LE NOSTRE MANI NELL’ACQUA
Noi agitiamo quest’acqua. In essa le nostre mani si [cercano,
Talvolta si sfiorano, forme spezzate.
Più in basso, è una corrente, è qualcosa d’invisibile,
Altri alberi, altre luci, altri sogni.
E guarda, sono anche altri colori.
La rifrazione trasfigura il rosso.
Era un giorno d’estate? No, è il temporale
Che “cambierà il cielo”, e fino a sera.
Noi immergevamo le mani nel linguaggio,
Vi afferrarono parole delle quali non sapemmo
Che fare, non essendo che i nostri desideri.
Noi invecchiammo. Quest’acqua, nostra trasparenza.
Altri sapranno cercare più nel profondo
Un nuovo cielo, una nuova terra.
*
IO TI OFFRO QUESTI VERSI…
Io ti offro questi versi, non perché il tuo nome
Possa mai fiorire in questo suolo povero,
Ma perché tentare di ricordarsi,
Sono fiori recisi, il che ha senso.
Certi dicono, persi nel loro sogno, «un fiore»,
Ma significa non sapere che le parole tagliano,
se credono di designarlo, in quel che nominano,
Trasmutando ogni fiore in idea di fiore.
Tranciato il vero fiore diventa metafora,
Questa linfa che cola, è il tempo
Che finisce di liberarsi dal suo sogno.
Chi vuole avere, talvolta, la visita deve
Amare in un mazzo che abbia solo un’ora,
La bellezza non è offerta che a tal prezzo.
*
LA SCIARPA ROSSA
In alto un atrio nel cielo.
Il sole, al di là. Il comandante
Del vecchio mercantile riceve un viaggiatore.
Un oblò è aperto, le onde sono vicine.
E lui che fa? Si è alzato, lancia
Da questo oblò una cosa, poi altre.
Così: perché, mi dice, questa sciarpa,
Mio padre me la donò, alla mia partenza
Per il primo di tanti viaggi.
L’ho amata, mi è parso che mi dicesse,
L’ho serbata per questo giorno in cui muoio.
La spinge fuori, essa si ripiega
Sulla sua mano, e si rigonfia, poi si dispiega.
Per un istante su noi due tutto il cielo è rosso.
*
RAMI BASSI
I
Istante che vuol durare ma senza sapere
Trarre eternità dai rami bassi
Che proteggono il tavolo su cui chiari e ombre
Giocano, sulla mia pagina bianca di questo mattino.
Attorno a questi due alberi dapprima l’erba,
Poi la casa, poi il tempo, poi domani
Per aprire all’oblio, che già dissolve
Questi frutti di ieri caduti accanto al tavolo.
Laggiù è lontano. Tuttavia, sono soprattutto
Qui e ora a essere inaccessibili,
Più semplice è rientrare nell’avvenire
Con, a breve, un briciolo
Di questo frutto maturo, grazie al quale
Il blu s’impiglia col verde nella notte dell’erba.
***
È certamente il segno rosso, quello della parola che va oltre la riga, il tratto più riconoscibile della poesia di Bonnefoy al traguardo dei suoi anni. Possiamo riprendere alcune parole di Berardinelli per immortalarlo, oggi, verso l’inizio della sua carriera: «Bonnefoy in Movimento e immobilità di Douve (1953) scrive poesia sulla poesia, sul mito della parola poetica in quanto forma identificabile con un discorso sull’Essere: la sua si presenta come poesia d’amore sul corpo e sull’essenza femminile e si risolve in celebrazione della poesia» (A. Berardinelli, Poesia non poesia, Einaudi, Torino 2008, p. 61). La lirica di Bonnefoy forse ne L’ora presente ha perso il filo erotico (da Eros, quello vero) che tramava il rapporto con l’umano e con la natura, ma certamente ha afferrato, per dote di saggezza, quel segno rosso cui si accennava: la passione della vita, la passione della parola che si fa vita e la passione della vita che si fa – strenuamente, accidentalmente, prevedibilmente, assolutamente – parola. Leggiamo uno dei componimenti della sezione intitolata, a nostro vantaggio, Per capire meglio: «Noi agitiamo quest’acqua. In essa le nostre mani si cercano, / Talvolta si sfiorano, forme spezzate. / Più in basso, è una corrente, è qualcosa d’invisibile, / Altri alberi, altre luci, altri sogni. // E guarda, sono anche altri colori. / La rifrazione trasfigura il rosso. / Era un giorno d’estate? No, è il temporale / Che “cambierà il cielo”, e fino a sera. // Noi immergevamo le mani nel linguaggio, / Vi afferrarono parole delle quali non sapemmo / Che fare, non essendo che i nostri desideri. // Noi invecchiammo. Quest’acqua, nostra trasparenza. / Altri sapranno cercare più nel profondo / Un nuovo cielo, una nuova terra» (Le nostre mani nell’acqua).
Per avvicinare questa consapevolezza, questo giro di nomi che capitolano ancora nella ricerca di una forma che sia essenza, possiamo prendere a paragone ancora il Sereni di Un posto di vacanza, allo stesso mobile e lucido nell’individuazione dell’assenza, oppure chiamare in causa – rimanendo all’interno della nostra tradizione e per ragioni opposte – la fuga trasversale di Zanzotto, quello più conclusivo della stagione di Meteo, ma inequivocabilmente distante dalla limpidezza emotiva di Bonnefoy. Del resto, in Bonnefoy è il nome ciò che salva, ma non per sua volontà, bensì come oggetto di un rimedio, per il quale occorre una volontà a lui estranea: e quella volontà è la memoria. Tutta la prima sezione de L’ora presente, benché minacciata dal pegno ominoso della cancellazione (Cancellare oltre, non a caso) conserva per noi il carattere di un museo, così equilibrata e conservata nei cimeli che ravvivano e riflettono il movimento della poesia: Una fotografia, Ancora una fotografia, Un ricordo, e poi via via fino a giungere all’oggetto più ‘vero’, La sciarpa rossa. Ecco che torna il nostro colore-guida, qui illuminante rispetto alla capacità di Bonnefoy di lavorare “per immagini” più che “per sentenze”, quasi a dimostrare la possibilità di viaggiare senza indovinare un senso preciso, finché questo non si presenta da solo: «In alto un atrio nel cielo. / Il sole, al di là. Il comandante / Del vecchio mercantile riceve un viaggiatore. / Un oblò è aperto, le onde sono vicine. // E lui che fa? Si è alzato, lancia / Da questo oblò una cosa, poi altre. / Così: perché, mi dice, questa sciarpa, / Mio padre me la donò, alla mia partenza // Per il primo di tanti viaggi. / L’ho amata, mi è parso che mi dicesse, / L’ho serbata per questo giorno in cui muoio. // La spinge fuori, essa si ripiega / Sulla sua mano, e si rigonfia, poi si dispiega. / Per un istante su noi due tutto il cielo è rosso».
Le immagini sono potenti e secolari, la loro sacralità toccata al fondo dall’inesausta asciuttezza della lingua, e questo secondo la conformità della penna al pensiero, per cui il sonetto diventa non lo spazio di un esercizio, ma la sua riprova, la conferma stessa dell’esercizio della scrittura. Ancora uno sguardo sulla prima sezione ci avverte di come poi, in questi versi, la negazione iniziale spesso corrisponda ad un atto di volontà, ad una prima forma di riscatto della parola sulle cose, sugli eventi, della vita e dei suoi fenomeni: «Io ti offro questi versi, non perché il tuo nome …», «Nessun dio l’avrà voluto, e neanche saputo …», «No, è lo scroscio dell’acqua! Ma sì, ascolta …», tutti costretti a voltare nel contrario seguendo la legge per cui, parimenti, «La parola non salva, talvolta sogna». Citazioni che qui si avvicendano come formule di sussidio, ma tutte operanti, nel loro complesso, a comporre le tracce dell’esistenza contro il suo annullamento. Così, si legge verso la fine della prima sezione del poemetto L’ora presente: « […] Dobbiamo credere / Che il segno che prese al fianco delle cose / Come un lampo, e vi scintillò, / Non sarà stato che mani giunte invano / Sogni, fervore di nient’altro che sogni, / Mummia agghindata per nulla, sotto il suo manto di pietra?».
Bonnefoy possiede una colloquialità affabile imposta per via d’oscurità: non si è mai certi dei suoi messaggi, ma non si può desistere dal seguirli, tanto il moto della lingua è carezzevole quanto deciso e a tratti liturgico. Una delle doti di questo poeta, del resto, è quella di saper spingere inoltre la parola poetica sul terreno della prosa, ma definire anche quelle de L’ora presente delle prose-poetiche sembra una scelta riduttiva dato il taglio nettamente “filosofico”, di quella filosofia che – per l’appunto – sa aprire il linguaggio e le immagini, come troviamo in Jacottet, così da ripiegare l’estetica sull’ontologia, per citare un noto giudizio sull’autore di Starobinski. E, innegabile, ancora, in certi punti, il rapporto con il surrealismo, o meglio, la sua introiezione, specie nella centralissima Bestia spaventata, dove il registro dell’emotività ancora tende al coinvolgimento, come se l’artista o il poeta non dovessero mai rimanere da soli: «Gli occhi sono l’enigma del mondo. Perché è uno sguardo ciò che vedi in questa vita che tieni tra le mani, cominciando a chiederti quel che ne farai, sì, renderle la libertà, ma innanzitutto cos’altro? Tanto né tu né io sappiamo darle un nome».
L’unico nome che Bonnefoy di fatto sceglie, e sceglie per sé, è quello di Amleto, forse irrimediabilmente avvinto alla vicenda degli altri due co-protagonisti del libro, Amore e Psiche, perché – in fondo – tra certezza e predizione, tra ostinazione e allentamento, tra visione e fedeltà, il poeta è simile a quell’attore che vago s’impossessa del suo ruolo, come l’autore di ogni singolo verso, mettendo in campo tutte le tecniche e le tensioni richieste per il suo pubblico, fino a riuscire, traguardante, nell’impresa: «Si avvicina, non si sa dove esattamente sia, forse apparirà in qualche punto dell’ampia scena, in mano una torcia a vento, sul suo volto la maschera che sono le parole della poesia» (Primo abbozzo di una messa in scena di «Amleto»). [Marco Corsi]
Immagine: Ritratto fotografico di Yves Bonnefoy.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).