Per avere un saggio del mondo accelerato in cui Herzog è costretto a vivere, ecco la scena in cui fugge da New York in preda a un vero delirio per raggiungere Chicago, vedere la figlia, la moglie e il bifido Gerbach, trascinato dalla solita ansia di vendetta e di chiarimenti ulteriori: “Il superjet lo portava a Chicago in novanta minuti, prua ad ovest, tenendo dietro alla rotazione del pianeta e regalandogli quindi un prolungamento di pomeriggio e di luce solare. Sotto di lui, le nuvole bianche si gonfiavano. E il sole, come la goccina che ci ha vaccinato contro la disintegrazione dello spazio. Guadò l’azzurro vuoto e lo scabro luccichio dei motori sorretti dalle ali. Quando l’aeroplano subì un vuoto d’aria, si tenne il labbro coi denti. Non che avesse paura di volare, ma gli venne in mente che se il velivolo si fracassava, o semplicemente esplodeva (come era accaduto recentemente sopra il Maryland, e s’erano viste sagome umane schizzate in aria e cadere come piselli sgranati), Gerbach sarebbe diventato il tutore di June. A meno che Simkin non avesse strappato il suo testamento. Caro Simkin, aiuto Simkin, strappa quel testamento. Ci sarebbero state anche polizze d’assicurazione, di cui una comprata da papà Herzog per suo figlio Moche. Solo che, vedi com’era diventato quel bambino, quel giovane Herzog: rugoso, perplesso, col cuore dolorante. Sto dicendo a me stesso la verità. Mi è testimone il cielo. L’hostess gli offrì qualcosa da bere, ma lui rifiutò scuotendo la testa. Non se la sentiva di guardare in faccia quella ragazza carina e sana”.
Non è facile commentare questa scena, proprio perché essa si presenta così parossisticamente concentrata. Da notare anzitutto come Bellow usi l’espressione “novanta minuti” e non “un’ora e mezzo”. È come se quell’allusione ai minuti rendesse il viaggio più breve. Eppoi per decuplicare l’effetto notiamo come ironicamente metta in gara il movimento del jet con quello del pianeta. Sì, è come se il jet su cui viaggia Herzog stesse rubando alla terra minuti importanti di pomeriggio e di luce solare. Improvvisamente quel vuoto d’aria che autorizzerebbe al terrore qualsiasi viaggiatore (anche uno come Moses che non ha paura di volare), produce uno nuovo repentino slittamento di prospettiva: così Moses passa dall’idea della sua morte violenta (che in fondo non lo eccita troppo né troppo lo spaventa) all’idea che quell’eventuale morte renderebbe il suo nemico Gerbach, colui che gli ha rubato tutto (una moglie bellissima e una figlia dolcissima), il tutore dei soldi della sua assicurazione sulla vita. Questo lo tormenta soprattutto. Gli viene da pensare al suo testamento, all’esigenza che Simkin, il suo avvocato, lo strappi (ma come avvertirlo da lì a dieci chilometri d’altezza?). Ebbene, ancora una volta, questo tormento si trasforma nella smania improvvisa di scrivere una lettera al suo avvocato. “Caro Simkin, aiuto Simkin, strappa quel testamento”. Ancora una volta il suo cervello non è in grado di soffermarsi su un pensiero (peraltro importante) per più di un secondo. Eccolo – quel pensiero – sgusciare via e proiettarsi verso il padre di Moses e su uno dei suoi fratelli, eppoi in fine implodere per tornare a contemplare se stesso. Ora è Moses che si guarda per autocompatirsi. In fondo quest’infinito piroettare del pensiero tende sempre verso un sentimento dominante: l’autocompassione. Sicché quando la bella piacente hostess gli offre qualcosa da bere, Herzog non riesce neppure a guardarla negli occhi tanto si sente insignificante e inadeguato.
Jules Laforgu diceva che il segreto dell’arte era tutto ne “la linea mille volte spezzata”. Bellow sembra aver raccolto tale lezione sulla modernità con una straordinaria efficacia. Se si avesse la possibilità di descrivere su un grafico l’andamento complessivo di tutto il periodare herzoghiano, si resterebbe sconvolti di fronte alla visione di questo lunghissimo segmento spaccato.
E sentite adesso l’arrivo di Herzog a Chicago. Un ennesimo inno alla velocità e all’angoscia di vivere. Anche in questo caso il nemico di Moses è il tempo e lui lo combatte con ogni stratagemma: “Mentre l’aereo atterrava, Herzog mise indietro il suo orologio. Uscì in fretta dal cancello n. 38 e s’avviò rapidamente lungo il corridoio all’agenzia noleggio auto”.
“I miei pensieri sono le mie puttane.”
Così Denis Diderot, ne Il nipote di Rameau, confessa il suo amore erotico per i pensieri e la sua infedeltà alla fredda retorica illuminista in cui la Ragione dovrebbe essere un luogo di pura luce piuttosto che un postribolo per puttanieri.
Tale frase, come è stato notato, autorizza molteplici interpretazioni. La più immediata è quella cui ho già accennato: i pensieri sono eccitanti come le puttane. Bisogna però tenere conto che il sesso praticato con le prostitute non ha mai (o non dovrebbe averne) implicazioni sentimentali. Quindi si potrebbe ritenere che anche i pensieri, secondo Diderot, non debbano mai sentimentalizzarsi. Un altro pregio del sesso mercenario rispetto a quello coniugale è la garanzia dell’infinita sostituibilità del partner. Tanto la donna amata (almeno per statuto) è insostituibile, tanto la prostituta deve essere ogni volta cambiata. Anzi, l’errore peggiore che un puttaniere possa commettere è quello di affezionarsi, o addirittura innamorarsi d’una prostituta. Da quel momento in poi la prostituta smette di essere tale e diventa automaticamente un’altra cosa.
Quindi Diderot ci comunica che l’errore più vistoso che un intellettuale possa commettere è quello di affezionarsi a un pensiero. Di sposarlo. Un pensiero è importante e suggestivo se suggerisce un’alternativa a se stesso. L’ultima cosa di cui tenere conto è che le puttane occupano nella scala sociale borghese il gradino più basso. Ancora oggi la più mortificante offesa che una donna borghese possa buscarsi è appunto quella di prostituta. Quindi anche i pensieri, secondo Diderot, non vanno rispettati. Non esistono pensieri rispettabili. I pensieri sono importanti tanto più sono indegni del nostro rispetto. Si comprende bene come esista una correlazione stretta tra la mancanza di rispettabilità dei pensieri e la nostra esigenza di sostituirli e di soppiantarli.
Moses Herzog è un Diderot del Ventesimo Secolo che alle ciarle con il funambolico Rameau ha sostituito le sue adorate e inutili lettere.
Ma Herzog spinge, se possibile, il suo libertinismo intellettuale ancora più oltre, coinvolgendo nella sua giostra perfino i classici della letteratura e del pensiero. La sua mente di intellettuale è ingolfata di letture umanistiche (e non solo) che vengono violentate, come se fossero volgari donne da trivio. Nessuno prima di Herzog aveva bistrattato tanto i classici. I romanzieri modernisti come Proust o come Mann usavano parlare dei classici con serietà e cautela. Le lunghe dissertazioni tra Naphta e Settembrini ne La Montagna incantata hanno il pregio dell’impeccabilità.
In Herzog (così come nel resto dell’opera di Bellow), questa inappuntabilità è caduta, sostituita da una affascinante forma di dispersività che costituisce il nuovo messaggio lanciato dalla cultura americana.
È necessario prendere i classici – sembra ammonirci Bellow – così, alla rinfusa, e immetterli nel flusso della vita senza farli passare attraverso il diaframma della venerazione e tanto meno della cautela filologica, a rischio di storcerli se necessario. I classici sono tuoi compagni di via, gli amici più intimi del tuo cuore che, come tali, vanno trattati. È come se in tal modo Bellow riuscisse a scavalcare i secoli, un balzo all’indietro che cancella il Ventesimo e il Diciannovesimo secolo, un salto eccezionale per ritrovarsi agli albori del romanzo borghese, nel salotto esclusivo dei suoi autentici modelli segreti: Swift, Johnson, Sterne questi strepitosi moralisti con il dono dell’ironia e della sprezzatura. Bellow è un maestro nell’arte della divagazione: se ne infischia di mettere a proprio agio il lettore attraverso un plot ben congeniato, una peripezia verticale che ti tiene avvinto alla pagina. Lui non ha molto da insegnarti. Per questo si limita a divertirti chiacchierando. E ciò che più di lui ti seduce è il ritmo del pensiero inarrestabile. Un autentico virtuosismo che ti mette a tu per tu con una intelligenza assoluta. È davvero difficile nella storia della letteratura americana (piena di scrittori grintosi ma talvolta anche un po’ sciocchi) trovare uno romanziere intelligente come Saul Bellow. Bisogna riferirsi ad altre letterature per trovare un amore così erotico per il puro e inutile ragionamento. Certe pagine dei Cahiers di Valéry solo per fare un esempio. Si tratta d’una vocazione naturale alla conversazione. L’inconfondibile conversazione bellowiana, quella in cui i suoi narratori si perdono e in cui lui stesso si perde, sporcata talvolta dall’espressività sincopata e contratta che contraddistingue la parlata degli abitanti di Chicago, ti seduce istantaneamente. Ecco perché Herzog (e molti altri romanzi ad esso successivi) appartiene alla categoria privilegiata di opere che non è necessario leggere dal principio alla fine, che basta aprire a casaccio per rimanere avvinti e incantati.
Herzog immette pomposamente nella letteratura americana il romanzo-saggio.
Credo di poter dire, senza timore di essere smentito, che Saul Bellow sia uno di quei pochi grandi scrittori che ha avuto la ventura di essere un predestinato. Come se la storia avesse agito per consacrarlo. Potremmo definirlo addirittura un anti-maledetto: l’alterità dialettica del modello offerto da Edgar Allan Poe. Il suo cammino è quello di uno scrittore istituzionale. Studia da scrittore insigne con pedanteria: si sente, sin dagli albori della sua carriera, una luce per i colleghi della sua generazione e per i tanti ammirati epigoni. E il fatto singolare è che tale autorità gli viene quasi immediatamente riconosciuta. Racconta Atlas che le settimane precedenti all’uscita di Herzog, nelle redazioni dei giornali, nei milieu intellettuali più sofisticati, nelle sale dei café newyorchesi, si respirava un’atmosfera elettrica come se si attendesse da un momento all’altro una svolta o un’improvvisa rivelazione. Doctorow ha scritto che “ci vorrà ancora del tempo per valutare la profonda influenza che Bellow ha esercitato sugli scrittori della mia generazione. Io credo che sia stato l’anello che ha collegato la letteratura della generazione di Faulkner, Hemingway e Fitzgerald con gli scrittori che si sono affermati dopo la seconda guerra mondiale”.
Ma c’è una testimonianza ancora più suggestiva che suona quasi come un giudizio storico sulla svolta della letteratura americana del secondo dopoguerra che coinvolge Bellow ma non si esaurisce in lui. Tale testimonianza ci viene fornita da William Styron nel suo più famoso romanzo La scelta di Sophie. A un certo punto Stingo, il narratore, si trova a discutere sui destini della narrativa americana con un giovane amico ebreo di nome Nathan il quale gli preannuncia, con mirabile veggenza, il primato della letteratura ebraico-americana:
“Non ho detto che gli scrittori ebrei avrebbero costituito l’unica corrente, solo la più importante” replicò affabilmente e pateticamente “e non sto cercando di insinuare, neanche lontanamente che tu non possa aggiungere qualcosa di significativo alla tua tradizione. Dico solo che storicamente ed etnicamente gli ebrei arriveranno a piena maturità nel campo culturale solo in questo dopoguerra. È più che probabile, capisci. Esiste già un romanzo che fa da battistrada. Non è un gran libro, è solo un libretto, ma mirabilmente proporzionato ed è scritto da un giovane autore con un talento assolutamente incontestabile”.
“Qual è il titolo?” domandai. E penso che nella mia voce ci fosse una punta di malumore quando aggiunsi: “E chi sarebbe questo scrittore con tanto talento?”.
“S’intitola L’uomo in bilico” replicò lui “ed è di Saul Bellow”.
Di questo estratto non m’interessa tanto il tributo a Bellow, quanto l’intuizione storiografica. È vero quello che dice Styron (il romanzo è del ’77 e lui ormai ha l’agio di valutare con il senno di poi): è l’ora degli scrittori ebrei. Bellow apre un ciclo, insieme a Malamud e in qualche misura (pur non scrivendo in inglese) insieme allo stesso Singer. È finita l’era degli scrittori del Sud. D’ora in poi gli scrittori ebrei avranno più facilità a pubblicare e a fare successo in America. Che piaccia o no, l’America funziona così: le mode etniche condizionano eccessivamente il mercato editoriale. Non è un mistero né uno scandalo, d’altronde, che, da qualche lustro, tale vague ebraica sia stata soppiantata da quella afro-americana.
NY 6 marzo 2004, ore 18.30
Non è stato facile riprendersi da quella scorpacciata alla Carnagie Deli. E il sosia di Bellow si è fatto profumatamente pagare.
Ma grazie al cielo almeno il vento oceanico si è placato. Marzo a New York è ancora più lunatico che dalle nostre parti. Appena uscito dal ristorante ho svoltato verso il parco. E sebbene esso non mostri ancora alcuna incoraggiante apertura alla primavera, venirci non è stata una cattiva idea. I laghetti ghiacciati, la gente che fa pattinaggio sulla pista in mezzo a Central Park, gli scoiattoli impauriti che ti guardano con i loro occhi stellati per poi scomparire tra gli arbusti sotto le sequoie secolari. e qualche maniaco del footing che non ha alcun pudore nell’ostentare variopinte e inguardabili divise da astronauta. Sono uscito dal parco per ritrovarmi a Columbus Circle. Era quel che cercavo. Questa è la zona battuta dal vecchio Mr Sammler, alle prese con l’elegantissimo borsaiolo negro il cui mancato arresto diventerà, nel corso del romanzo, la sua ossessione. E non posso nascondere che la cosa mi susciti un po’ di emozione.
Chi è Arthur Sammler?
“Sammler è l’ebreo che ha conosciuto l’esperienza inumana dell’Olocausto, l’uomo del vecchio mondo, tragicamente segnato da una esperienza sconvolgente di morte e di orrore, nel corso della quale egli ha visto l’umanità toccare il proprio fondo. Egli è l’uomo del di fuori, il sopravvissuto. […]. I suoi spaghetti di nervi, come egli li chiama, i suoi tessuti danneggiati – agisce ancora su di lui l’alito della Polonia del tempo di guerra – vibrano dolorosamente a contatto di una New York degradata”.
Ecco, chi è Sammler, nella descrizione suggestiva che ne ha fatto Elena Mortara.
Il vecchio Arthur Sammler è un camminatore non meno infaticabile di Moses Herzog. Se non che il suo raggio d’azione è quasi esclusivamente ristretto a Manhattan e la sua fatica di vivere assai più impediente (se non altro per quei malvissuti settant’anni). Anche Sammler passa la vita a guardare e a riflettere, ma i suoi pensieri non hanno nulla di erotico: freddi, disincantati, non privi di rancore. Potrei perfino definirli rinsecchiti come i rami d’un albero agonizzante. Se Moses Herzog è un disadattato per scelta o per vocazione, Arthur Sammler è un disadattato per ragioni oggettive e strutturali. Parla un’altra lingua, è nato in altro paese, ha dovuto rinunciare, per vivere in America, ai suoi codici culturali. Ha assistito esterrefatto al tramonto del suo continente. Questo fa di lui un vero e proprio Gulliver nella terra dei Giganti. Manhattan, con la sua imponenza, con i suoi crimini, con le fiumane di gente che la percorrono giorno e notte, sta davvero larga al povero Sammler che, come ogni bravo personaggio bellowiano, è un collezionista di gaffes e disavventure.
La prima è quella del borsaiolo negro appunto. Sammler fa di tutto per farsi notare da lui: lo guarda fisso mentre questi svolge la propria professione in autobus (Sammler arriva a prendersela con la società costruita dai WASP e con la loro incapacità di tutelare i cittadini onesti dall’assedio dei criminali: dove è finito il sano e severissimo puritanesimo dei Padri Pellegrini?), eppoi finisce addirittura con l’inseguirlo e, in fine, con il denunciarlo alla polizia. Ma un giorno avviene un inconveniente. Sammler si trasforma da inseguitore a pedinato. Il ladro lo ha visto e ora lo bracca, fino all’appartamento. Giunti nel cortile del caseggiato dove abita il vecchio intellettuale polacco, il ladro, senza dire una parola, lo immobilizza e fa la cosa allo stesso tempo più strana e più esplicitamente intimidatoria che avrebbe potuto: gli mostra i genitali. Tale esibizione basta a Sammler per capire l’antifona. Si tratta d’una minaccia ferina e inequivocabile. E il commento di Sammler è esilarante:
Però restava il fatto che il mondo occidentale era travolto da una follia sessuale. Sammler adesso ricordava anche, vagamente, di aver sentito dire che, a quanto pareva, un Presidente degli Stati Uniti si era mostrato in modo simile ai rappresentanti della Stampa (chiedendo che le signore si allontanassero), esigendo di sapere se un uomo così ben dotato non meritava la fiducia necessaria a guidare il paese. La storia era, naturalmente, apocrifa, però non era del tutto inverosimile, considerando chi era il Presidente; e l’importante era che se ne fosse venuti a conoscenza e che anzi la storia aveva circolato in ambienti così vasti da aver raggiunto persino i vari Sammler nelle loro camere da letto nel West Side.
Deve essere uno spasso per Bellow paragonare un borsaiolo negro a un Presidente degli Stati Uniti (JFK? Nixon? Johnson?…), tutti presi dalla loro frenesia sessuale e dal tentativo di nasconderla per non rovinarsi la carriera di fronte alla grande tribuna puritana del popolo americano.
Per quanto possa apparire incredibile, Il pianeta di Mr Sammler è un libro contro la sbornia pansessualista degli anni ’60. Per essere più precisi, è un libro contro la favola degli anni ’60 e contro la Rivoluzione sessuale che ad essi s’accompagnò. Forse basterebbe questo – tale prova di anticonformismo – per farne l’ennesimo capolavoro bellowiano. Ma a questo bisogna aggiungere una sorta di cupezza rancorosa e decostruttiva che accompagna ogni pagina di questo libro in cui molti – per me stoltamente – hanno voluto biasimare l’eccessivo saggismo e la totale mancanza di struttura e di plot. In fondo basta un personaggio – un solo indimenticabile personaggio – per rendere un romanzo necessario. E Mr Sammler ha le carte in regola per affiancare le grandi figure che Bellow ci ha regalato in più di mezzo-secolo di duro lavoro.
Semmai la domanda da rivolgere a Bellow è un’altra:
Perché tanto rancore? Che c’entra il rancore in questo momento della sua vita?
È davvero strano che una tale risentimento arrivi dopo il successo di Herzog. È una strana forma di ingratitudine nei confronti della sorte. Il problema di molti scrittori che hanno collezionato un capolavoro epocale come Herzog è quello di non ritrovare la giusta incisività. Insomma lo stesso Nabokov ha impiegato un po’ di tempo a risollevarsi dai fasti di . E alcuni sostengono che non ci sia neppure riuscito. Forse allora può essere che Bellow, spaventato dall’idea di aver già dato il meglio di sé, abbia calcato la mano? Abbia voluto esagerare nel creare un personaggio diametralmente opposto a Herzog pur di non incorrere nel malinconico rischio di fare un plagio di se stesso?
No, le motivazioni non sono queste. È una questione storica piuttosto. Bellow, a dispetto di molti scrittori liberal suoi coetanei o più giovani, ha vissuto la Rivoluzione sessuale come un vero e proprio inferno. Un inferno della Ragione. Credo che abbia giudicato – chissà se a sproposito? – l’ebbrezza libertaria che inghiottiva quel decennio come un pretesto ad abbandonarsi all’anarchia e all’irresponsabilità. Ebbene sì, ci troviamo in presenza d’un discorso autenticamente reazionario. E da un certo punto di vista è persino consolante che uno dei più grandi scrittori americani del Ventesimo Secolo si mostri così decisamente conservatore. E forse per capirsi meglio, bisogna pensare all’idea che Bellow ha della letteratura, e dell’arte in genere. Con tutta la sua ironia, con tutto il suo disincanto, Bellow ha un’idea decadente dell’arte. L’arte è una cosa faticosa, difficile, elitaria e che in qualche modo può addirittura salvarti l’anima. Bellow crede nel valore della filosofia con una dedizione platonica. La letteratura è roba da iniziati e basta: gli altri possono rimanere fuori, con i loro lavoretti filistei. Ebbene, credo che Bellow, quel Bellow cinquantenne e famoso, abbia visto nel sesso, nel sesso compulsivo e disperato degli anni ’60, nel sesso indemoniato della liberazione e del rock un vero e proprio attentato alla cultura alta. Da questo punto di vista la concezione estetica di Bellow è perfettamente europea. La Rivoluzione sessuale è quella parte dell’America che Bellow rifiuta drasticamente, non nella vita privata, ma nella sua opera ( non trovate strano che un narratore felice fluviale e sostanzialmente immoralista come Bellow non abbia mai infilato una scena di sesso in uno dei suoi romanzi?).
La prima parte del Reportage è qui.
(Il testo è originariamente apparso in due puntate sui numeri 27, luglio-settembre 2004, e 28, ottobre-dicembre 2004, della quinta serie di Nuovi Argomenti)
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).