Responsabilità, poesia e feticismo in Abraham B. Yehoshua

da | Gen 8, 2014 | Senza categoria

Siamo nel terzo capitolo del Responsabile delle risorse umane di Abraham B. Yehoshua. In piena notte, durante una tempesta di neve nel cuore di un paese caucasico, un gruppo di uomini che si conosce appena viaggia a bordo di un grottesco mezzo cingolato dismesso dall’esercito locale, e sta discutendo della concezione dell’amore espressa da Platone nel Simposio. «Eros – afferma uno di loro parafrasando il filosofo greco – non è né dio né uomo, bensì un demone. Coriaceo, sporco, scalzo, povero, senza una casa, vagabondo. Però ha il potere di rappresentare il legame tra l’umano e il divino, tra l’eterno e il temporaneo». Platone – e con lui Yehoshua – non parla qui dell’amore romantico, che sancisce vincoli benedetti riconducendoli a un’idea di inviolabile sacralità; ma allude piuttosto al suo aspetto indecente, quello più ingovernabile, che non rinsalda certezze, ma che – al contrario – genera scompensi, mette in discussione, incentrato assai più sulla conflittualità dell’eros che non sulla stabilità di rapporti definiti. L’autore custodisce questa sapiente conversazione in un nucleo ben protetto tra le volute narrative della sua storia, ma non per celare in uno scrigno accessibile a pochi una perla di erudizione; al contrario, tale concezione sporca dell’amore, macchiata da vitale e feconda impurità, rappresenta un efficace grimaldello per analizzare il concetto più importante esplorato nel romanzo: la responsabilità.

Julia Regajev, una donna straniera, è morta a Gerusalemme in un attentato terroristico. La ditta per la quale lavora – un panificio noto in tutta la città – per una settimana intera non si accorge nemmeno della sua assenza dal posto di lavoro, fino a quando un giornalista non denuncia pubblicamente la vicenda, accusando la dirigenza dell’azienda di mancanza di umanità. Per difendere la reputazione del panificio, il proprietario assegna al responsabile delle risorse umane il compito di investigare sull’accaduto, e lo incarica di riportare in patria il cadavere della donna, un’ex repubblica sovietica non meglio identificata. L’itinerario compiuto dall’uomo attraverso il territorio ostile e remoto del paese asiatico si configura come un cammino di iniziazione che gli consentirà – attraverso il contatto con una cultura, una geografia e un’antropologia profondamente distanti dalla propria – di prendere a poco a poco consapevolezza del significato più profondo della parola «responsabilità».
Quello della responsabilità è un percorso assai più impegnativo di quello morale. La morale fissa delle norme astratte che, calate nella concretezza della realtà, necessitano inevitabilmente di essere interpretate. Ma si tratta di un’interpretazione sbilanciata pericolosamente dalla parte dell’astrazione, che guarda con diffidenza verso le imprevedibili conformazioni della storia concreta. Così come la giurisprudenza, la morale consegna alla giustizia colpevoli o innocenti, riducendo alla sterile rigidità di un verdetto le dinamiche sempre mutevoli del divenire. Viceversa, la responsabilità invita a compiere un cammino esattamente nel cuore di tali dinamiche, tentando di comprendere il groviglio delle motivazioni che le innescano. Naturalmente, anche la responsabilità necessita di un paradigma di riferimenti certi, indipendenti dalle continue evoluzioni delle implicazioni personali. Ma sono riferimenti che non hanno senso fino a quando non si incarnano nella mutevolezza dell’esperienza, finché non si incontrano con la capricciosa incoerenza delle circostanze. Assumersi una responsabilità significa compiere un percorso che unisce in modo poco lineare il principio ispiratore di un precetto con l’azione che ne consegue, rincorrendo l’evoluzione tortuosa cui il primo viene sottoposto per scaturire nell’altra; significa ricostruire la relazione tra l’astrattezza della norma e la carnalità del suo adempimento, seguendo un itinerario che ha molto a che fare proprio con l’amore. E con la bellezza.

Il responsabile delle risorse umane, pur avendo assunto personalmente la donna alcuni mesi prima, non ne rammenta più il volto, e la foto sgranata nello schedario aziendale non lo aiuta a metterne a fuoco il ricordo. Diversamente, tutti coloro che hanno avuto a che fare con lei rammentano con estrema precisione il taglio tartaro dei suoi occhi, che le conferiva un indimenticabile fascino esotico.
L’esotismo attrae in quanto suscita un eccitante desiderio di conoscenza. Non si desidera conoscere quello che si conosce già, ma ciò che non è familiare, quanto sovverte i consueti schemi di riferimento suggerendo possibilità non considerate in precedenza. L’amore nasce dal desiderio di verificare i criteri di un’armonia che si discostano da quelli abituali, che indirizzano verso strade nuove. Per questo l’amore è viaggio, ed è ricerca. Per questo mette in comunicazione l’umano con il divino, il temporaneo con l’eterno. A torto o a ragione, l’armonia – e in modo particolare l’armonia che sorprende, quella cui non siamo abituati – evoca necessariamente una teleologia, una progettualità. Al di fuori di un’interpretazione finalistica, infatti, difficilmente si riesce a comprendere la bellezza, questa sbalorditiva eccezione alla propensione della materia verso l’entropia, ovvero la tendenza naturale al disordine che incessantemente tende a ingarbugliare l’universo. L’ordine richiede sempre una forzatura, la meticolosità di un lavoro e la determinata volontà di portarlo a compimento: l’ispirata ostinazione di un diavoletto di Maxwell animato dall’intenzione di sovvertire la puntigliosa rigidità di una legge fisica. E dunque rimanda al trascendente, sottintende che alle spalle del caso operi una necessità, una regia in grado di incanalare il non-senso nelle rassicuranti coordinate di un progetto, rendendo l’enigmatico decifrabile e riconducendo la frammentarietà verso la coesione.

Per questo, nella narrativa di Abraham Yehoshua, l’arte, la musica, la poesia – e l’esperienza catartica che a esse si associa – spesso costituiscono un efficace antidoto in grado di risanare drammatiche situazioni di frattura o di smarrimento. Nel racconto Base missilistica 612, un uomo che vive una profonda crisi matrimoniale scova in un brutto volume di versi una poesia meravigliosa, «tre strofe semplici, cristalline, ogni parola al proprio posto, come perle in un cumulo di paglia». E dopo che per vari mesi non era riuscito ad avere con la moglie un dialogo che non fosse intossicato dall’odio e dal risentimento, improvvisamente riacquista la forza per tentare di rimettere ordine in quella spaventosa desolazione. È sufficiente la scoperta di quel tesoro inaspettato per infondergli la forza di telefonare a sua moglie, affrontare la sua freddezza disarmante, la sua non celata ostilità, ed essere nuovamente disponibile al confronto, a lottare, se necessario: «Quell’eterno disprezzo, l’ostilità immutata, forse ha persino cercato di suicidarsi. Se è così sono ancora in guerra. Invece lui, lì per lì, si sente disposto a cedere, a perdonare. Il mal di testa aumenta. La pipa spenta gocciola nella sua mano. Lui barcolla un poco sotto la tettoia bucata. Ma tornerà a casa pronto per la battaglia».

Ma è forse nella Sposa liberata che Yehoshua accorda il credito più cospicuo alla funzione catartica dell’arte. Una sera i coniugi Rivlin (i protagonisti del romanzo) si recano a Ramallah, nel cuore della Galilea, per assistere a un rinomato festival della poesia d’amore organizzato dalla popolazione locale. Nonostante si tratti di un evento culturale eminentemente islamico, ambientato in un villaggio arabo, l’attrattiva principale della serata consiste nell’esibizione di una suora, una cristiana libanese il cui canto sembra irradiare un’intensità spirituale talmente sconvolgente da commuovere violentemente gli ascoltatori e provocare nella religiosa uno spettacolare svenimento al culmine della performance. Il canto della suora è accompagnato dalla ritmica incalzante di musicisti arabi che, suo malgrado, trascinano la sua melodia verso sonorità sempre più profane, al limite di quella sensualità erotica che costituisce il tema principale del festival; ed è reso ancora più suggestivo da un marchingegno fumogeno che crea un’atmosfera più somigliante a quella di uno spettacolo rock che non a quella di un concerto sacro. La suora libanese, pur nella sua fragilità, si presta alla contaminazione. Accetta di esibirsi in una manifestazione organizzata da fedeli di una religione diversa dalla propria, non temendo di mescolare il lirismo monodico delle sue melodie con la ritmica corale legata a differenti sonorità, e non si tira indietro di fronte alla sorpresa finale dei fumogeni. Accetta di sporcare la propria fede aprendola al contagio della diversità, fornendo in tal modo alla storia e alla società quella risposta concreta che – se non altro da un punto di vista etimologico – il proprio senso di responsabilità le richiedeva.

Similmente, il responsabile delle risorse umane non ha timore di abbandonare i territori noti della propria patria e di addentrarsi in un territorio ostile, nel quale i servizi e le infrastrutture non gli consentono di viaggiare con una sicurezza nemmeno lontanamente paragonabile a quella a lui familiare; ma accetta fino in fondo di contaminarsi con quella realtà, che a un certo punto rischia di essergli fatale. Nell’ultima parte del romanzo, la spedizione che andava scortando la salma di Julia fino al suo villaggio di provenienza decide di concedersi una divagazione per visitare una base militare dei tempi della guerra fredda: un bunker che in passato era destinato a ospitare nelle profondità del sottosuolo i leader politici della nazione nel caso di un conflitto nucleare. In attesa di discendere in questa spaventosa cavità situata nel cuore della terra, gli uomini trascorrono la notte insieme alla guarnigione di soldati di guardia alla piazzaforte, e il responsabile delle risorse umane sogna di essere tornato ragazzo e di essere innamorato di Julia, la donna uccisa. Risvegliatosi nel cuore della notte, esce all’aperto per telefonare al proprietario dell’azienda, e in prossimità della base scorge una sorta di corte dei miracoli, uno strampalato mercato zingaresco che attira la sua attenzione. Ancora commosso dal sogno, egli vorrebbe comprare un oggetto caratteristico del luogo, forse per stabilire con Julia quell’intimità che non aveva potuto sperimentare durante la loro breve conoscenza; o perlomeno vorrebbe bere qualcosa di caldo per trovare sollievo all’inclemente rigidità del clima. Acconsente dunque a ingurgitare una pozione fumante che una povera mentecatta andava rimestando sinistramente in un suo pentolone, e che certamente non era destinata a riscaldare budella infreddolite. La bevanda gli provoca una grave infezione intestinale, che lo costringe a un’umiliante degenza di alcuni giorni presso la base militare, durante la quale, per l’incapacità di controllare le violente scariche di dissenteria, è costretto a rinunciare al senso del pudore, a indossare pannoloni e a lasciare che degli estranei lo ripuliscano dai suoi stessi escrementi. Scegliendo consapevolmente di trangugiare l’infuso stregonesco, l’uomo non fa altro che addentrarsi lungo il percorso di assunzione della propria responsabilità, procedendo in un itinerario che lo conduce a confrontarsi con la concretezza vissuta da Julia Regajev, fino ad addossarsi in modo carnale le conseguenze delle proprie scelte di fronte alla storia.

In alcune opere di Yehoshua, il bisogno di prendere consapevolezza della realtà – immergendosi fisicamente e sensorialmente nella concretezza organica e materiale della vita – sfocia in esiti apertamente feticistici. Nel suo primo romanzo, L’amante, Adam e Asya perdono il loro bambino di cinque anni in seguito a un incidente. Per riuscire a elaborare il lutto e a ritrovare la voglia di vivere, dopo un lungo periodo in cui si era abbandonato a se stesso e a una tetra malinconia, Adam decide di avere un altro figlio, ma non riesce a trovare una ragione per riaccostarsi a sua moglie: «Io avevo una barba che mi cresceva incolta e lei era molto trascurata, non eravamo proprio adatti a fare l’amore. L’ho afferrata con forza, senza passione. – Che cosa vuoi? – si è ribellata. Allora sono caduto in ginocchio, le ho baciato i piedi, ho risvegliato la mia voglia, perché di voglia non ne avevo». Per ritrovare l’eccitazione, Adam ha bisogno di baciare i piedi della moglie, sentirne l’odore che lo riavvicina alla terra; riappropriandosi dei propri istinti, egli ritrova una vitale concretezza e apre in tal modo un varco nella gabbia mentale della propria depressione.

Nel racconto Base missilistica 612, il protagonista si reca nel deserto a tenere una conferenza presso una base militare: un discorso del tutto astratto, al quale i soldati – sopraffatti dalla brutale incombenza del loro destino di provvisorietà – non sono minimamente interessati. Snobbato e umiliato dai militari, che lo percepiscono come un elemento completamente estraneo alla loro realtà, al termine della conferenza l’uomo viene riaccompagnato alla base aerea – da cui avrebbe fatto ritorno a Tel Aviv – da un’enorme soldatessa: una donna alta, grassa, rossa di capelli, profusa di una grottesca sensualità e che emana un forte odore di grosso animale. La soldatessa riesce a risvegliare in lui una strana eccitazione, fin quando egli non cade ai suoi piedi e inizia a baciarli; ma di punto in bianco ne percepisce il sudiciume, si ritrova la bocca piena di granelli di sabbia, nauseato e avvilito per l’umiliante fraintendimento.

In Un divorzio tardivo Assa, un insipido professore di storia, è sposato con Dina, una ragazza eccezionalmente bella. Chiuso in se stesso e nel suo freddo rigore – allo stesso modo in cui Gerusalemme (la città in cui vive) appare prigioniera della sua leggenda e chiusa alla contaminazione del nuovo – Assa non riesce a fare l’amore con sua moglie, forse spaventato dalla sua troppo aperta sensualità, forse frenato dalla propria rigida austerità. Durante un breve viaggio a Tel Aviv – città simbolo del sionismo, ricettacolo di commistioni e contemporaneità – l’uomo vive un’impacciatissima avventura con una prostituta. La scena si svolge di sera, in un negozio di calzature, dopo l’orario di chiusura. Spaventato dalla propria inesperienza e timoroso di fare fiasco esattamente come con sua moglie, Assa finge – come in un gioco – di essere un commesso del negozio, e misurandole una scarpa inizia a baciare i piedi della ragazza. Ma purtroppo rimane sopraffatto troppo precocemente dalla propria eccitazione, non riesce ad avere con la donna un rapporto completo, ed è per di più costretto a subire la sua stizza e la sua derisione.

In tutti e tre gli episodi, il feticismo legato ai piedi appare come un (maldestro) tentativo di ritrovare un rapporto con la realtà da parte di uomini che vivono una profonda condizione di alienazione; rivela il loro sforzo di comprendere – da un punto di vista sensoriale, giacché razionalmente o emotivamente non ne sono in grado – la consistenza della propria umanità, che è consistenza materica, terrosa, al tempo stesso eccitante e umiliante. È quell’aspetto indecente dell’amore teorizzato da Platone, la sua feconda connotazione di sporcizia, che enfatizzando il temporaneo apre un canale verso l’eterno, e inchiodando i viventi alla loro umanità li proietta misteriosamente verso il divino.

In ciò consiste la responsabilità: nel ricondurre l’idea astratta della giustizia nelle coordinate verificabili della storia. Essere responsabili non significa emettere sentenze di condanna o di assoluzione, stabilire il torto e la ragione, distinguere il conveniente dall’indecente; quanto piuttosto compiere un itinerario in discesa dai baluardi della forza verso i bassifondi della debolezza; misurare la distanza che separa l’eminenza del precetto dall’imperfezione del suo adempimento, attraverso il transito per le regioni poco pervie delle circostanze; senza il timore di mettersi in gioco, rischiando in prima persona, mettendo in discussione i valori più sacri, aprendosi al confronto con la diversità, alla fertile contaminazione con l’altro. Ma facendolo con il confortante viatico della bellezza, e con la certezza che ogni tipo di ricerca ottiene sempre – se non il conforto della luce piena – almeno il balsamo della mutua indulgenza, della solidale comprensione. «Ma che dice? Tutto questo non ha senso», replica il proprietario dell’azienda al responsabile delle risorse umane, davanti all’annuncio della sua decisione di riportare nuovamente a Gerusalemme la salma di Julia Regajev. «Un senso, signore, lo troveremo insieme. Io, come sempre, l’aiuterò».

* Questo saggio è stato pubblicato in una versione leggermente differente sul numero 4 della rivista “451 via della letteratura della scienza dell’arte”.

Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).