Quattro modernisti e una cena di gala

da | Nov 25, 2013 | Senza categoria

Cosa sarebbe successo se a Waterloo Napoleone non si fosse svegliato con un tremendo mal di testa? Alessandro avrebbe pugnalato Clito se a Samarcanda si fosse risparmiato l’ultima coppa di vino? Lord Byron sarebbe diventato un eroe nazionale greco se il suo spirito per l’avventura non avesse casualmente incontrato nella biblioteca paterna la traduzione delle Mille e una notte ad opera del capitano Burton?
Giudicare la storia degli uomini in base a minimi nessi di causalità è suggestivo, benché improprio; figuriamoci, poi, quando volessimo stabilire un rapporto di causa ed effetto tra un mal di denti – o il passaggio di una cometa, o una bolletta della luce – e un’opera d’arte, che sembra fatta apposta per smentire Leucippo e il suo «nulla accade senza un fondamento». Eppure non è del tutto inutile sapere che fu una nube di polvere vulcanica stabilizzatasi attorno al 1815 negli strati alti dell’atmosfera a dare luogo ai meravigliosi tramonti dipinti da Turner e che il modello principale di Leopold Bloom fu il signor Ettore Schmitz di Trieste, amico di Joyce e incidentalmente passato alla storia della nostra letteratura con il nome di Italo Svevo.
Il più delle volte le storie ufficiali rimangono mute su queste cose. Se ne lamentava Marcel Schwob nel presentare le sue Vite immaginarie, rallegrandosi di Aristofane che «ci ha dato la gioia di sapere che egli era calvo» e di Diogene Laerzio che ci ha raccontato come Aristotele «tenesse sullo stomaco una borsa di cuoio piena di olio caldo». È commovente sapere che Tolstoj – il titano dell’epica moderna – appena terminato di scrivere Guerra e pace annotasse nel suo diario: «Sono insopportabile e noioso a me stesso» e (allo stesso modo) che fosse completamente sdentato dall’età di trentaquattro anni; e dovremmo essere grati a chi s’è preso la briga di andare a spulciare nella biblioteca di Castelvecchio per scoprire che Pascoli (quello di Valentino e di tutto quell’onomatopeico microcosmo garfagnino) scrisse i versi de Il ciocco dopo aver trovato in una traduzione della Bhagavadgītā la sintesi di un ordine cosmico in cui la vita rinasce dalla morte. Così, quando sono venuto a conoscenza di una cena parigina in cui parteciparono i quattro campioni del modernismo mi sono messo alla disperata ricerca di testimonianze, resoconti e indizi su ciò che in particolare si sono detti due di loro, come se da quel dialogo avesse potuto scaturire una vera e propria illuminazione.
Ecco cosa ho scoperto.

Il 18 maggio 1922, in una sala da pranzo riservata del Majestic in avenue Kléber, a Parigi, Violet e Sydney Schiff – ricca coppia di cosmopoliti inglesi – danno un ricevimento per celebrare la prima di Le Renard di Stravinskij assieme a Diaghilev e ai suoi Balletti russi: tra gli ospiti ci sono Stravinskij e Picasso (con una bandana catalana di sghimbescio sulla fronte). Al momento del caffè, come racconta uno degli invitati, il critico d’arte Clive Bell, «sgombrati piatti e cibi, comparve tra la moltitudine elegante un uomo male in arnese, confuso e incespicante. […] Gli fu portata subito una sedia, messa alla destra del padrone di casa, e là egli rimase senza aprir bocca, con la testa fra le mani e un bicchiere di champagne davanti». Era James Joyce. «Alle due e mezzo del mattino, poi, saltò fuori Proust, guanti bianchi e tutto, come se niente fosse».
A quei tempi, Stravinskij aveva già ricevuto enormi trionfi per L’uccello di fuoco e La sagra della primavera, Picasso era il genio cubista di Les demoiselles d’Avignon e quello surrealista delle gigantesche Deux Femmes Courant sur la Plage, e Proust era all’apice della sua fama, avendo appena pubblicato il secondo tomo di Sodoma e Gomorra. «Ricordo che Proust parlò estasiato degli ultimi quartetti di Beethoven», ricorderà Stravinskij. «C’era anche James Joyce, ma per mia ignoranza non lo riconobbi». Le prime copie dell’Ulisse erano state stampate da Sylvia Beach – proprio a Parigi – tre mesi prima, ed erano finite tra le mani delle persone ”giuste”: Gide, Eliot, Crane, Dos Passos, Huxley, Hemingway, la Woolf, oltre a qualche altro invitato al party degli Schiff, dove quel segaligno irlandese veniva osservato tutt’al più come una curiosità; era già piuttosto ubriaco, peraltro, e aveva cominciato a russare.  Poi si svegliò; e – a quanto pare – parlò con Proust.

A Joyce, nel suo esilio parigino, mancavano gli amici di Trieste e di Zurigo. Beveva troppo e la salute stava peggiorando: dovette farsi togliere tutti i denti (anche lui) e il glaucoma non dava  pace ai suoi occhi. I problemi economici lo assillavano, benché proprio in quel maggio, assieme alla moglie e ai figli avesse traslocato in un elegante appartamento prestatogli da Valery Larbaud in rue du Cardinal Lemoine. In una lettera spedita in quei giorni, Hemingway scriveva di Joyce: «Si dice che lui e la sua famiglia facciano la fame, ma puoi trovare l’intera banda celtica ogni sera da Michaud dove io e Binney [Hadley] possiamo permetterci di andare una volta alla settimana».
Finito l’Ulisse, Hemingway disse che era «il libro più maledettamente meraviglioso» che avesse mai letto. Virginia Woolf, invece, lo giudicò «un grattamento di foruncoli sul corpo del lustrascarpe».
Vale la pena tornare a Schwob, per il quale «le idee dei grandi uomini sono il patrimonio comune dell’umanità», anche se «ognuno di loro non possedette realmente che le proprie bizzarrie»; come certi odi e non meno intensi amori tra scrittori. A quindici anni, ad esempio, Tolstoj portava al collo un medaglione col ritratto di Rousseau; e quando seppe della morte di Byron, il quattordicenne Alfred Tennyson vagò sconsolato per i campi e incise su una roccia: «è morto!».
I giornali paragonavano Lord Byron a Nerone e ad Eliogabalo, a Enrico VIII e al Demonio; lui scherzava sul fatto di dover dividere con Napoleone la fama d’essere l’uomo più importante del secolo. L’alta opinione che sembrava nutrire per se stesso la riservava raramente ai suoi colleghi;  si conoscono alcune sferzanti battute su Foscolo e non era più tenero nei confronti di certe glorie del passato: nel suo diario londinese, il 18 dicembre 1813 scriveva: «Detesto Petrarca a tal punto che non ci terrei neppure a essere stato l’uomo che ottenne i favori della sua Laura – come non riuscì a quel vecchiaccio rimbecillito, astruso e frignone».
Pound bocciava Virgilio senza appello, come si trattasse di un pivellino appena iscrittosi a un certamen poetico; Nabokov faceva a pezzi – tra gli altri – Pound e Dostoevskij; Tolstoj odiava Shakespeare, Turgenev pensava che Tolstoj fosse un ciarlatano; in una lettera ad Apollon Majkov, Dostoevskij bollava Turgenev come uno di quei «liberaloni e progressisti» che «trovano nel vituperare la Russia piacere e soddisfazione».
Nell’autunno del 1920, appena arrivato a Parigi, Joyce aveva scritto a un amico: «Noto un furtivo tentativo di mettere un certo Marcel Proust di qui contro il firmatario della presente. Ho letto qualche pagina sua. Non riesco a vederci un talento speciale, ma io sono un cattivo critico».
Meno di due anni più tardi, i due più grandi romanzieri del ventesimo secolo si incontrarono per la prima volta alla cena degli Schiff.
Cosa si dissero?
Secondo la duchessa Clermont-Tonnerre – che non era presente al Majestic ma conosceva entrambi –, ci fu un unico e brusco scambio di battute:
«Non ho mai letto le sue opere, Mister Joyce.»
«Non ho mai letto le sue, Monsieur Proust.»
Il poeta irlandese Padraic Colum raccontò quel che gli aveva confidato Joyce, e cioè che quella sera aveva frustrato ogni tentativo del collega francese di attaccare discorso:
«Monsieur Joyce, voi conoscete senz’altro la principessa…»
«No, Monsieur.»
«Ah, Allora forse conoscerete Madame…»
«No Monsieur…»
Ford Madox Ford, su “soffiata” di Violet Schiff, dice che Proust si scusò per essere arrivato tardi: la causa era il mal di fegato, e cominciò a descrivere nei dettagli i sintomi della malattia. «Tiens, Monsieur», lo interruppe Joyce. «Ho quasi esattamente gli stessi sintomi. Solo che nel mio caso le analisi…».
Questa versione è avvalorata, più o meno, da William Carlos Williams, che raccolse le sue informazioni in proposito durante un suo viaggio a Parigi nel ’24: «Ho mal di testa ogni giorno. I miei occhi vanno malissimo», disse Joyce. E Proust rispose: «Sapeste, il mio povero stomaco! Mi sta uccidendo!».
Secondo un altro resoconto (il mio preferito), Proust chiese a Joyce se gli piacevano i tartufi, e Joyce rispose: «Sì, mi piacciono». Punto.

«Se ci fosse stato consentito d’incontrarci per parlare un po’, da qualche parte…» si lamentò tempo dopo Joyce con Samuel Beckett. Dal canto suo, Proust non parlò mai di quella serata: «lo sgradevole incontro con Joyce al Majestic», ricorderà la sua domestica, Céleste Albaret, «non lasciò in lui alcuna impressione, e non accennò nemmeno al suo nome».
Tutto ciò che di tangibile produsse quel rendez-vous furono alcune allusioni a Proust in Finnegans Wake. Anche alla fine della cena al Majestic, quando, per ricambiare la cortesia degli Schiff, l’autore della Recherce li invitò a continuare la serata a casa sua, la presenza di Joyce non fu che un ingombro.
Fu lo stesso Sydney Schiff a raccontare che non appena i loro ospiti sfollarono dall’albergo lui e sua moglie uscirono in strada dove Odilon Albaret – marito di Céleste – aspettava Proust con un taxi che lo avrebbe riportato a casa, in rue Hamelin. Negli anni Venti, le vetture pubbliche di Parigi sembravano fatte per dei pigmei, così, quando gli Schiff furono invitati a salire sul taxi assieme a Proust, dovettero stringersi per trovare spazio; l’affollamento, poi, fu peggiorato dal fatto che nel taxi si infilò di straforo anche Joyce, il quale, una volta dentro, si mise pure a fumare e aprì il finestrino. «Siccome Proust temeva le correnti d’aria, e la sua asma non sopportava il fumo del tabacco, Schiff chiuse il finestrino appena la sigaretta fu spenta o buttata». Lungo il tragitto, Proust «“parlò incessantemente senza rivolgersi a Joyce”, disse Violet Schiff: Joyce lo guardava in silenzio. Quando la macchina arrivò al portone di rue Hemlin, sembrò che Joyce volesse salire anche lui, ma Proust […] fu deciso nello sbarazzarsene. “Lasci che la mia macchina la porti a casa” insistette. E poi, temendo il freddo, s’affrettò a entrare con Violet Schiff, mentre suo marito si fermava a convincere Joyce, cocciuto, quasi molesto, ad andarsene a casa».

Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).