Reportage inattendibile dai luoghi bellowiani (terza parte – di molte parti)

da | Apr 12, 2013 | Senza categoria

Nel 1969 in America escono contemporaneamente due romanzi di due scrittori ebrei, di età diversa, ma d’estrazione analoga: uno affermato, l’altro che si sta facendo le ossa. Il pianeta di Mr Sammler e Il lamento di Portnoy. Da notare anzitutto come entrambi i romanzi abbiano una struttura non tradizionale, e come soprattutto parlino delle idiosincrasie dei loro rispettivi personaggi i cui nomi appaiono nel titolo. Ma Arthur Sammler è un settantenne deluso che prende improvvisamente coscienza che il pianeta – il suo adorato pianeta – è impazzito. Lui, cresciuto a contatto del Bloomsbury Set, si trova a dover vivere in questa New York piena di hippies, cialtroni, criminali da strada. Alex Portnoy, al contrario, è uno scatenato giovane che urla (letteralmente) il dramma della sua emancipazione sessuale. Sammler odia l’epoca in cui vive, sebbene sia troppo disperato per nutrire autentiche nostalgie. Portnoy è un alfiere degli anni ’60 odiatore di qualsiasi forma di perbenismo.

E possiamo ben dire che a Roth non sia ancora passata. Oggi che ha l’età precisa di Mr Sammler (settant’anni suonati), è ancora il vecchio commosso cantore della Rivoluzione sessuale. Nel suo ultimo libro, L’animale morente, dedica una parte a una ragazza della sua generazione che ha fatto della disinibizione e della sfrenatezza erotica una specie di avamposto rivoluzionario. Sì, ecco come Roth si abbandona alla sua agiografica invocazione alle ragazze degli anni ‘60:

Jenie e Carolyn, con altre tre o quattro spavalde ragazze dell’alta borghesia, formavano la cricca delle così dette Ragazze da Strada. Queste ragazze non avevano nulla in comune con le donne che io avevo conosciuto fino a quel momento, e non perché fossero coperte di stracci zingareschi e girassero a piedi nudi. Detestavano l’innocenza. Non sopportavano i controlli. Non avevano paura di mettersi in mostra e non avevano paura di tramare nell’ombra. Ribellarsi alla propria condizione era tutto. Con le loro seguaci, hanno forse rappresentato, storicamente, la prima ondata di ragazze americane pienamente coinvolte.

L’euforico sfogo di Roth potrebbe essere altamente commovente, se non fosse un po’ ridicolo. Non posso fare a meno di notare che mentre Roth e le sue eroiche ragazze dal clitoride assassino se la spassavano all’interno delle università americane, il vecchio Arthur Sammler se la passava piuttosto male. E il caso vuole che viva il suo momento più drammatico e più mortificante proprio in un contesto universitario, in uno di quei mausolei delle libertà sessuali retrospettivamente mitizzati da Roth.

Quando Sammler viene chiamato a tenere una conferenza alla Columbia University su un autore demodé come Wells, non trova ad attenderlo lo sparuto gruppo di studenti timidi, occhialuti, con penna e block notes in mano, che si era figurato, ma una selva di capelloni malintenzionati che se ne infischiano di Wells e del Bloomsbury Set e di tutto quello che Sammler potrebbe raccontare loro.

Questa scena è stata suggerita a Bellow da un episodio della sua vita. Quando in piena contestazione, chiamato (lui autore acclamato di Herzog) a tenere una conferenza in una università di San Francisco, fu duramente contestato. In una lettera a Mark Harris riportata da James Atlas, Bellow commentava l’accaduto con tristezza e irritazione:

Quella del S. F. State College è stata una bruttissima storia. Non mi offendo facilmente alla mia età, e non l’ho presa come un affronto personale: non è il mio stile. Ciò nonostante è stata davvero una cosa offensiva. Essere definiti da Salas un vecchio stronzo di fronte a un pubblico che trovava la cosa deliziosamente emozionante. […] No, credimi, è stata una vicenda squallida. Non si fondano le università per distruggere la cultura. Per quello si chiamano i nazisti.

Quale miglior luogo per fare valere i propri diritti di uomo offeso se non la letteratura? Questa disavventura viene trasferita all’interno de Il pianeta di Mr Sammler. Stavolta a venire contestato non è un avvenente, ricco e acclamato scrittore americano, ma un povero vecchio che non ha gli strumenti sufficienti di forza e di fascino per potersi difendere. Forse per questo l’effetto drammatico ci guadagna. E come al solito Bellow ricorre al suo famigerato vittimismo per fare letteratura. È interessante in questo caso raffrontare la versione autobiografica della vicenda con quella romanzesca, per capire meglio come funziona il meccanismo trasfigurante di Bellow. Trasformare uno scrittore all’apice della vita e della sua ascesa personale, dallo charme ammaliante e dalla loquela irresistibile in un povero vecchio polacco cieco d’un occhio, è un’operazione capziosa che tende a ribaltare il significato stesso della scena. Mentre in quella autobiografica Bellow può essere tacciato di arroganza (non a caso rispose sprezzantemente ai suoi contestatori), nella trasposizione romanzesca, Mr Sammler accusa il colpo con serafico e orientale stoicismo. Bisogna considerare tale espediente di vittimizzare i propri alter ego come una vera e propria poetica. Ogni scrittore utilizza i propri strumenti di conoscenza: sembra che per Bellow il vittimismo sia un luogo di identificazione, quasi come in Kafka.

In questo senso Bellow è davvero l’erede americano d’una tradizione ebraico-orientale. I suoi personaggi con rarissime eccezioni (penso all’Henderson de Il re della pioggia che, infatti, non è ebreo) – non mostrano mai baldanza un po’ guascona dei grandi eroi americani. La sua difesa è sempre il basso profilo. Anche i suoi personaggi più vincenti – si pensi a Charlie Citrine – amano sempre nascondere se stessi dietro a un’egida di simpatica e commovente inettitudine.

Qualche tempo fa, da queste stesse pagine, credo di aver notato come i personaggi di Philip Roth siano accomunati dall’essere dei vincenti che improvvisamente incorrono in un dramma che distrugge loro la vita, o la mette seriamente in pericolo. Bellow agisce in modo diametralmente opposto. I suoi alter ego sono sempre poveri disgraziati pasticcioni che alla fine tuttavia, attraverso l’ironia e una forma assai ebraica di stoicismo, riescono, in qualche modo, trionfatori. Potremmo dire che il più prestigioso progenitore di molti personaggi bellowiani è il nostro indimenticato Zeno Cosini. Sì, i personaggi di Bellow, così come Zeno Cosini, sono degli inetti di successo che traggono un piacere erotico nell’autodenigrazione (è interessante notare come l’autodenigrazione sia la più sofisticata forma di narcisismo consentita a uno scrittore novecentesco).

Ma torniamo al romanzo. Nel bel mezzo della sua prolusione, Sammler viene interrotto, mentre sta parlando di Orwell, da un ragazzo barbuto e ostile che dopo varie domande così gli si rivolge:

“Orwell era un crumiro. Era un controrivoluzionario bacato. Meno male che è morto quando è morto”. Girandosi verso gli ascoltatori, allargando le braccia violente e sollevando le palme come un danzatore greco, disse: “Perché state a sentire questo vecchio sacco di merda effeminato? Che cosa ha da dirvi, lui? Ormai ha le palle secche, questo qui. È morto, non ce la fa più a venire”.

A questo punto Sammler si alza e se ne va, senza dire una parola. La cosa interessante, ancora una volta, è il commento interiore appena sceso in strada. Quello che è accaduto, al di là di ogni altra considerazione, è lo specchio dei tempi. È esattamente quello che doveva avvenire in una università in cui i valori della cultura alta erano stati improvvisamente soppiantati da lassismo e autoindulgenza. Questa esperienza brutale pone Sammler al di fuori del mondo, non gli consente più di ritrovarsi, gli dà una sensazione di solitudine ineluttabile:

Non gli dispiaceva di essersi trovato nel bel mezzo dei fatti, per tristi e deprecabili che fossero. Ma l’effetto era che Mr Sammler in verità si sentì in qualche modo separato dal resto della propria specie, se non in un certo senso tagliato fuori – tagliato fuori non tanto dall’età ma da pensieri e interessi troppo differenti e remoti, sproporzionati dal punto di vista spirituale, platonici, agostiniani, tredicesimo secolo.

Ecco il problema di Sammler. Il problema che lui ha con la sua specie. Sente perfettamente di essere stato fatto fuori.

Il Pianeta di Mr Sammler (il termine “pianeta” va inteso letteralmente come sinonimo di “pianeta terra”) è un libro sul dramma della vecchiaia come esperienza che tende a separarti progressivamente dalla tua specie, ma anche sul castigo di doverti misurare con l’ineliminabilità di certi ricordi tragici. Sammler, che è così intelligente e così risentito, non riesce a capire più niente: guarda con disprezzo e riprovazione la figlia squinternata, la nipote ninfomane (ancora sesso, sesso, maledetto sesso!), il nipote con i suoi progetti di ricchezze faraoniche, l’impunito borsaiolo negro da cui viene così splendidamente minacciato, e soprattutto New York che non la finisce di urlare e di marcire nel puzzo dell’estate.

Mr Sammler gira incessantemente – come il protagonista de Le pâques à New York di Blaise Cendrars – per la città e rimane atterrito dagli imprevedibili spettacoli che essa sa offrirgli. Ma le sue epifanie non hanno niente di esaltante, marchiate come sono dalle stigmate del parodistico e del grottesco. Testimoniano tutto il cattivo umore di un vecchio.

Ah, quello che si vede a Broadway mentre si va a prendere l’autobus! Sono riprodotti tutti i tipi umani, il barbaro, il pellerossa o un indigeno delle isole Figi, il dandy, il cacciatore di bufali, il desperado, il pederasta, il fantasista sessuale, lo squaw, bas-bleu, principessa, poeta, pittore, cercatore di petrolio, troubadour, guerilla, Che Guevara, il nuovo Thomas à Beckett.

Questa è New York, la New York degli anni ’60 vista attraverso lo sguardo di Arthur Sammler. Non c’è più spazio per l’elegia.

Possiamo dire con certezza che questo sia il libro più apocalittico che Bellow abbia scritto. La visione dell’umanità che vi traspare è tra le più incresciosamente nichiliste. Tutto nella mente di Sammler viene ridotto a nulla e a coazione ininterrotta, perfino gli ideali, perfino l’amore, tutto: “Poiché l’umanità continuava a fare le stesse bravate ad infinitum. Le sue antiche solite cose comico-lacrimose. Relazioni emotive. Desideri incapaci di un utile esaurimento. E sempre, e di nuovo, e ancora, sempre la stessa storia, nel tentativo di svuotarsi e alleggerirsi il petto di certe grida, di certi ardori”. Ecco il pensiero che Mr Sammler manifesta sui suoi simili. Un concentrato di disincanto novecentesco che non lascia spazio ad alcuna apertura.

Ma lui se lo può permettere. Lui non è un adolescente narciso. Lui è uno che ha visto la parte peggiore dell’umanità, la parte più tremenda dell’esistenza, e il luogo più oscuro del Secolo, e non ha scordata niente.

Così in questo violento manifesto contro gli anni della contestazione trova spazio anche una riflessione sulla violenza, anch’essa dialetticamente opposta alle idee correnti di quell’epoca ribelle.

Ripeto: siamo negli anni ’60: gli hippies, la nascita dei primi movimenti pacifisti, le proteste contro la Guerra di Vietnam e tante altre manifestazioni in cui una parte dell’umanità mostra la propria insofferenza al conflitto. Ma Sammler non è giovane, Per questo forse non si può permettere alcuna idealistica condiscendenza. Non credo Sammler abbia un’idea precisa sulla guerra e sulla pace. Ma sono certo che lui non possa permettersi sentimenti evangelici. Perché lui è scampato d’un pelo al massacro nazista. E i nazisti non si sono limitati ad ammazzargli parenti e amici ma gli hanno fatto scavare la fossa ove seppellire lui e sua moglie. Lui ce l’ha fatta, la moglie no. È strano che Bellow tratti un problema come questo in modo così esplicito: di solito preferisce nascondere queste faccende dietro uno schermo di discrezione. Invece ne Il pianeta di Mr Sammler, affronta la questione in modo esplicito. Basterebbe questo per descrivere il profondo disagio esistenziale in cui scrisse questo strano libro.

Il ricordo di quell’esperienza, della buca scavata sotto la minaccia dei nazisti, diviene il centro della vita di Sammler. Il flashback che tutto il mondo sembra evocare e in ogni momento. Il pensiero perpetuo, quello ineliminabile. È il leitmotiv del libro, il tema che sbuca inaspettato in ogni angolo della città, sebbene siano trascorsi venticinque anni da quelle tragiche esperienze.

Per il fatto di essere tornato, per il pensiero di quell’argomento, per il morire, per il mistero di morire, per lo stato di morte. E anche, per essere stato dentro la morte. Per il fatto che gli avevano dato la pala e gli avevano detto di scavare. Per aver scavato accanto alla moglie che anch’essa scavava. Quand’ella vacillava lui cercava di aiutarla. Scavando, non parlando, aveva tentato di trasmettere qualcosa a lei e di darle forza. Ma da come poi le cose si erano svolte, egli l’aveva preparata alla morte senza con lei dividerla. Fu lei ad essere uccisa, non lui. Era lei ad essere stata promossa, non lui.

I nazisti gli hanno fatto prima scavare la fossa, poi li hanno gettati là dentro, in fine hanno sparato all’impazzata credendo di aver trucidato tutti. Ma Sammler si è salvato. Eppure la cosa non gli dà alcun sollievo: anzi, reputa quello il suo castigo. Il suo castigo è quello di essersi salvato inutilmente e senza alcuna ragione, per un puro caso. Insomma sono tutti morti, solo Sammler è vivo e così Bellow commenta: “Gli accadeva di rado di considerarla una vittoria. Dov’era la vittoria? S’era scavato, a forza di unghie, la strada per uscirne. Se si fosse trovato sul fondo sarebbe rimasto soffocato. Se ci fosse stata un’altra trentina di centimetri di sabbia. Forse gli altri erano stati sepolti vivi in quella fossa. Non c’era alcun merito speciale, non c’era alcuna magia. Tutto quel che c’era era esser sfuggito al soffocamento. E se la guerra fosse durata qualche altro mese, egli sarebbe morto come gli altri. Non un solo ebreo avrebbe potuto evitare la morte”.

Non c’è alcun merito nell’essersi salvati, come non c’è nessuna colpa nell’essere morti. La morte di tanti ebrei, e la salvezza di pochi altri, è stata decisa dalla casualità delle circostanze. Questo è la verità più aberrante secondo Mr Sammler. È facile, d’altronde, intravedere in queste cupe considerazioni l’ombra del nostro Primo Levi le cui speculazioni sull’argomento sono state fatte oggetto di autentica idolatria in America. Ma qui c’è qualcosa di più. Quel fondo inestricabile di amarezza che per una volta prende forma in un’inedita e poco bellowiana iconoclastia.

Ma il colpo di genio è un altro. Dopo essersi salvato e nascosto, la sorte offre a Sammler l’opportunità che la maggior parte degli ebrei superstiti avranno anni dopo, attraverso la mediazione processuale di Norimberga. Sammler, che viene da quell’esperienza spaventosa, dopo aver nuotato nella buca in mezzo a tanti cadaveri tra cui quello della moglie, ha la possibilità di rifarsi su un militare tedesco. Così Sammler, dopo averlo disarmato, può farsi giustizia da solo. Il destino lo ha messo con una pistola in mano di fronte a un nazista. Sammler può uccidere un nazista. E non ha importanza che il nazista sia un ragazzo spaventato che implora pietà: ha dei figli che lo aspettano. Almeno a Sammler non importa. Temo che qualsiasi scrittore mediocre che si trovasse alle prese con questa scena si lascerebbe tentare dall’ipotesi del perdono. Ma Bellow non ha dubbi, così come non ha dubbi Sammler: non c’è altro da fare che sparare al giovane nazista a bruciapelo senza esitazione, e dopo averlo fatto spogliarlo e derubarlo di tutto: il cappotto, le scarpe… Ed è esattamente quello che fa. Insomma cosa c’è di meglio di annientare un individuo i cui commilitoni hanno appena trucidato tua moglie dopo averle fatto scavare la fossa? Sono decenni che Sammler pensa a quello sparo. E non solo, nel ricordarlo, non prova alcun pentimento retrospettivo, nessun rimorso, ma arriva al paradosso di considerare l’uccisione di quell’uomo l’istante più luminoso di tutta la sua vita. Il suo ricordo più eccitante.

Mr Sammler poteva anche aggiungere, alla saggezza fondamentale, che uccidere l’uomo che aveva assalito nella neve gli aveva fatto piacere. Si trattava di piacere soltanto? Era di più. Era gioia. La chiamereste un’azione tenebrosa? Al contrario, era anche un’azione luminoso. Era predominantemente luminosa. Quando sparò il fucile, Sammler, lui stesso quasi cadavere, scoppiò di vita. Ghiacciato com’era, nella Foresta Zamosht aveva spesso sognato di starsene vicino al fuoco. Ebbene, qui si trattava di qualcosa di più sontuoso del fuoco. Il suo cuore si sentì rivestito di raso scintillante, voluttuoso. Uccidere l’uomo e ucciderlo senza pietà, poiché lui era dispensato dalla pietà. Ci fu un bagliore, una saetta di bianco infuocato. Quando sparò di nuovo fu meno per assicurarsi che l’uomo fosse morto che per provare ancora una volta quella beatitudine,. Per bere più fiamme. Avrebbe ringraziato Iddio per quell’occasione se avesse avuto un Dio. A quel tempo non lo aveva. Per molti anni nella sua mente non c’era stato altro giudice che se stesso.

Non c’è spazio per alcuna pietà nel cuore del giovane, infreddolito, furioso Arthur Sammler. Ma neppure in quello del vecchio Arthur Sammler che ricorda molti anni dopo. La pietà, la comprensione, la tolleranza, il rispetto della vita umana. Tutte cose bellissime che un ebreo messo davanti a un nazista non può permettersi. Così l’apice della vita Sammler diventa il suo solo omicidio. Ci troviamo in presenza di un anti-Raskolnikov, con l’aggravante che questo giovane nazista ammazzato a sangue freddo è ancora più incolpevole di quanto non sia la vecchia massacrata dall’eroe dostoevskiano.

Per tutta la vita Sammler non riuscirà a pentirsi di aver ammazzato un uomo disarmato. Per tutta la vita rimarrà sedotto dall’abbacinante nitore di quel gesto insensato.

[continua…]

La prima parte del Reportage è qui.
La seconda è qui.

(Il testo è originariamente apparso in due puntate sui numeri 27, luglio-settembre 2004, e 28, ottobre-dicembre 2004, della quinta serie di Nuovi Argomenti)

Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).