti dell'abbandono (Mondadori 2011 – Premio Carducci e Premio Palmi) e il memoir Come un giovane uomo (Marsilio 2018 – selezionato al Premio Strega). Lavora nell'editoria.