C’erano tre gradini da salire, subito dopo il cancello. Poi una porta a vetri. Sulla destra, la portineria dove una suora era china su un tavolo in formica. Elena suonò il campanello e la suora alzò la testa quel tanto che bastava per guardarla, poi avvicinò le dita rattrappite sul pulsante. Lo pigiò un paio di volte, ma la porta non si aprì. Fece un gesto della mano come a dire: “aspetta”. Elena la vide sparire dalla portineria e ricomparire di fronte alla porta a vetri. Era gobba, e così magra che sembrava che le ossa potessero spezzarsi da un momento all’altro. Spinse il maniglione antipanico e Elena entrò nell’androne della scuola senza sapere cosa aspettarsi. Silenziò il telefono. Quel tempo apparteneva ad Anita.
L’androne era deserto e, per essere una scuola, c’era un silenzio innaturale. Si fermò di fronte alla statua della Maria Vergine, una scultura a grandezza naturale che troneggiava nell’atrio e riceveva studenti di tutte le età con le braccia protese in avanti, in una posa accogliente e misericordiosa. Elena era sempre di fretta quando accompagnava la figlia a scuola. Si fermava giusto il tempo per vederla sparire dietro il cancello ed era come se fosse la Madonna, e non le insegnanti o le suore, a prenderla in consegna. La statua della Vergine era circondata da una piccola aiuola artificiale. Elena immaginò le suore prendersi cura di quelle piante di plastica, ogni giorno, con lo stesso ritmo con cui si recitano i salmi. Sembravano fiori veri, le foglie erano lucide e prive di quella patina di polvere che hanno le piante finte nelle sale d’aspetto degli uffici. I bambini, probabilmente quelli delle elementari, avevano scritto dei pensierini su dei cartoncini rossi e li avevano appesi ai rami di una piantina di rose di plastica. Erano cose del tipo: “Proteggi la mamma e il papà”, “fa che gli uomini smettano di fare la guerra”, “veglia su di noi ogni giorno della nostra vita”. Elena cercò un biglietto che potesse essere stato scritto da Anita, ma erano troppi e dopo un po’ perse la pazienza. A destra della statua c’era una scala che saliva ai piani superiori, dove si trovavano le classi e Elena immaginò Anita seduta dietro al banco mentre scriveva le lettere sghembe facendo attenzione a non uscire dal rigo ed era un’immagine che le faceva stringere il cuore. La bambina le sembrava ancora piccola e non abbastanza matura per affrontare la prima elementare, ma le avevano detto che invece lo era e lei si era fidata. Non era più convinta di aver fatto la scelta giusta. I quaderni che Anita portava a casa erano sempre pieni di segnacci rossi e i commenti della maestra, sul lato della pagina, dicevano cose tipo: “Stai più attenta!”, “Troppi errori”, “Riscrivi!” Una volta era tornata a casa con una nota. La maestra aveva scritto che Anita non stava attenta in classe e disturbava il suo compagno di banco. Quando Elena le aveva chiesto cosa fosse successo, lei l’aveva guardata come se non sapesse di cosa parlava ed era sparita in camera sua. Poi era arrivata la richiesta del colloquio.
La maestra la stava aspettando nella sala dei ricevimenti e lei entrando si era scusata per il piccolo ritardo. La donna si limitò a sorriderle e le indicò la sedia di fronte. Elena poggiò la borsa in terra, si tolse il soprabito, che lasciò cadere sullo schienale, e incrociò le mani sul tavolo. La maestra aprì un quaderno e lei riconobbe la copertina: un cucciolo di labrador dal pelo chiaro guardava con occhi teneri l’obiettivo. Era stata Anita a sceglierlo quando l’aveva accompagnata a comprare il materiale per la scuola. Amava gli animali, soprattutto i cani. Ogni volta che per la strada ne incontrava uno, si fermava a carezzarlo. Poi chiedeva al padrone di che razza fosse il cane, se era un maschio o una femmina, infine si informava sull’età. Il fatto che ogni anno umano corrispondesse a sette anni per un cane, era una cosa che non smetteva di sorprenderla. Allora le diceva: «Pensa mamma, quel cane ha sei anni come me, ma è come se ne avesse quarantadue, come te!» Trovava crudele che la loro vita dovesse essere tanto breve e le dava la misura di quanto gli animali fossero deboli e bisognosi di protezione. Ovviamente ne desiderava uno. A Elena sarebbe piaciuto accontentarla, ma la casa era troppo piccola e lei lavorava tutto il giorno.
La maestra girò il quaderno e Elena si trovò di fronte a una pagina piena di addizioni. Non ce n’era nemmeno una corretta. 19+9= 27, 17+4=22 e via così. Ogni risultato sbagliato era cerchiato in rosso. Anita faceva i conti guardando le dita della mano, e quando si perdeva e ricominciava da capo.
Una domenica sera Elena aveva provato ad aiutarla.
«Quali numeri devi sommare?»
«Dodici più sei.»
«Allora tieni a mente il numero più grande e comincia a contare partendo da quello.»
Erano in cucina, alla fine di una giornata invernale, malinconica e piovosa. Avevano appena cenato e Anita aveva spostato i piatti e aperto il quadernone.
Elena era in piedi davanti al lavello, con le mani immerse nell’acqua saponata.
Anita aveva abbassato la testa e contava tenendo la mano sotto il tavolo.
«Sedici?»
«No. Riprova.»
Allora aveva cominciato a muovere le labbra, gli occhi al soffitto, le dita che si sollevavano, una dopo l’altra.
«Diciannove.»
«Ma come diciannove?»
Aveva alzato la voce, di solito non lo faceva mai.
«È come fare due più sei e al risultato aggiungi dieci!»
Poi si era tolta i guanti di gomma e li aveva lanciati sul tavolo, vicino al quaderno. Delle gocce di acqua erano finite sulla pagina e Anita aveva fatto uno scatto indietro.
«Parti dal dodici, poi conti… tredici, quattordici, quindici…»
Gli occhi della bambina si erano riempiti di lacrime, ma Elena non era riuscita a fermarsi e alla fine aveva gridato.
«Sedici, diciassette, diciotto!»
Anita aveva gettato il quaderno a terra ed era fuggita in camera sua.
«Sua figlia è indietro rispetto al resto della classe, signora. All’inizio teneva il passo con gli altri, ma poi si è persa.»
La maestra aspettava che dicesse qualcosa, ma a lei sembrava di non aver niente da dire. Sua figlia si era persa. Non capita forse a tutti di perdersi, ogni tanto? A lei succedeva anche ora.
«Ha compiuto sei anni da poco. Forse è solo piccola.»
«Non è l’unica, signora. Altri bambini sono anticipatari come lei.»
Si era sentita improvvisamente inadeguata e impotente. Come se qualcuno le avesse affidato un incarico che lei non era in grado di portare a termine.
«Cosa propone di fare?» chiese alla maestra.
La donna inclinò la testa di lato, come fanno alcuni animali quando una situazione non è chiara, e si voltò verso la grande finestra alla sua sinistra. Anche Elena prese a guardare nella stessa direzione, ma non vide niente, là fuori, che potesse venirle in soccorso.
«Dovrebbe togliere sua figlia dal doposcuola e fare i compiti con lei. Il pomeriggio ho altri bambini da seguire e tutti di età diverse, non posso prestarle l’attenzione di cui ha bisogno.»
La maestra aveva i capelli strizzati in una lunga coda di cavallo e quando parlava socchiudeva leggermente gli occhi. Forse era miope e le dava fastidio la luce. Doveva essere più giovane di lei.
«Lavoro tutto il giorno e sono sola. Non saprei davvero come fare.»
La maestra aprì un altro quaderno e porgendoglielo disse: «Questo è quello di italiano. È un dettato. Le parole che ho cerchiato in rosso le conosce benissimo, le abbiamo studiate tutto l’anno.» Fece di nuovo quel movimento della testa.
Elena vide che le lettere erano irregolari e mai simili tra loro. Sembravano scritte da due o tre persone diverse. Le parole erano quasi tutte sbagliate. Anita aveva scritto “apogiare”, “cestelo”.
La maestra riprese il quaderno e ne aprì un altro. «Le mostro il quaderno di una sua compagna e non sto parlando della più brava.»
Elena mise a confronto le due calligrafie. La maestra non aveva torto: la scrittura dell’altra bambina era precisa, lineare e le lettere stavano ognuna nel proprio quadretto, mentre quelle di Anita si proiettavano in avanti, fuori dai margini, come se si fossero piegate a una folata di vento.
Elena aveva studiato i due quaderni in silenzio. Avrebbe voluto dire alla maestra che quando lei era piccola, nessuno della sua famiglia si era mai preoccupato di come scrivesse, leggesse o facesse di conto.
La maestra riprese entrambi i quaderni e li mise uno sopra l’altro, alla sua destra. Incrociò le mani sul tavolo e Elena notò le unghie lunghe e laccate con smalto semipermanente color fango.
«Signora, mancano ancora due mesi alla fine della scuola e se sua figlia è seguita con attenzione, può ancora recuperare. Siamo in prima elementare e non ci saranno ripercussioni sulla pagella. Ma se non fa questo sforzo ora, l’anno prossimo per lei sarà ancora più faticoso.»
Elena raccolse la borsa da terra, e alzandosi prese anche il cappotto. Poi ringraziò la maestra, dicendole che avrebbe trovato una soluzione.
L’androne era ancora deserto. Le sarebbe piaciuto incontrare Anita ma mancava molto alla ricreazione. Una volta l’aveva incontrata a scuola. Doveva pagare la mensa e Anita stava tornando in classe dopo aver giocato in cortile. Era sudata, i capelli erano usciti dalla coda e le scendevano morbidi lungo le guance arrossate. Teneva per mano una compagna di classe e parlavano fitto, ridendo a ogni cosa. Anita non le raccontava mai niente di quello che faceva a scuola; Elena era convinta che fosse solitaria, come anche lei era stata alla sua età. Quel giorno aveva capito che c’erano tante cose che non sapeva di lei e la scoperta l’aveva resa felice e triste allo stesso tempo. Era rimasta a guardare Anita nascosta dietro il distributore di merendine perché voleva continuare a guardarla ma poi lei e la sua amichetta erano sparite dietro la curva delle scale e Elena aveva potuto sentire solo le loro voci che pian piano si facevano più lontane.
Uscì dalla scuola e si diresse alla fermata. Quando il tram si fermò, rimase ad aspettare che scendessero le persone, ma al momento di salire cambiò idea. Non sarebbe andata a lavorare. Telefonò per dire che non si sentiva bene. Lavorava nella zona industriale della città, si occupava della contabilità di una piccola azienda che produceva bulloni. Era un lavoro che richiedeva ordine e metodo. Per i conti usava il calcolatore. Non ci voleva un genio per farlo. I bulloni che producevano nella fabbrica erano quelli che venivano usati per i guardrail delle autostrade. All’inizio non era stato facile imparare che tipo di prodotto trattavano, perché i bulloni non erano tutti uguali e avevano misure e forme diverse. Con il tempo Elena aveva imparato e ora era in grado di distinguere i bulloni a testa tonda con ovale, da quelli con testa tonda con esagono o con esagono incassato. Non le dispiacevano i bulloni. Non erano un concetto astratto, ma una cosa reale e servivano per uno scopo preciso. Se il bullone aveva la zigrinatura difettosa, non entrava nel buco e andava cambiato. Era semplice. Il suo ufficio era un piccolo prefabbricato poco distante dal capannone principale e lo divideva con una segretaria, una ragazza dell’est, più giovane di lei e molto efficiente. Si chiamava Roxy e anche lei aveva un figlio della stessa età di Anita, ma non si erano mai incontrati perché Roxy abitava dalla parte opposta a dove stava lei. Il marito l’aveva lasciata per tornare in Romania e si era risposato. A Roxy non passava nemmeno il mantenimento per il bambino. Lei, però, era sempre allegra e piena di uomini che la corteggiavano.
«Perché non ti risposi?» le aveva chiesto Elena una volta.
Roxy teneva in mano uno specchietto tondo e nell’altra una pinzetta. Si tirava via le sopracciglia di troppo con una maestria che Elena invidiava.
«Perché dovrei?»
«Non so. Sei giovane.»
«Il matrimonio non è fatto per i giovani.» Roxy soffiava sulla pinzetta per mandare via i peli in eccesso. «E poi non voglio più mettermi estranei dentro casa.»
Anche Roxy prendeva il treno e, a fine giornata, si salutavano sulla banchina della stazione. Roxy prendeva quello diretto a Fiumicino, mentre lei andava nella parte nord della città. Le piaceva cambiare compagni di viaggio ogni giorno, confondersi con le persone sul treno o per strada, essere una fra tanti, sapere di potersi anche perdere.
Quella mattina, quando aveva chiamato in ufficio, era stata Roxy a prendere la telefonata. Le aveva detto di non preoccuparsi, che ci avrebbe pensato lei a portare avanti la baracca. Aveva detto proprio così e Elena aveva sorriso anche se Roxy non poteva vederla. L’aveva immaginata dietro la sua scrivania, mentre si spalmava dello smalto rosa fucsia o si passava il rossetto sulla labbra. Roxy non sapeva quasi niente della sua vita, eppure la considerava un’amica.
Passò di nuovo di fronte alla scuola. Il cancello era chiuso e sentiva il vociare dei bambini dalle finestre. Seguì la strada delle rotaie del tram, quella che portava al capolinea degli autobus e si fermò in uno dei tanti negozi internazionali del quartiere. Quella piazza, quando era ragazzina, era un campo terroso e circondato da alberi di melograni. C’erano alberi di melograni dappertutto; ci giocavano i bambini e ogni giorno qualcuno faceva indigestione. Poi era diventato un campo da baseball, e ogni volta che Elena ci passava davanti, si fermava a guardare i ragazzi che con la mazza dovevano colpire la palla e le sembrava di stare in qualche periferia americana che aveva visto solo nei film. Dopo ancora cementificarono tutto e divenne una piazza impersonale e che nessuno aveva voglia di frequentare. Gli alberi di melograno erano stati tagliati e, al loro posto, c’erano dei muretti di cemento alti mezzo metro. Infine divenne un capolinea degli autobus. E Anita, che era ancora piccola, aveva visto solo quello. Durante il giorno c’erano persone di tutte le etnie, studenti di scuole medie e superiori, professionisti che andavano in ufficio. Di notte, invece, era praticamente deserto. Suo nonno le aveva raccontato che quando era giovane, da casa poteva sentire gli spari che venivano dal poligono di tiro di Tor di Quinto. Nel mezzo c’era un fiume e più di un chilometro di distanza eppure il silenzio era tale, che si aveva l’impressione di vivere in campagna.
Elena comprò puntarelle e pasta d’acciughe poi, con il sacchetto nell’incavo del gomito, andò a sedersi su un muretto della piazza e si mise a guardare dei giovani peruviani, pantaloni calati e bandana intorno alla testa, che improvvisavano un ballo da strada. Alcuni ragazzini si erano fermati a guardarli e tenevano il ritmo della musica con il piede. Poco distante, un gabbiano e una cornacchia si stavano accanendo su un pezzo di pane lasciato cadere da qualcuno e gracchiavano e si beccavano a vicenda. Voleva vedere come sarebbe andata a finire, ma il calcio ben assestato di un passante fece volare lontano la preda, e disperse i predatori.
Passò davanti alla chiesa di Sant’Andrea. La preferita della bambina. «Sembra fatta per gli gnomi» diceva sempre. In effetti c’era lo spazio sufficiente per quattro o cinque file di inginocchiatoi e la domenica le persone si radunavano fuori dalla porta, perché non tutti riuscivano a prendere posto, così ascoltavano l’omelia in piedi, sul marciapiede. Era una chiesa del XIII secolo e non era difficile immaginarla ai bordi di campi seminati, con una strada sterrata che le scorreva di fronte, quando ancora le persone si muovevano a piedi oppure in carrozza. La città le era cresciuta intorno a dismisura. Sempre suo nonno le aveva raccontato che quella chiesa ospitava i pellegrini che entravano nella Città Santa passando da nord. Attraversavano Ponte Milvio e poi percorrevano tutta via Flaminia, fino a Piazza del Popolo. Ogni tanto, nel viaggio, qualcuno moriva. Allora, intorno alla chiesa era sorto un piccolo cimitero dedicato ai forestieri che a Roma terminavano il loro viaggio. Elena pensava spesso alle persone che li avevano aspettati, invano.
L’appartamento dove abitavano lei e Anita, faceva parte di un comprensorio di ex case popolari che, all’inizio del secolo scorso, erano state costruite per i dipendenti delle ferrovie. I palazzi sorgevano intorno ad un cortile interno, dove i bambini si tiravano un pallone o andavano in bicicletta. D’estate, quando non c’erano la scuola e i compiti, Anita scendeva e trovava sempre qualcuno con cui giocare.
Entrò in casa e aprì le persiane della camera da letto. Quella mattina, sapendo di dover incontrare la maestra, aveva fatto le cose di fretta e tutto era rimasto come l’aveva lasciato prima di uscire. Sfilò le lenzuola dal materasso e le mise fuori dalla finestra a prendere aria. Prese un bicchiere dal comodino e lo poggiò sul lavandino della cucina. Nella macchinetta c’era ancora un po’ di caffè. Era freddo, ma andava bene lo stesso. Lo versò nella tazzina e si mise seduta sul divano del salotto. Non aveva voglia di fare niente.
Avrebbe potuto usare quel tempo per pulire e mettere in ordine e invece rimase seduta un tempo imprecisato. Quando le venne fame, si rese conto che era già l’ora di pranzo. Pensò ad Anita. La immaginò alla mensa della scuola, seduta fra i compagni mentre mangiava le cose servite dalle suore. Ogni sera, prima di mettersi a cena, Anita giungeva le mani e diceva una preghiera. «Signore benedici questo cibo che abbiamo davanti…»
Una volta aveva avuto l’impressione che lei le stesse mentendo. «Guarda mamma che Gesù ti vede e se stai dicendo una bugia se ne accorge.»
Elena non si era fatta impressionare. «Credo che Gesù abbia di meglio da fare che stare a guardare quello che dico io.»
Anita l’aveva guardata colma di indignazione. «Mamma, Dio esiste!»
Elena non aveva detto più niente. Le faceva piacere che la figlia credesse in qualcosa. Era sempre meglio che non credere in niente. E poi chi era lei per parlare di Dio?
Andò in cucina e prese un pezzo di pane avanzato dalla sera precedente, poi entrò nella camera di Anita. Fra le lenzuola arrotolate trovò il suo pigiama. Lo piegò e lo mise sotto il cuscino. Sulla maglietta c’era scritto: “svegliami quando sono famosa”. La maglietta le arrivava fino alle ginocchia, ma lei aveva insistito perché gliela comprasse. Poi le aveva chiesto: «Come si fa a diventare famosi, mamma?»
«Non lo so» aveva detto. Ed era vero. Non c’era persona meno indicata di lei per rispondere a una domanda del genere. Poi però aveva aggiunto: «Bisogna avere talento, credo. O molta fortuna. O entrambe le cose.»
Non erano più tornate sull’argomento.
La camera di Anita era la stanza più ordinata della casa. Forse perché passava la maggior parte del tempo a scuola o forse perché non le piaceva vivere nel disordine. Elena pensava che sua figlia non le somigliasse molto e che lei, quando aveva la sua età, era molto più spaventata dagli adulti e dalla vita in generale. Forse anche Anita lo era, per questo non sapeva fare i conti e scriveva fuori dai margini, però a guardarla non sembrava. Non abbassava mai lo sguardo quando parlava con qualcuno e anche se non poteva mai invitare i suoi amici a casa durante la settimana, lei aveva l’impressione che andasse d’accordo con tutti.
Una domenica le aveva chiesto se poteva portare il suo compagno di classe Gabriele a pranzo da loro e lei aveva accettato perché Anita sembrava tenerci molto. Per non fare brutta figura era andata alla rosticceria sotto casa e aveva comprato un pollo arrosto e una montagna di patate al forno. Oliose e croccanti. Poi aveva preparato una crostata di visciole. Era l’unico dolce che sapesse cucinare e le veniva bene. Non voleva che Anita si vergognasse di lei. Non che ce ne fosse motivo, ma era sicura che le altre mamme fossero delle cuoche migliori. Ogni fine anno la scuola metteva a disposizione il cortile per festeggiare l’arrivo dell’estate e i genitori portavano ognuno qualcosa da mangiare. C’erano lasagne, buonissime paste fredde, pizza fatta in casa. Anita portava a scuola sempre la crostata. Non si era mai lamentata, ma una volta le aveva chiesto di cambiare almeno la marmellata che ci metteva sopra.
«La marmellata di visciole è la più buona in assoluto!»
«Non puoi almeno metterne una di colore diverso?»
Si era un po’ offesa, ma l’aveva accontentata. La sua crostata era proprio la fine del mondo e ogni volta tutti le facevano moltissimi complimenti. Anche Gabriele le aveva detto che era buonissima. Era un bambino con i capelli rossi e una montagna di lentiggini sparse su tutto il viso e aveva un affetto speciale per Anita. Si conoscevano dall’asilo e si erano sempre piaciuti. Elena non conosceva la mamma di Gabriele e avrebbe voluto chiederle se anche lui aveva difficoltà con i conti. In realtà le sembrava un tipo sveglio, quando faceva i compiti con Anita le dava sempre una mano. Dopo pranzo erano scesi in cortile con un pallone e dopo poco erano tornati a casa. Gabriele era caduto e si era sbucciato un ginocchio. Un rivolo di sangue gli scendeva lungo il polpaccio ed era andato a finire dentro il calzino. Lei lo aveva disinfettato e aveva detto ad Anita di prestargliene un paio dei suoi. Si era sentita terribilmente in colpa e non faceva che chiedergli scusa. Quando poi era andato via la figlia l’aveva rimproverata. «Non è mica colpa tua se si è fatto male!»
Naturalmente aveva ragione, ma non poteva capire cosa significasse avere la responsabilità di un bambino che non è il tuo. Gabriele era tornato altre volte a giocare con Anita e lei ogni volta gli chiedeva come andasse il ginocchio. Anche quando ormai era guarito e non si vedeva nemmeno più la cicatrice. Quella volta che era stata a scuola l’aveva vista con un’amica, ma a lei non parlava mai di nessuno tranne che del bambino con le lentiggini.
Elena si guardò di nuovo intorno. Le piaceva quello che vedeva: il piumino rosa, il poster di Frozen attaccato alla parete, la mensola su cui la bambina aveva messo tutte le sorpresine degli ovetti. Le piaceva un po’ meno la vasca di plastica con le tartarughe marine, ma erano l’unica forma animale che poteva permettersi e ormai si era affezionata. Anita aveva messo la vasca su un ripiano, vicino al letto, per averle sempre vicino. Ogni tanto parlava con loro. Una volta Elena l’aveva sentita chiedere alle tartarughe se poteva ripetergli la poesia per scuola. Aveva risposto al loro posto con una voce in falsetto piena di entusiasmo.
Non mangiavano dalla sera prima. Di solito ci pensava Anita quando tornava da scuola, era un compito che teneva in grande considerazione.
Elena si era avvicinata alla vasca e le tartarughe erano andate a nascondersi sotto la finta grotta. Rino aveva detto alla bambina di tenerle al sole per prendere i raggi uva e invece stavano sempre lì sotto quella grotta finta. «Se le curi con attenzione, possono vivere fino a dieci anni» le aveva detto Rino. Anita aveva strabuzzato gli occhi. Per lei dieci anni erano un tempo vicino all’infinito.
Elena aprì la scatola del mangime che Anita teneva accanto alla vasca. Erano rimasti sì e no dieci gamberetti essiccati, e puzzavano di pesce andato a male. Elena svuotò tutto il contenuto nella gabbia. Rino aveva detto che quella con il guscio più scuro e le unghie più lunghe era il maschio. Anita l’aveva preso in parola. Il maschio si chiamava Arturo e la femmina Clementina. Arturo era sempre il primo a intercettare il cibo e, se necessario, lo strappava dalla bocca della compagna. Spalancava la bocca per afferrare il gamberetto, allungava il collo fino a quando la cartilagine attaccata al guscio non si tendeva completamente, poi lo inghiottiva. Una volta lei e Anita avevano visto Clementina mentre rigettava tutti i gamberetti appena ingoiati. Se li era mangiati troppo in fretta. «È ingorda» aveva detto la bambina. Elena era rimasta sorpresa nel sentirle usare un’espressione tanto ricercata.
Un gamberetto si era impigliato nelle unghie di Arturo. Lo afferrava con la bocca e intanto tirava, ma si era impigliato proprio bene e non c’era verso di staccarlo. Elena infilò un dito nell’acqua e lo aiutò, tenendoglielo fermo con il polpastrello. Arturo, invece di esserle grato, si era spaventato ed era scappato via.
«Lascia qualcosa per tua moglie, se non vuoi che muoia di fame!»
Arturo era andato a nascondersi nella grotta di plastica, ma faceva capolino con la testa, come se potesse sentirla. Raccolse dei pantaloni dal pavimento e, quando stava per uscire, tornò indietro. Era un sacco di tempo che non apriva l’armadio. Pensò che era diventato troppo piccolo per contenere tutte le cose della bambina e che forse avrebbe dovuto comprarne uno nuovo. Ne aveva visti alcuni in offerta che le erano piaciuti. Ma li avrebbe fatti vedere ad Anita prima di decidere.
I quaderni di scuola erano impilati uno sull’altro e non c’era quasi più spazio per mettere quelli che avrebbe usato nei prossimi mesi. Liberò un paio di scaffali, e cominciò a guardare i quaderni uno per uno, per vedere se c’era qualcosa che potesse buttare. Ne scartò un paio che risalivano all’inizio dell’anno, quando ancora Anita stava imparando a leggere e a scrivere, poi in mezzo alla pila, trovò un blocco da disegno. Era la prima volta che lo vedeva ed era certa che non facesse parte delle cose per la scuola. I disegni la maestra glieli faceva tenere in classe, per poi portarli a casa alla fine dell’anno scolastico.
All’inizio pensò che forse non avrebbe dovuto guardare fra le cose di sua figlia, ma poi si disse che infondo non c’era niente di male. Non era un diario segreto, solo disegni. Anita adorava disegnare laghetti di campagna in cui nuotavano le papere. Elena non l’aveva mai portata allo zoo, né in una fattoria, e non avevano mai guardato un documentario sulle anatre selvatiche, eppure sembrava che Anita ne fosse ossessionata. Dopo le papere cominciavano una serie di ritratti di cani. Ce n’erano di tutte le razze e tutte le dimensioni. Aveva un tratto maturo, da professionista e Elena ebbe il dubbio che li avesse fatti davvero Anita. A uno sguardo più attento si intuiva la mano infantile ma, a colpo d’occhio, sembravano ritratti di un esperto. Uno in particolare colpì la sua attenzione. Era un primo piano di un labrador. Somigliava a quello che stava sulla copertina del quaderno di scuola. Aveva uno sguardo vivace e le orecchie ritte, una stellina bianca al centro della fronte. Dalla bocca leggermente aperta pendeva la lingua rosa. La cosa che la colpì era la sapienza in cui Anita aveva usato i colori a pastello. Erano definiti in alcuni punti, sfumati su altri e questo dava al disegno profondità e verosimiglianza. Evidentemente la bambina usava il dorso della mano per fare le sfumature e Elena ricordò che aveva spesso il dorso della mano destra sporco di colore. Poi pensò di aver visto un cane uguale da qualche parte. Si era alzata ed era andata in cucina. Vicino al frigorifero, appeso ad un gancio, c’era un calendario. Una ragazza con il dred e un piercing al naso l’aveva fermata qualche tempo prima, in mezzo alla strada. Lavorava per un canile e raccoglieva fondi per i cani abbandonati. Lei aveva solo un euro. Si era dispiaciuta di poterle dare così poco, ma la ragazza l’aveva ringraziata.
«Meglio che un dito in un occhio, non trova?»
La ragazza si era messa in tasca la moneta e le aveva regalato il calendario. Anita ne era stata entusiasta e l’aveva attaccato in cucina. Voleva essere lei a cambiare la pagina a ogni passaggio del mese.
Elena portò il calendario in camera e mise a confronto la fotografia del cane con il disegno di Anita. Il cane ritratto dalla figlia era identico a quello del mese di maggio. Stesso sguardo, stessa espressione. Nel disegno sua figlia dimostrava la consapevolezza di una persona grande.
Dal blocco scivolò via un foglio. Elena si chinò per raccoglierlo e quello che vide le fermò il cuore in gola. Il taglio degli occhi, il mento un po’ sfuggente, i capelli che toccavano le spalle. Gli somigliava così tanto che non poteva che essere lui. Eppure Anita non l’aveva mai visto. Non aveva mai conosciuto suo padre.
Elena andò a sedersi sul letto. Teneva fra le mani quel foglio di carta A4, ed era come rivederlo dopo tanti anni. Credeva di aver dimenticato il viso. Davvero pensava di non ricordarlo più. Aveva cercato più volte di rievocare la sua voce, ma era stato impossibile. Le avevano detto che la voce è la prima cosa che si dimentica di una persona, e lei aveva provato a trattenerla fino all’ultimo. Ma anche quella, alla fine, se n’era andata.
«Le femmine somigliano ai padri» le diceva sua madre. Lei aveva sperato con tutta sé stessa che si sbagliasse. E invece aveva avuto ragione.
Anita cresceva e Elena, giorno dopo giorno, lo aveva rivisto vivere in lei. Aveva lo stesso colore di occhi e lo stesso modo di camminare, con i piedi un po’ in dentro e le braccia molli lungo i fianchi. Gli zigomi alti, gli incisivi separati, e quel modo di guardare le persone, fra il serio e il canzonatorio, che era uno dei suoi tratti principali. Come se fosse entrato dentro la bambina e l’avesse plasmata a sua immagine e somiglianza. Anita aveva i capelli chiari, biondi quasi come quelli di Elena, ma i suoi erano mossi, mentre sua figlia li aveva lisci, come lui. Elena si era chiesta spesso se il destino, dando ad Anita gli stessi tratti somatici del padre, non avesse voluto renderle la prova ancora più dura.
Un giorno, quando Anita era ancora un feto grande come un fagiolo, lui era sparito. Una domenica Elena era uscita a fare una passeggiata e lui era rimasto a casa a leggere il giornale. Quando era tornata lui non c’era più. Il portafoglio con i soldi e i documenti era sul tavolo, lì dove lo aveva lasciato, insieme al telefono e alle chiavi di casa. La macchinetta del caffè era ancora calda e nel lavello c’era la tazzina sporca.
Lo avevano cercato a lungo. Non solo lei, ma anche i loro amici, la polizia. Per quanto tutti si fossero sforzati di capire, non c’era logica in quello che era capitato. Come poteva succedere che una persona che si diceva felice di avere un figlio che desiderava, scomparisse da un momento all’altro senza lasciare più traccia di sé? Intorno a quel mistero Elena aveva costruito la sua vita. Era stato come edificare una città sul bordo di un burrone, come vivere, ogni giorno, sull’orlo del precipizio.
Anita era nata a otto mesi esatti dalla sua sparizione e lei, da subito, aveva deciso di non gettarle addosso la condizione del lutto. Non voleva che crescesse come lei aveva vissuto fino a quel momento, con il costante pensiero di quell’assenza. Per questo non c’erano fotografie di lui, né altro che gli fosse appartenuto. Sigillare tutto in una scatola e nasconderla alla vista era stato il suo modo di proteggere la figlia e, forse, anche se stessa. Anita vedeva i padri degli altri, ma non le aveva mai chiesto niente e lei, in qualche modo, le era stata grata. Siccome non faceva domande, Elena aveva cominciato a pensare che non le importasse. Invece, forse, si era sbagliata e le importava moltissimo.
Lei e Federico non avevano fatto in tempo a scegliere il nome.
È ancora presto, si erano detti. Aspettiamo di sapere se è maschio o femmina. Al quinto mese di gravidanza Elena aveva saputo che sarebbe stata una femmina; ma quando le persone le chiedevano come l’avrebbe chiamata, lei rispondeva che aspettava di guardarla in faccia, per decidere. Ma non era vero, non era per quello. Come poteva dare un’identità a sua figlia, se lei per prima non conosceva la sua?
Sua madre aveva iniziato a incalzarla subito dopo la nascita della Anita. Ogni volta che andava in ospedale le diceva: «Bisogna darle un nome, dobbiamo registrarla all’anagrafe. Altrimenti è come se non esistesse.» Elena non le rispondeva. Stesa sul letto, si voltava dall’altra parte e rimaneva a fissare la parete, con lo sguardo rivolto al niente, fino a quando la neonata cominciava a piangere. Allora la prendeva e l’attaccava al seno. Riusciva a prendersi cura di lei, a cambiarla e a disinfettarle il cordone ombelicale. La cullava e la teneva poggiata sul petto tutto il tempo. Ma ancora non riusciva a darle un nome. Ogni giorno un’infermiera, la caposala o l’ostetrica entravano nella sua stanza con i documenti per registrare la bambina; Elena li teneva in mano per un poco, li guardava senza vederli veramente e li rimandava indietro vuoti. Fu sua madre a prendere in mano la situazione. Senza dirle niente andò all’anagrafe e diede alla bambina il nome Anita, che significava misericordia e grazia divina. Le era sembrato appropriato, di buon auspicio. Quando tornò in ospedale, disse: «L’ho fatto io. L’ho chiamata Anita.» Elena aveva guadato il foglio con il nome della figlia scritto sopra e aveva sentito una specie di tonfo nel cuore, perché solo in quel momento si era resa conto che sua figlia non avrebbe potuto chiamarsi che così. Era stata Anita da sempre, da prima ancora di essere pensata e desiderata.
Il volume della televisione si sentiva da fuori la porta. “Affrettatevi”, diceva una voce maschile, “queste sono occasioni che capitano una sola volta nella vita!”
Elena girò la chiave nella toppa, e per attraversare il corridoio fece la solita gincana fra gli appendiabiti che sua madre disseminava per casa. Una rella in acciaio, di quelle che si usano nei negozi per esporre la merce, era di traverso e impediva il passaggio. La portiera andava tutti i giorni a portarle la spesa ma sua madre non la voleva, le faceva la guerra. Si era messa in testa che fosse una testimone di Geova e che volesse convertirla. Era un’impresa attraversare il corridoio sulla sedia a rotelle, spostare le relle e tornare indietro. Sudava e ogni tanto si faceva pure male, ma non c’era giorno che non si sottoponesse a quello sforzo, pur di impedirle l’ingresso. Ne metteva una di fila all’altra, così che la portiera impiegava dieci minuti solo per spostarle. Una volta la donna aveva chiamato Elena al lavoro perché sua madre si era chiusa in casa e non voleva farla entrare. «Dobbiamo risolvere questa situazione, signora. Così non è possibile andare avanti.»
Elena aveva raggiunto il compromesso che la portiera lasciasse i sacchetti sul pianerottolo. La madre però non si fidava e continuava a mettere ostacoli davanti alla porta.
C’erano altri due appendiabiti in acciaio posizionati lungo la parete destra, due lungo quella sinistra. E poi anche in cucina, nel bagno degli ospiti e in salotto. Collezionava vestiti come una volta si collezionavano bambole di ceramica. Nell’appenderli sua madre non seguiva un ordine, né di taglio, né di colore, li metteva dove trovava uno spazio libero. Sembrava la casa di una costumista di cinema o di teatro. Elena una volta aveva contato venti gonne plissettate di varie sfumature di verde, quindici camice di seta, altrettante di cotone e trenta camice di raso nero. Tutti gli abiti erano coperti dal cellophane con cui erano arrivati e non ne aveva mai indossato nemmeno uno.
C’era odore di chiuso e di qualcosa andato a male. Con sua madre non si poteva mai sapere, perché nascondeva il cibo dove poteva e poi se lo dimenticava. Quando lei e Anita andavano a trovarla passavano il tempo a bonificare la casa. Era un compito che Anita assolveva con grande serietà. Si portava una piccola torcia con la luce a led e con quella in mano ispezionava gli angoli più difficili e nascosti. Le sue manine arrivavano dappertutto e, siccome era sottile, riusciva ad infilarsi in pertugi che erano preclusi a un adulto. Una volta, nell’armadio dei medicinali, aveva trovato un pezzo di carne decomposto, completamente ricoperto di piccoli vermi bianchi che si contorcevano. La bambina aveva gridato ed era scappata via. L’orrore era stato tale che, per qualche tempo, aveva abdicato al suo compito, rifiutandosi perfino di entrare in casa della nonna. Elena non l’aveva forzata e, con il tempo, Anita aveva ricominciato ad assolvere il suo compito, anche se dopo quell’esperienza era diventata meno audace. La piccola adorava tutti quei vestiti e la nonna, era una concessione che faceva a lei soltanto, le consentiva di provarli. Anita ci cascava dentro, allora la nonna le diceva: «Vieni qui», e con gesti esperti glieli sistemava addosso. Poi la faceva allontanare per vedere che effetto le facessero addosso e diceva cose tipo: «Che meraviglia! Quando sarai grande, questo sarà tuo.» E Anita sgranava gli occhi e batteva le mani.
Elena spalancò un paio di finestre e l’aria si fece più respirabile. Poi entrò in salotto. Sua madre era sulla sedia a rotelle, ancora in vestaglia e guardava una televendita mangiando un pacchetto di patatine. Teneva le gambe leggermente divaricate e i piedi grassi e informi erano poggiati sul predellino della sedia. Elena si avvicinò alla sedia e le strappò le patatine dalle mani. La madre si voltò di scatto, le braccia protese verso il maltolto, ma poi abbassò la testa. Sapeva di essere in torto, quindi non disse niente. Elena infilò il pacchetto di patatine nella tasca del cappotto e si mise seduta sull’unica poltrona del salotto.
«Come stai?»
«Visto che bello?» disse indicando la televisione.
Un uomo e una donna in tenuta sportiva correvano sorridenti su un tapis roulant mentre una voce fuori campo ne decantava le qualità.
«Cosa pensi di farci se nemmeno cammini?»
«Non starò su questa sedia per tutta la vita. Quando dimagrirò avrò bisogno di fare moto e mi servirà.»
«Se non smetti di mangiare non dimagrirai mai.»
«Siete una generazione senza coraggio! Camminerò, e su quel coso… riuscirò perfino a correre!»
Elena si era avvicinata al televisore e aveva abbassato il volume. «La bambina ha fatto un disegno.»
Sua madre aveva immediatamente distolto lo sguardo dal televisore. «Perché non è con te?»
«È a scuola.»
Elena prese il ritratto dalla borsa e glielo mise davanti. La donna strizzò gli occhi per metterlo a fuoco. Lo avvicinò e lo spostò dal viso. Sembrava un gioco. Poi si portò una mano alla bocca. Guardava il disegno con tenerezza, commozione quasi. Finché gli occhi cominciarono a luccicare. Si erano inumiditi. «Perché Anita ha disegnato Fernando?»
«Chi è Fernando?» disse Elena.
“Il portiere. È sempre così gentile con me.”
“È morto vent’anni fa, mamma.”
Sua madre ci aveva pensato un po’ su. «Allora chi è, se non è Fernando?»
«Guardalo meglio.»
Ma sua madre aveva distolto lo sguardo dal foglio. «Su ogni tapis roulant c’è un piccolo computer che indica la velocità a cui stai andando, i chilometri e le calorie bruciate. Non trovi che sia incredibile?»
«A te non serve il contachilometri. Sarebbe sufficiente uscire, e di tanto in tanto fare una passeggiata. Ti farebbe bene prendere un po’ d’aria.»
«Non ho bisogno di aria. Apro le finestre e ho tutta l’aria di cui ho bisogno.»
«Non è la stessa cosa, però.»
La madre aveva alzato le spalle, come per dire che per lei, invece, lo era.
Elena scivolò sul bordo della poltrona e si sporse in avanti, con il disegno in mano. «Mamma, non trovi che somigli a Federico?»
La madre sembrava non aver capito o sentito; continuava a tenere lo sguardo sul televisore, come se in quel momento, in quella stanza, non ci fossero che lei e i due sportivi che correvano sul tappeto. Poi, a un tratto, si voltò, e la rapidità con cui le strappò il foglio dalla mano la sorpresa. Si chinò e cominciò a studiarlo. Con il dito indice, tozzo e cicciottello, sfiorava l’ovale del viso disegnato a matita, il naso appuntito, le sopracciglia folte. Elena percepì il cambio di ritmo del suo respiro. Si era fatto più pesante e veloce allo stesso tempo. «Guarda» le disse indicando lo schermo. Il foglio le era scivolato via dalla mano e Elena lo aveva ripreso al volo. Alla tv una signora in carne, grembiule e cuffia da cuoca in testa, stava presentando un set di coperchi per pentole disposti in ordine di grandezza su un lungo tavolo bianco.
Elena scese dalla poltrona, si inginocchiò di fianco alla carrozzella e, benché il fianco premesse contro la ruota, poggiò la testa sulla gamba nuda della madre. Con il dito cominciò a percorrere le strade tortuose delle vene. Erano tanti fiumi verdi e blu e con il polpastrello lei seguiva le anse, gli affluenti, i piccoli torrenti. La madre prese ad accarezzarle i capelli. Mentre la mano andava e veniva sulla sua testa, si mise a cantare una canzone, una specie di nenia popolare che già altre volte Elena aveva sentito da piccola. Era una canzone straziante che parlava di una bambina che era stata abbandonata quando era piccola, che poi era cresciuta e ora stringeva al petto la sua bambina appena nata.
La guancia si era appiccicata alla pelle della gamba, e anche se le dava fastidio non voleva muoversi. La voce della madre sembrava quella di una ragazzina. Quando cantava, tornava a essere quella che era stata un tempo. Prima della sparizione di Federico. Prima della vecchiaia.
“In questo modo i cibi si cuociono in maniera uniforme, senza l’effetto bollito della cottura a vapore” diceva la donna alla televisione.
La voce della madre si affievolì, fino a interrompersi del tutto. Anche la mano con cui la stava carezzando si fermò e ora stava lì, inerme, tra la fronte e la tempia, come una cosa abbandonata.
Quando si era staccata dalla gamba nuda della madre la guancia aveva fatto una specie ciac. Non si era accorta che russava, la bocca un poco aperta e la testa reclinata sulla spalla. Elena rimase un istante a guardarla. Poi le strinse il bavero della vestaglia sul petto, chiuse le ante della finestra e abbassò il volume della televisione. Lasciò il telecomando nella sacchetta porta oggetti cucita sulla carrozzina e affrontò a ritroso lo stesso percorso a ostacoli dell’andata.
Salì sull’autobus per tornare a casa, ma quando fu il momento di scendere ci ripensò. Era la seconda volta, in un giorno, che cambiava idea senza nemmeno rifletterci. Aveva preso un posto vicino al finestrino e guardava la città scorrerle a fianco; le sembrava di essere un elemento estraneo a tutto il resto. I piedi che poggiavano per terra, le natiche e la schiena sulla sedia smaltata. Teneva la borsa sulle ginocchia, le mani strette intorno ai manici. A un tratto aprì per controllare che il disegno fosse ancora al suo posto. Era una di quelle borse di pelle rigide e il foglio ci stava pelo pelo. Lo aveva dovuto arrotolare in un tubo per non piegarlo. Si voltò di nuovo verso il finestrino. C’era un forte vento di tramontana che agitava i lunghi piccioli dei pioppi e il cielo era pulito, senza nemmeno una nuvola.
Anche quella mattina tirava vento di tramontana. Era stata svegliata dalle persiane che sbattevano e dal rumore dei bambini che giocavano a pallone nel vicolo sotto la sua finestra. Era tardi. Si era alzata e aveva fatto un giro per casa in mutande e canottiera. Si erano trasferiti da poco e c’erano ancora gli scatoloni in un angolo del salotto. Tutti segni inequivocabili di una nuova vita che premeva per cominciare. Poi era andata in bagno e aveva sorpreso Federico mentre, in piedi davanti al lavandino, si tagliava le unghie con una tronchesina. Ricordava la curvatura della sua schiena nuda e la spina dorsale che spingeva sulla pelle, ma non era sicura che lui si fosse voltato davvero a guardarla quando era entrata. Le aveva sorriso e due o tre rughe d’espressione si erano formate alle estremità delle labbra e lei aveva pensato (lo aveva pensato davvero?) che non poteva essere più felice di così. Lui stava con la testa china e il mento che gli toccava lo sterno e sembrava occupato a fare una cosa molto difficile. Elena gli aveva guardato le braccia che, a dispetto della sua magrezza, erano forti, muscolose perfino. Federico era un misto di forza e fragilità come se qualcuno, al momento della creazione, avesse mescolato parti di due corpi diversi.
«Dai qua» aveva detto prendendogli la mano.
Le sue mani le erano sempre piaciute moltissimo. Erano sottili, ma grandi e accoglienti. Forse, prima di tutto il resto, erano state le sue mani a farla innamorare. E anche ora, a distanza di anni, era in grado di evocarle nella mente e di vederle, come se le avesse davanti agli occhi.
«Ti fai sempre questa puntina, quando ti tagli le unghie.»
Lui aveva alzato la testa e un ciuffo di capelli ribelle gli era scivolato sulla fronte.
«Che puntina?»
«Questa, vedi?» aveva detto tenendogli il pollice fra due dita e toccando l’estremità dell’unghia. «Tagli sui due lati e poi non spunti la superficie.»
Lui si era avvicinato la mano alla faccia e l’aveva studiata in silenzio. A lei era venuto da ridere. O da sorridere. O forse non aveva fatto né l’una né l’altra cosa. Però lui doveva averla guardata, e ogni volta che rivedeva quel momento sentiva una fitta di dolore fra le costole.
«Hai ragione. Faccio la puntina.»
Allora lei aveva aperto un cassetto e tirato fuori una lima per le unghie. «Te le spunto io.»
Lui aveva poggiato una mano sul bordo di ceramica del lavandino e gli aveva consegnato l’altra. E lei aveva cominciato a limare l’indice e aveva pensato che a lei piaceva la persona che diventava quando era insieme a lui, le piaceva il modo in cui si vedeva. Quella persona esisteva davvero quando era con lui. Elena ricordava ancora, dopo tanto tempo, il rumore dei loro respiri che si mescolavano al sibilo della lima e la polvere bianca che scivolava leggera e si perdeva nell’aria per quanto era inconsistente. Non c’era stata più una volta, da allora, in cui non si fosse limata le unghie pensando a loro due in quel bagno. E se fosse potuta tornare indietro, avrebbe voluto rivivere quell’istante molte e molte altre volte.
Era un sabato di metà febbraio e faceva un freddo insolito. Il giorno dopo, era sparito.
Elena strinse la borsa al petto e siccome il cuore aveva ripreso a batterle forte, inspirò ed espirò più volte. L’autobus aveva rallentato e si muoveva a passo d’uomo, frenando e ripartendo in continuazione. Due ragazze sedute di fronte a lei scoppiarono a ridere. Erano vestite uguali: leggins neri e scarpe da ginnastica bianche, slacciate e malconce. Condividevano un paio di cuffie attaccate al telefono. Guardavano lo schermo e ridevano mettendosi una mano davanti alla bocca e dicendo cose tipo: non ci posso credere! Oppure. È proprio scemo. Si davano di gomito e una delle due si batteva continuamente una mano sulla coscia. Anche Anita, un giorno, avrebbe avuto un’amica con cui ridere su un autobus e Elena desiderò che le venisse concesso il privilegio di vederla crescere e diventare una donna.
L’autobus frenò, ci fu lo sbuffo delle porte che si aprirono; Elena scese e rimase un istante sul marciapiede. Vide una delle ragazze togliersi la cuffia dall’orecchio e restituirla all’altra. Erano diventate improvvisamente serie, come se il divertimento di poco prima si fosse trasformato in delusione. Elena le guardò allontanarsi oltre l’edicola, oltre la stazione dei taxi. Prese la direzione opposta alla loro, con passo incerto attraversò la strada sulle strisce pedonali, raggiunse l’angolo dell’isolato e si fermò di nuovo. Tornò indietro verso il semaforo e rimase in piedi, di fianco al palo giallo, senza prendere una decisione. Le macchine si fermavano, scattava il verde e ripartivano. Di fianco a lei un metronotte grattava con una moneta il cartoncino della lotteria, spostando la sigaretta da un lato all’altro della bocca, con un rapido movimento delle labbra. Ogni tanto aspirava e sputava fuori il fumo, senza mai prenderla fra le dita. Quando scattò di nuovo il semaforo, lo vide attraversare e allora cominciò a camminare anche lei, come risvegliata da una specie di torpore e proseguì oltre l’isolato da cui era venuta, il passo all’inizio cauto, circospetto quasi, poi sempre più deciso. La borsa a tracolla che batteva ora su una e ora sull’altra gamba e lo sguardo fisso davanti a sé. Si infilò in una strada secondaria, chiusa tra due palazzi, ombrosa e fresca; rallentò il passo per togliersi il soprabito e lo ripiegò sul braccio. Continuò a camminare fino alla fine della strada, passò accanto ad un panificio e venne raggiunta dal profumo di dolci appena sfornati, costeggiò un cortile interno e si piegò un poco per passare sotto le fronde di un leccio che non era stato potato. Poi si fermò davanti alla vetrina di un negozio di animali. Era una specie di rito, lo faceva sempre con la bambina. Quattro cuccioli si avvicinarono sporcando il vetro con le zampette e i musi umidi: Elena li guardò mentre cercavano di contendersi la sua attenzione. Due erano bassotti e, siccome più piccoli, finivano sempre sotto agli altri due più grandi. Con la coda dell’occhio, prima di entrare nel negozio, Elena li vide accucciarsi con lo sguardo supplicante.
Il negozio di animali era una stanza lunga e stretta e sugli scaffali c’erano centinaia di gabbie per uccelli e il chiasso che facevano era insopportabile. Vicino al bancone di legno c’era un pappagallo enorme che, fra una frase sconclusionata e l’altra, mordeva il trespolo su cui stava abbarbicato. Aveva un becco grandissimo, con la parte superiore leggermente inclinata all’interno, e quando lo apriva si vedeva la lingua spessa e rosa. Elena gli girò alla larga. Un uomo parlava al telefono dietro al bancone, le sorrise e alzò un dito per chiederle un attimo di pazienza. Elena lo baciò su una guancia, prese un elastico nel cassetto sotto la cassa e si legò i capelli. Incrociò le mani dietro la schiena e cominciò a girare per il negozio, la testa in alto rivolta alle gabbie degli uccelli. Erano cincillà, pappagalli e canarini ma la sua attenzione fu catturata da due maine che stavano in una gabbia più in basso, vicino alla cassa. Cinguettavano e ogni tanto dicevano una parola; si spostavano da un punto all’altro, scambiandosi continuamente di posto.
Rino attaccò il telefono, le si avvicinò e la stritolò in un abbraccio tenero e affettuoso. «Mi sei mancata!»
«Lasciami, così soffoco.»
Allora lui si allontanò, continuando però a stringerle le braccia tra le mani e a guardarla. Poi la strinse di nuovo a sé, ma questa volta in un abbraccio più rapido. Era un uomo massiccio, i capelli spettinati in tanti ciuffi ribelli e aveva una gamba rigida, che si trascinava dietro quando camminava.
«Sei bella» le disse poi Rino.
Si sedettero e Elena cercò di sovrastare con la voce il fastidioso schiamazzo degli uccelli.
«No, non è vero. Ma grazie lo stesso.»
«Invece lo sei, ed è bello vederti» ripeté Rino. «E Anita? Non la vedo da tanto, sarà cresciuta.»
«È cresciuta. Mi arriva qui.» E con la mano messa di taglio indicò un punto fra le costole e i fianchi.
Rino le chiese notizie di Arturo e Clementina. La bambina ogni tanto prendeva il telefono di Elena e gli mandava una foto delle due tartarughe e lui era felice che lei lo mettesse a parte di qualcosa.
«Sara come sta?»
«Sta bene. Dovrebbe essere qui tra poco. È andata a prendere un carico di mangimi. Abbiamo comprato un camioncino e lei adora guidarlo. Lo sai com’è fatta, non sta ferma un attimo.»
Elena indicò la gabbia con le maine. «E quelle?»
«Sono nuove, ma non le venderò mai perché ormai mi sono affezionato. La femmina si chiama Tina, e quello è Picchio.»
Rino aprì la gabbia e prese in mano uno dei due uccelli.
«Da piccola ne avevo una» Disse Elena. «È morta prima che imparasse a parlare. Una mattina mi sono svegliata e l’ho trovata sul fondo della gabbia, stecchita. Si chiamava Dafne. Mia madre l’ha gettata nell’immondizia e io continuavo a tornare in cucina e ad aprire lo sportello, per guardarla.»
«È una storia triste» disse Rino.
«Già»
Suonò la campanella della porta. Sara entrò nel negozio con due grossi sacchi di mangimi sulle spalle. Indossava un paio di jeans infilati negli stivali di gomma e un giubbotto di pelle liso sul colletto e sulle maniche. Non si accorse della presenza di Elena, poggiò in terra i sacchi e, quando stava per uscire di nuovo la vide e le andò incontro. «Perché non hai chiamato, prima di venire?»
Sara la strinse in un abbraccio. Era alta e, ogni volta che si abbracciavano, Elena si sentiva sovrastata e avvolta.
«È stata una decisione dell’ultimo momento» le disse.
«Anita non la porti mai, non è giusto».
«Ha la scuola e io lavoro. Ma un giorno di questi veniamo, lo prometto».
«Sarà meglio».
Tolse il giubbotto e lo appese ad un gancio, dietro la cassa e si passò una mano nei capelli. Cortissimi e spettinati.
«Rino te lo ha detto?»
Elena si voltò verso l’uomo e lui le rivolse uno sguardo colpevole.
«Non mi ha detto niente»
Sara prese il mangime che aveva portato dentro, se lo mise su una spalla e andò verso gli scaffali dedicati al cibo per cani e per gatti. Posò la busta e cominciò a liberare parte del ripiano dalle scatolette e, quelle che toglieva, le poggiava in terra, vicino ai piedi. Nello spazio rimasto vuoto, ci infilò il sacco.
«Chiudiamo. Ci trasferiamo in campagna»
«E il negozio?»
«Abbiamo già qualcuno interessato a rilevarlo. Ne apriamo uno più piccolo, in paese, accanto ad un veterinario. È un nostro amico, è stato lui a farci questa proposta. I proprietari precedenti erano due vecchietti, troppo stanchi per andare avanti».
«Perché non mi avete detto niente?»
«Te lo stiamo dicendo ora» Disse Rino.
«La bambina ci rimarrà male»
«La bambina sarà ancora più felice»
Sara caricò sulla spalla anche il secondo sacco. «Avremo un giardino e molti animali.» Di nuovo lo poggiò a terra e si mise a studiare lo scaffale con le mani sui fianchi e le gambe leggermente divaricate. Rino si avvicinò e le mise una mano sulla spalla. «Eh, lo so. Gli scaffali sono un grande enigma.»
«Se non lo fossero, non perderei ogni giorno minuti preziosi per capire come riempirli senza che non ci si confonda. L’altro giorno la signora del Jack Russell non faceva che chiamarmi perché non trovava le sue scatolette. E dire che stavano lì, proprio davanti ai suoi occhi.» Sara indicò un punto generico di fronte a lei.
Elena si alzò, li raggiunse e cinse con il braccio i fianchi di Sara. Erano tutti e tre in fila, le spalle che si toccavano e continuavano a guardare il ripiano. Elena teneva la testa leggermente inclinata e i suoi capelli, sfioravano quelli di Sara.
«Cosa farò senza di voi?»
Rino si sporse oltre Sara. «Ci stiamo solo spostando. E per te e la bambina ci saremo sempre.»
Il pappagallo borbottò parole incomprensibili e gli uccelli lo presero come un invito a cantare più forte.
«Non è la stessa cosa, però.» Disse Elena.
Sara si staccò dal gruppo e cominciò a raccogliere le scatolette che aveva lasciato sul pavimento.
«Sarà anche meglio, vedrai.»
Elena si chinò per darle una mano. Erano una di fronte all’altra.
«Lascia stare e siediti.»
Elena sembrò non sentirla. Aveva impilato le scatolette, una sull’altra e andò a poggiarle sul bancone della cassa. Lanciò un’occhiata alla borsa che aveva lasciato sullo sgabello e tornò indietro. Si mise di nuovo seduta sui talloni e raccolse gli ultimi barattoli. Si rialzò e tornò al bancone.
«C’è una cosa che voglio farvi vedere.»
Seguirono Elena con lo sguardo. La videro aprire la borsa, tirare fuori il foglio con il ritratto e srotolarlo sul bancone. I bordi superiori erano rimasti piegati all’interno. Elena ci poggiò sopra i palmi per tenderli. Sara e Rino si misero di fianco a lei, tenendola al centro.
«L’ha fatto la bambina.»
«È brava» Sara spostò i barattoli, poggiò i gomiti sul tavolo e si avvicinò al foglio.
«Non sapevo che disegnasse così bene» disse Rino.
«Nemmeno io.» Rispose Elena, senza staccare lo sguardo dal foglio.
Raccontò della maestra e dei problemi che la bambina aveva a scuola, del blocco da disegno che aveva trovato nell’armadio e, infine, del ritratto.
«Le maestre sono famose per non capire mai niente.»
Sara gli diede un colpetto sul braccio e Rino alzò le spalle, i palmi rivolti verso l’alto.
«Cos’ho detto di male?»
Sara lo ignorò e si rivolse ad Elena. «Sei preoccupata per Anita?»
Elena prese quattro scatolette, fra quelle che aveva spostato con Sara, e le mise sugli angoli del foglio. Si allontanò e incrociò le braccia al petto, senza smettere di guardarlo. Non le rispose.
Sara si spostò dietro la schiena di Elena, entrambe le mani poggiate sulle sue spalle, le due guance che si toccavano.
«È una bambina intelligente e, a giudicare da come disegna, ha anche talento.»
Elena si avvicinò di nuovo al foglio, lasciando Sara un passo indietro.
«Gli somiglia, non trovate?»
Rino e Sara si guardarono. «Hai detto che l’ha fatto la bambina» disse Rino.
«È così.»
«Le hai raccontato tutto?»
«Non le ho raccontato niente. Non sa niente.»
«Se non l’ha mai visto, come può averlo disegnato?»
«Non lo so» disse Elena. «Però, ti prego, guardalo bene.»
Con il dito seguì il taglio degli occhi, la sfumatura sulle guance per dare profondità agli zigomi, le labbra.
Rino prese il foglio tra le mani e lo studiò con attenzione.
«Gli occhi…» Il cuore di Elena fece una specie di capriola. «… Sono i suoi.»
Sara gli chiese il foglio con un movimento della mano. Impiegò qualche secondo prima di parlare. «Magari ha semplicemente disegnato un cinese. Non ci hai pensato?»
Elena scosse la testa. «Perché avrebbe dovuto?»
«Perché di cinesi ne vede in giro. Suo padre non sa nemmeno come sia fatto.»
«Sei sempre estremamente logica nelle cose che dici, Sara»
«Ma non fino al punto di ammettere che solo lui aveva questo taglio di occhi.»
«Lui e tutti i cinesi del pianeta» disse Rino aprendo un cassetto di legno alle spalle del bancone e prendendo una scatola di becchime per uccelli.
«Non è un fatto di logica. Ma insomma, Elena, è un disegno di una bambina di sei anni…»
Elena aprì la bocca per parlare, ma Rino la interruppe.
«Anche Anita ha lo stesso taglio di occhi. Identici. Forse è un autoritratto.» Si avvicinò alla gabbia delle maine.
«Venite belle» disse. «È l’ora della pappa.»
«Questo è un uomo» aveva detto Sara.
«Si chiama arte, baby.»
Rino aprì lo sportellino della gabbia e ci infilò una mano dentro per riempire la ciotola.
Elena tolse le scatolette dagli angoli del foglio e prese il cappotto lasciato sullo schienale dello sgabello.
«Ho fatto male a venire. Scusatemi. Vi sto facendo perdere solo tempo.»
Rino le si parò davanti. «Non stai facendo sul serio. Ti prego, rimani»
«Sono stata da mia madre e poi sono venuta da voi. Non ho nessun altro con cui parlare di lui.»
Sara le prese il cappotto e lo rimise sullo sgabello. «Vieni qui, guardiamolo insieme.»
Il ritratto era ancora sul bancone, i bordi si erano ripiegati all’interno e Sara li stese nuovamente con le scatolette. «Cosa ti ha fatto pensare che fosse lui? A parte gli occhi, voglio dire.»
Elena si trovò di nuovo faccia a faccia con il ritratto.
«Non sono solo gli occhi,» disse, «ma anche l’ovale del viso, le labbra. È Federico, Sara.»
Rino cercò lo sguardo della moglie ma Sara non se ne accorse, si massaggiò i capelli e li spettinò più di quanto non lo fossero già.
«Mettiamo che sia così. Mettiamo che la bambina abbia proprio voluto disegnare suo padre… Forse ha trovato una sua fotografia, forse tua madre ne teneva una in casa e tu non lo hai mai saputo.»
«Impossibile» disse Elena
Rino infilò di nuovo la mano nella gabbia, questa volta per riempire di acqua l’altra vaschetta. Gli uccelli cominciarono a bere e a mangiare e fra una cosa e l’altra ripetevano:
«Impossibile, impossibile»
Suonò la campanella del negozio. Il pappagallo ripeteva: “signora bella, bella signora”.
«Non si potrebbe farlo stare zitto ogni tanto? Non so come facciate a sopportarlo»
Entrò una donna magra che portava al guinzaglio un cane, se possibile, ancora più magro di lei.
«Stavo aspettando la sua pappa. Ma alla fine ho rinunciato e sono venuta io. Sta morendo di fame» disse, indicando il cagnolino, che tremava. Forse per il freddo o forse perché non aveva sufficiente pelle per scaldarlo.
Rino le andò incontro e si scusò per l’inconveniente. «Ha ragione signora Ferri, stavo venendo io. Ma vede abbiamo avuto gente. Torni a casa e fra poco sono da lei.»
La donna fece un gesto con la mano, come per dire: lasci perdere. Aprì il cappotto. Non sembrava intenzionata ad andarsene.
«Questa qui mi sta facendo impazzire. Corre dietro a tutti i cani del quartiere. Mi chiedo perché me l’abbiate fatta sterilizzare.»
«Signora Ferri,» rispose Rino, «gli animali sono il più grande mistero del pianeta.»
Ma la donna non era interessata alla sua opinione.
«Ho interrotto qualcosa?»
Sara, con un cenno della testa, invitò Rino ad occuparsi della cliente.
«Venga con me, signora Ferri, andiamo a prendere la pappa per questa monella.» La donna lo seguì in fondo al negozio, ma continuò a voltarsi nella direzione delle due donne.
«Avrei dovuto mettere il cartello “Torno Subito”, scusami.»
«Non preoccuparti. Sono stata inopportuna.»
«Sei tu che devi perdonare noi.» Sara l’abbracciò, ma Elena lasciò le braccia lungo i fianchi. «Sei sicura di stare bene?» Le sfiorò il braccio con la mano.
«Sto bene. Vorrei solo che tu guardassi di nuovo il disegno di Anita.»
«Ok, lo farò. Ma andiamo nel retro. Qui c’è troppa confusione.»
Elena seguì l’amica fino in fondo al negozio. Passarono davanti alla signora Ferri che, con il viso rivolto verso il basso, parlava con il cane. «Non puoi fare sempre quello che vuoi tu, tesoro. Il veterinario ha detto che devi mangiare il pollo e io ti comprerò il pollo.»
Rino le vide allontanarsi e mimò con la mano la pistola puntata alla tempia. Sara lo ignorò, aprì una piccola porta nella parete e aspettò che Elena la precedesse. Era un piccolo stanzino che usavano come magazzino. C’erano due librerie di acciaio ai lati della stanza ed erano tutte piene di scatoloni. Ce n’erano anche in terra, impilati l’uno sull’altro. Elena aveva pensato che sarebbe bastato un colpetto con il gomito, per buttarli giù tutti.
Lo stanzino era stretto, a malapena ci stavano loro due. Erano così vicine che la punta delle loro scarpe si toccava. Sedersi sarebbe stato impossibile.
«Fammelo vedere.»
Elena le diede il disegno e Sara lo prese, tenendolo con due mani.
Si mordeva il labbro inferiore e ogni tanto lasciava un lato del foglio per mettersi la mano nei capelli. «Gli occhi, forse le sopracciglia, ma non so Elena. Potrebbe essere chiunque.»
«Tu lo conoscevi bene, Sara.»
Sara alzò la testa e Elena vide un piccolo capillare che le attraversava l’occhio destro.
«È per questo che non sono sicura che sia lui, in questo ritratto. La memoria fa brutti scherzi, alle volte, ma sono sicura che se fosse lui l’avrei riconosciuto.»
«È Federico, Sara. È lui, ne sono sicura.» Le labbra si contrassero leggermente. Era una specie di movimento involontario, oppure stava per piangere. L’ultima parte della frase la disse quasi sussurrando.
Sara rimase in silenzio. Non sapeva esattamente cosa avrebbe dovuto dire.
«Sei stata l’ultima persona a sentirlo. Ha parlato con te, prima di andarsene.»
L’amica poggiò il disegno in cima alla colonna più bassa di scatoloni.
«Ne abbiamo parlato tante volte. Mi ha chiamata perché tu non hai risposto e voleva sapere se eri con me.»
Elena continuò a guardarla, ma il suo era un volto senza espressione. «Ricordi la sua voce?»
«Non più. Però mi ricordo che era una voce opaca e tenue. E che delle volte sembrava che non avesse abbastanza fiato per arrivare alla fine della frase.»
Elena avvertì una fitta fortissima al costato. Si piegò, ma in modo così impercettibile, che Sara non se ne accorse.
«Però ricordo benissimo quello che mi ha detto. Parola per parola.»
Elena riprese il disegno da sopra la scatola. «Lui mi ha chiamato ma io non ho risposto. Lo sai perché, Sara? Perché non l’ho sentito. Avevo le cuffie nelle orecchie e stavo ascoltando una canzone idiota e pensavo che era bello starsene in giro la domenica mattina con la musica nelle orecchie. Senza pensieri”.
Elena arrotolò il foglio, aprì la borsa e ce lo infilò dentro.
«Devo andare. La bambina sta per uscire da scuola.»
«Dammi il disegno, Elena. Rino non l’ha guardato quasi per niente.»
Elena incrociò le braccia intorno alla vita e fece un passo in avanti verso la porta. Poi si voltò di trequarti.
«Lui non ha chiamato Rino, quella mattina che io era senza pensieri.»
Uscì dalla stanza e fu come riemergere da un’apnea troppo prolungata. Rino era arrampicato su una scala, con la gamba sana sul penultimo gradino e l’altra che pendeva rigida, stava cercando di prendere qualcosa dallo scaffale più alto. Abbassò la testa e forse le disse qualcosa, ma lei sentì solo le ali degli uccelli che sbattevano, il rumore sordo dei becchi sulle gabbie e il suo cuore che le pulsava nelle orecchie. Poi aprì la porta del negozio e fuori c’era solo l’aria fresca della giornata che stava per finire.
Arrivata di fronte alla scuola della bambina aveva aspettato un momento prima di salire. Era rimasta a guardare gli scalini dell’ingresso, la porta a vetri, l’icona della Madonna e le sembrarono cose che riemergevano da un sogno. Cominciò a salire le scale e suonò al campanello. La suora rattrappita e curva pigiò il tasto di apertura, questa volta la serratura fece uno scatto e lei spinse la porta verso l’interno. C’era odore di convento e di minestra di verdure riscaldata. Poi comparve un’altra suora, giovane e operosa, che imbracciava una scopa. Qualcuno doveva aver rovesciato qualcosa, oppure i bambini avevano combinato un pasticcio. Elena andò di fronte al distributore di merendine e lo guardò come se fosse indecisa su cosa prendere. Vicino al distributore c’era un grande cartellone celeste. Era intitolato “Gita di quarta” ed era scritto con un pennarello rosso che, mescolato al celeste, diventava un colore tendente al marrone. Delle sbavature di rosso erano andate a finire su un foglio su cui, con calligrafia tondeggiante e infantile, un bambino della quarta aveva scritto il resoconto della gita. Le fotografie erano attaccate a semicerchio, come a incoronare la fotografia più grande, che ritraeva tutta la classe. I bambini erano seduti su un prato, qualcuno era addirittura sdraiato, altri in piedi, dietro. I più alti, probabilmente. Indossavano tutti una maglietta bianca, dei pantaloncini blu e un cappellino con visiera, sempre bianco. Facevano gli stupidi e nessuno di loro sorrideva in modo naturale. In fondo al gruppo, le uniche con posa e espressioni da fotografia da gita scolastica, erano due donne adulte e una suora. Una delle due era la maestra della bambina. Elena si avvicinò per guardarla meglio. Era l’unica di profilo, come se al momento dello scatto fosse stata distratta da qualcosa o qualcuno. Le labbra leggermente ripiegate all’ingiù e le mani incrociate sulla pancia. Elena sentì alle sue spalle il rumore di tacchi che battevano sul pavimento. Si voltò ma non vide nessuno, fece un passo in avanti e, poco oltre la colonna che le impediva la vista delle scale, comparve la maestra. Indossava delle scarpe nere con tacco quadrato e, a differenza della mattina, si era sciolta i capelli che le ricadevano sulla schiena e sulle spalle. Si trovarono una di fronte all’altra e la maestra sembrava imbarazzata, forse era sorpresa di rivederla.
La maestra le sorrise e si fermò davanti al distributore. Si mise a guardare i prodotti allineati dietro il vetro e cercava qualcosa nella borsa. Tirò fuori un portamonete di cotone con colori e toni orientali. Prese una moneta, che teneva fra l’indice e il medio un po’ in bilico, e la infilò nella fessura. La spirale in acciaio che teneva fermo il prodotto, aveva cominciato a girare e un pacchetto di wafer era caduto nello scomparto sottostante. Si chinò per prenderlo.
«Di solito non permetto mai a mia figlia di mangiare quelle porcherie.»
La maestra le rispose con un sorriso. Probabilmente non aveva capito.
«In effetti mi domando come possiate permettere che in una scuola vengano distribuiti prodotti del genere. Dovreste educare i bambini ad un’alimentazione sana.»
«I distributori sono lì, ma nessuno è obbligato ad usarli.»
«No, certo. Ma il punto è che bambini adorano quella roba e se la vedono la vogliono. Ti mettono in croce e, alla fine, ti prendono per sfinimento.»
La maestra scartò il pacchetto ma non osava né spezzare il biscotto, tantomeno metterselo in bocca.
«È venuta a prendere sua figlia?»
Elena fu colta di sorpresa da quel repentino cambio di argomento.
«Dopo il colloquio di stamattina non sono più tornata al lavoro. Ho pensato: non è che uno può sempre lavorare e basta!»
«Ha fatto bene. Prima di tutto questi bambini hanno bisogno di avere la mamma vicino.»
«Anche mio marito torna presto dal lavoro, oggi.»
«Suo marito, ha detto?»
Aveva l’espressione di una che pensa di aver sentito una cosa per un’altra.
«Lui è bravo in matematica. Mica come me, che non ci capisco niente.»
La maestra mise in bocca un wafer. Le briciole caddero sul golfino di angora rosa, ma le lasciò lì.
«Lo sapeva che mia figlia disegna benissimo?»
La maestra annuì e aspettò di masticare prima di rispondere.
«Sua figlia ha un talento. Lo pensano anche gli altri insegnanti.»
«Sono felice che lo pensi anche lei. Noi siamo molto colpiti, non lo sapevamo.»
Elena tirò la cinghia di pelle e aprì la borsa.
«Questo lo ha fatto lei. E’ il ritratto di mio marito.»
Le mise il foglio di fronte al viso e la maestra lo prese in mano. Glielo restituì subito.
«Lo ha fatto ieri sera, mente guardavamo la televisione. C’ero anche io sul divano con loro. A dire il vero ne occupavo quasi tutto lo spazio. Ero stanca e avevo allungato le gambe su quelle di mio marito. È una cosa che ci piace fare, ogni tanto. Guardare la televisione tutti insieme, voglio dire.
Camilla Costanzo è una sceneggiatrice e giornalista italiana. È autrice del libro Ero cosa loro, scritto con Giusy Vitale, prima donna capomandamento della storia della mafia (Mondadori 2009) e del romanzo Una bellissima notte senza luna (Baldini e Castoldi 2016).