Il dono di Humboldt, uno delle più luminose prove della narrativa bellowiana, è dedicato a questo conflitto dalle proporzioni bibliche tra insuccesso e successo. Tra vocazione all’auto-disintegrazione e una salubre forma di auto-tutela. Bellow pone uno di fronte all’altro in un corpo a corpo fatale due personaggi mirabili: da una parte il poeta Humboldt, gigantesco, coltissimo, dissipatore di sé, d’appetiti pantagruelici, autore d’un’opera poetica giovanile di successo, dall’altra il commediografo Charlie Citrine (ennesimo alter ego di Bellow) autore d’una commedia che oltre ad aver sbancato i botteghini di Broadway lo ha reso celebre internazionalmente al punto da consentirgli un’intimità con il clan Kennedy e con molte altre persone influenti, ma che, a dispetto dei desideri di società della moglie, ha preferito rinchiudersi nel suo appartamento di Chicago e frequentare solo vecchi amici del liceo (gangster compresi). Come è noto la storia di Humboldt ricalca la vita (ma soprattutto la morte) del leggendario poeta americano Delmore Schwartz, amico di Bellow tragicamente morto in solitudine e follia, quando i due non si parlavano già da qualche anno.
Basta sfogliare i racconti (assai pochi a dire il vero) scritti da Schwartz nel corso della sua carriera per capire quanto Bellow ne sia stato influenzato. Ci troviamo di fronte a storie la cui dimensione narrativa è stata sacrificata alla speculazione filosofica: insomma un bellowismo ante litteram, anche se privo della leggerezza e dell’ironia irresistibile che caratterizzerà le opere mature di Saul. Ne Il mondo è un matrimonio, ad esempio, Schwartz ritrae, con un tono di vaga nostalgia e di delusione, la bohème ebraica e marxista (cui per altro apparteneva anche un giovane improbabile Bellow) che celebrava i suoi fasti ma soprattutto i suoi insuccessi nel Greenwich Village negli anni ’30. Già in questo racconto vediamo delinearsi il tema della mancanza di denaro e del fallimento artistico che ritroveremo, con ben altra portata tragica, ne Il dono di Humboldt. C’è qualcosa che non funziona nei racconti di Schwarzt. Forse la scrittura gelida, o i personaggi dalle personalità così geometrizzate. O forse vi si intuisce il fondo di deprimente malattia che avrebbe condotto lo scrittore al manicomio. E dire che il suo primo racconto, quello che gli diede una precocissima gloria, quello che entusiasmò personalità artistiche diverse come Eliot, Bellow e Nabokov, era d’un tale splendore che prometteva al giovane autore un futuro entusiasmante. Il racconto aveva un titolo fantastico: Nei sogni iniziano le responsabilità. La struttura aveva qualcosa di borgesiano e il background era di chiara marca freudiana. Era la storia di un ragazzo che andava al cinema a vedere un film muto e scopriva – con quale sgomento! – che il film non era un film, ma una sorta di sconvolgente documentario che lo riguardava intimamente. Così il ragazzo – come in una specie di folle candid camera ante litteram – vede sullo schermo vivere i suoi genitori. Assiste, insieme a tanti altri spettatori incuriositi, alla scena in cui il padre chiede in sposa la madre. Rivive i turbamenti e le delusioni di quei due ragazzi che non sanno ancora che un giorno diventeranno i genitori di quello spettatore disperato.
Al che mio padre si guarda intorno con nervosismo, non sapendo cosa fare. Mia madre allora dice: “È quello che ho desiderato fin dal primo momento in cui ti ho conosciuto”. E singhiozza e lui trova tutto questo imbarazzantissimo, non proprio di suo gusto, non proprio quello che s’aspettava quando pensava a come sarebbe andata, durante le lunghe passeggiate sul ponte di Brooklyn, fantasticando e fumando un buon sigaro; ed è a questo punto che, giù in sala, io mi alzo di nuovo e grido: “Non fatelo. Non è troppo tardi per cambiare idea, tutti e due. Da tutto questo non verrà fuori niente di buono, solo rimorsi, odio, scandalo e due figli dal carattere mostruoso!”.
Il protagonista è sconvolto, non finisce di urlare, di piangere, di fare commenti sarcastici finché, all’ennesimo urlo di dolore e di angoscia, la maschera del cinema lo accompagna fuori dal cinema. E lì la narrazione sfuma in un risveglio angoscioso.
Ci troviamo di fronte a uno dei racconti brevi più struggenti della letteratura americana. Ma siamo anche al cospetto di un uomo i cui cromosomi promettono un destino di degrado e di follia.
Da qui muove la rievocazione bellowiana.
L’amico è morto oramai da un decennio e Bellow prende a pretesto la storia di questa amicizia finita male (Schwartz non gli aveva perdonato il successo di Herzog) per mettere in scena questa sfida ancestrale tra chi ce l’ha fatta e chi non ce l’ha fatta, tra chi ha avuto fortuna e chi non ce l’ha avuta. Tra chi ha avuto in eredità cromosomi giusti e chi li ha avuti sbagliati.
In un episodio cruciale del romanzo lo scattante e longilineo Citrine, – che immaginiamo azzimato e a suo agio in costosi abiti sartoriali – incontra un Humboldt devastato dalla malattia, dal manicomio, dall’elettroshock, dal rancore, dall’indigenza, da una shakesperiana gelosia per la moglie, dagli incubi d’una vita buttata al vento. Lo vede, gli fa pena, gli incute anche uno strano terrore (un terrore che si tinge dei violacei colori della superstizione), ma non trova la forza di avvicinarlo e di aiutarlo. Eppoi come è naturale, tornato a casa, non gli resta altro da fare che pentirsene: pentirsi di non essere intervenuto, pentirsi per non aver aiutato un amico. Per come ci viene raccontato questo pentimento va ascritto a quel genere di impulsi che Baudelaire, con cinismo e con assoluta precisione psicologica, classificava come “aimables remords”. Gli amabili rimorsi.
Perché, a dispetto di certi luoghi comuni cattolici, i rimorsi non sono mai troppo dolorosi: anzi alcune menti sofisticate possono servirsene come utile scorciatoia per quietarsi la coscienza: il rimorso spesso è un diversivo degli ipocriti e degli auto-indulgenti. Quindi il pentimento di Citrine non ispira alcuna dignità e alcuna grandezza: è un’impostura, come si sbriga a fargli notare la moglie (non meno disincantata di Baudelaire). La verità – e stavolta Citrine è onesto – è che Humboldt gli interessa e lo inquieta più per quello che rappresenta che per quello che è stato. La vista di Humboldt ridotto in quelle condizioni riapre in Citrine una ferita. Humboldt è l’immagine stessa di quanto la vita possa essere crudele con un grasso ebreo con l’animo ingolfato dal genio e da mille auto-lesive paranoie. Ma non solo: lui è anche la trasposizione di quella crudeltà con cui l’America usa sbarazzarsi dei suoi poeti più importanti, sin dai tempi lontani di Edgar Allan Poe.
Il problema di Humboldt è quello di aver affrontato la questione-successo a mani nude, con la protervia d’un teppista dei sobborghi. Il problema di Humboldt è quello di non avere avuto la giusta distanza. Non si è fatto carezzare dal successo: si è lasciato schiaffeggiare semmai, dopo averlo inseguito con bramosia. E ci ha pensato il destino a castigarlo. Proprio perché solitamente è così raro che qualcuno ottenga quello che desidera ardentemente, ciò per cui lotta a viso aperto e senza discrezione, Humboldt ha fallito. Ha fallito perché non ha avuto stile, compassatezza. Perché al primo scricchiolio, è stato preso dal panico, ha lasciato che lo facessero a pezzi! Per motivi inversi Citrine ha vinto la sua lotteria (proprio come Bellow) e questo Humboldt non ha saputo davvero perdonarglielo. Non può perdonare a Citrine che lui abbia avuto tanta fortuna, quasi malgré lui.
Fin dall’inizio del romanzo Humboldt, con l’incontinenza che gli è propria, discute con il suo giovane amico del tema dell’insuccesso. Ed è singolare e beffardo, perché le sue diagnosi, peraltro molto convincenti, sembrano spiegare in anticipo il fallimento verso cui si sta avviando. Eh sì, si tratta d’una vera e propria premonizione che piuttosto che addentrarsi nei territori oscuri dell’oracolare, preferisce mantenersi negli stretti confini del raziocinio. E non a caso la questione etnica (il primato degli WASP sugli altri gruppi razziali) è al centro del suo dotto ragionamento.
Se Scott Fitzgerald fosse stato protestante – dice Humboldt al suo amico – il Successo non l’avrebbe danneggiato tanto. Si pensi a Rockefeller senior: lui sì che sapeva tener testa al successo, asserendo che il denaro gli veniva da Dio, ecco tutto. Certo, questo è un concetto manageriale della vita.
Solo poche righe prima Humboldt aveva detto al suo amico con malinconia: “Ho sfondato troppo giovane, sono nei guai”.
E non è un caso che in queste pagine si nomini Scott Fitzgerald. Perché l’ombra di questo sfortunato (o fortunatissimo?) scrittore campeggia sulle teste dei personaggi bellowiani come un nume tutelare o come una maledizione. Il concetto espresso da Humboldt sembra riecheggiare un passo noto de L’età del Jazz – la raccolta di saggi assemblati da Wilson dopo la morte di Fitzgerald che continuano dopo molti anni a esercitare su di noi un incantesimo che in alcuni suoi romanzi sembra essersi spento. Ecco cosa scrive Fitzgerald commentando a più di un decennio di distanza le sue glorie giovanili.
Il successo prematuro ti dà una concezione quasi mistica del destino come opposto alla forza di volontà: nel caso peggiore, l’illusione napoleonica. L’uomo che arriva giovane crede di esercitare la sua volontà proprio perché la sua stella splende. L’uomo che si afferma soltanto a trent’anni ha un’idea abbastanza equilibrata di come forza di volontà e destino abbiano cooperato ognuno per parte sua, colui che arriva a quaranta ha tutte le probabilità di mettere l’accento sulla sola volontà. Ciò avviene quando gli uragani si abbattono sulla sua navicella.
Il compenso di un successo molto precoce è la convinzione che la vita sia una faccenda romantica. Nel senso migliore uno rimane giovane.
Utile ricordare che quando Fitzgerald scrive queste pagine è un uomo non solo affetto da una gravissima depressione ma in preda a quel tipo di disperazioni da cui è impossibile riprendersi e che di solito conducono alla morte (ancora una volta penso a Zweig: all’aria di irrimediabile sconfitta che si respira ne Il mondo di Ieri).
In effetti, però, i discorsi di Fitzgerald e Humboldt, pur appartenendo alla stessa area semantica, sono di segno opposto. Il primo dice che l’errore peggiore che un giovane possa commettere è quello di pensare che il successo sia una diretta (mistica?) emanazione del destino, il secondo, invece, sostiene che il segreto dei grandi WASP milionari (Rockefeller) è nell’idea che il denaro venga direttamente da Dio. Insomma Humboldt ribalta la questione e accusa (si fa per dire) Fitzgerald di non aver saputo gestire il proprio successo perché non ha creduto nell’origine metafisica del medesimo, laddove Fitzgerald accusa implicitamente se stesso di averci troppo creduto. Ma in fondo a noi non importa così tanto che i due la pensino allo stesso modo. A noi importa che per loro questo tema sia semplicemente fondamentale, tanto quanto lo è per Bellow naturalmente.
Nella sua opera difficilmente Bellow parla di Fitzgerald. A dire il vero, difficilmente parla dei suoi colleghi americani (Faulkner, Hemingway, ecc.), per una sorta di sindrome della prima donna. Lui si sente il miglior prodotto del Novecento americano e non vuole che altri giganti gli facciano ombra. Eppure è evidente che Fitzgerald gli ha insegnato qualcosa. Fitzgerald ha fatto del danaro e di tutto quello che il danaro può acquistare una specie di mito. Lui ha creato l’epos fiammeggiante dei ricchi di Long Island. “I ricchi sono diversi” è la sua celebre frase che gli rimproverava Hemingway. Fitzgerald ama gli orpelli dei milionari in un modo religioso, così come gli yacht, le serate di gala, i gioielli.
Fitzgerald in tal modo ha dato una versione americana, un po’ volgarizzata, di decadentismo. Il mito dell’ascesa e del crepuscolo dei grandi milionari che in seguito Hollywood avrebbe sfruttato volgarizzandolo.
E non si può certo dire che Bellow sia immune da questa forma di estetismo. Molti dei suoi personaggi sono attratti dal lusso: da Humboldt fino a Ravelstein, per non parlare della sequela di mogli nevrotiche o di simpatici alter ego di Bellow stesso. Lui ama concentrare il suo sguardo su alcuni elementi nell’addobbo delle case, o sugli interni delle sfarzose macchine che talvolta si compiace di regalare ai suoi personaggi.
La differenza da Fitzgerald sta nel fatto che Bellow è troppo disincantato per poter rimanere significativamente contagiato da tali miti. Spesso Bellow nei suoi libri ironizza su questo punto. Lui si sente figlio della Grande Depressione degli anni ’30, non della Grande Euforia degli anni ’20. Ecco la differenza. Nei suoi romanzi la ricchezza è un dono del cielo che uno deve trattare con leggerezza perché domani potrebbe esaurirsi senza ragione. Non è un mito da idolatrare o in cui identificarsi.
Non so se sia mai stato notato, ma il solo tratto che accomuna tutti gli scrittori della lost generation (e alludo soprattutto a Fitzgerald, a Hemingway e a Dos Passos) è la loro impressionante mancanza di ironia. Essi prendono eccessivamente sul serio, non tanto la missione di artista, ma direi la loro missione di uomini sulla terra. Se ciò dipenda dall’esperienza tragica della guerra o dall’esuberanza dell’età del Jazz, non saprei dire, ma mi sembra un dato incontrovertibile. L’ironia è un regalo fatto agli scrittori americani dalla Depressione.
Forse per questo Bellow guarda ai fasti e alle dissolutezze della lost generation – e soprattutto guarda a Fitzgerald – con un sorriso pieno di scherno.
In fondo è mirabilmente vero quello che Alfred Kazin ha scritto di Fitzgerald: “Commentava il mondo sguazzandovi con la stessa soddisfazione dei nuovi ricchi e, quando voleva, sapeva capirlo da saggio, ma non ebbe mai il dono dell’interiorità, i suoi sensi erano sempre rivolti all’esterno, verso un mondo fatto di domeniche a Long Island”.
Giudizio ineccepibile che spiega anche il decisivo passo in avanti fatto da Bellow. Fitzgerald è un principe delle superfici che ama in un modo spasmodico il mondo che ha scelto di descrivere con devozione, ricercatezza e una struggente soavità. Bellow è uno scrittore d’altra pasta. È attraversato – da bravo ebreo chicaghese cresciuto nella penuria spirituale e pecuniaria del New Deal roosveltiano – da una tormentata interiorità. Così anche le raffinatezze e i salotti e il successo che da un certo punto della sua opera in poi Bellow comincia a descrivere sono tenuti a distanza. Bellow preferisce ragionare pacatamente sul successo e sull’insuccesso, sulla ricchezza e sull’indigenza, piuttosto che lasciarsi incantare dalla nuova conquistata agiatezza e dall’occasione di incontri prestigiosi che essa sembra offrirgli. Trova i ricchi eccentrici o cretini, più che epici. Fitzgerald è morto, è morta la sua America: c’è qualcosa di rarefatto e sfibrato e infantile nella poetica fitzgeraldiana (e nella sua prosa) che urta le nostre sensibilità moderne.
E Bellow è un antidoto potentissimo alle perniciose deliquescenze anni ‘20. Perché riesce simultaneamente ad essere scrittore dei salotti e scrittore delle idee. Delle apparenze così come delle profondità. E senza mai appesantirci l’anima.
La descrizione di Ravelstein che si veste prima di uscire, è paradigmatica:
Si ferma davanti alla specchiera (qui non ci sono specchi a tutta parete), infila nelle asole i gemelli d’oro massiccio e si abbottona la camicia a righine Kisser & Asser di Jermyn Street: la lavanderia e stireria American Trustworthy gliele consegna imbottite di carta velina. Si passa la cravatta intorno al collo alzando il colletto che scricchiola di amido. Fa un nodo sontuoso. Le dita incerte, lunghe, scoordinate, agitate da un nervosismo da esteta, girano due volte intorno a un capo della cravatta. Ravelstein ama nodi grossi: anche lui, dopo tutto, è un omone. Poi si siede su vello ben conciato del suo letto e s’infila gli stivali marrone Poulsen and Skone. Il suo piede sinistro è di vari numeri più piccolo del destro, ma Ravelstein non zoppica.
Qui come non mai si evince come il tratto peculiare dello stile bellowiano sia la sprezzatura, e come la caratteristica della sua intelligenza sia l’intuizione. Sì, insomma, il mondo dei fenomeni, come a ogni realista di razza, gli interessa – ne è talvolta addirittura commosso –, ma a patto che quella sequela di dettagli gli consentano di aprire spiragli imprevedibili sul carattere dei suoi personaggi.
È evidente come Ravelstein, l’ultimo magnifico eroe creato dal laboratorio bellowiano, sia tutto nella sue abitudini vestimentarie. “Il nervosismo da esteta” di cui parla Bellow è proprio quella vibrazione delle mani che cattura tutti coloro che hanno un’idea della vita piuttosto complessa, che sono nati per viverla fino in fondo e che per questo arrivano a soffrire di tanta grazia e di tanta bellezza. Ma l’ultima notazione: quel piede sinistro tanto più piccolo del destro è il colpo di genio: l’intuizione che ravviva l’affresco. Quell’asimmetria, quella dissonanza delle estremità inferiori è ciò che restituisce Ravelstein alla sua essenza di uomo difettoso e un po’ ridicolo. Così come il fatto che non zoppichi è la prova della sua dignità e del suo auto-controllo. D’altronde mentre tutto questo avviene – mentre questo rito vitalista ed estetizzante si compie – Ravelstein sa già che dovrà morire.
La prima parte del Reportage è qui.
La seconda è qui.
La terza qui.
La quarta qui.
(Il testo è originariamente apparso in due puntate sui numeri 27, luglio-settembre 2004, e 28, ottobre-dicembre 2004, della quinta serie di Nuovi Argomenti)
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).