XV Quaderno italiano di poesia italiana

da | Giu 25, 2021

Una nuova uscita per la serie dei “Quaderni italiani di poesia contemporanea “a cura di Franco Buffoni. Appena uscito il quindicesimo per Marcos y Marcos, in cui sono pubblicate sette raccolte di Dario Bertini, Simone Burratti, Linda Del Sarto, Emanuele Franceschetti, Matteo Meloni, Francesco Ottonello, Sara Sermini. Presentiamo in anteprima tre testi per ciascuna.

 

Dario Bertini, da Il caffè della sala infermieri

 

N.1

La stanza numero uno era un acquario,

ma non c’erano pesci, nemmeno acqua,

alghe di plastica, sassolini sul fondale:

c’erano, invece, due donne nel letto,

ciascuna da sola, ognuna che nuotava per sé

e c’era un caldo che sembravano i tropici,

ma non c’erano palme, fiori esotici

e lunghe spiagge di sabbia bianca: non c’era

niente di tutto questo, soltanto il culo nudo 

della vita, che ti prende alla gola, da un corridoio

bianco, che sembra non finire mai, ma appena

dietro la porta la paura divorava anche il buio,

gocciava lenta la flebo, c’era bisogno di pensare

a tutto, di non pensarci troppo, se fuori

fischiava ancora la felicità, un abbaiare di cani,

la stanza numero uno era un acquario,

due pesci facili a farsi pescare

 

N.2

La stanza numero due era il deserto, un deserto di sale:

lui stava sempre alla finestra, col braccio teso

sul tavolino, guardava fuori, un po’ più in là;

se poi diceva – ho sete – gli si dava da bere,

e un sogno giallo colava giù sopra il pigiama,

fresco, come il sole delle sette: del resto sono buone

le infermiere, come le caramelle, però non fanno male ai denti;

così la stanza numero due era il deserto, lo si doveva 

attraversare a piedi, non c’erano cammelli, né beduini:

non c’erano piramidi o sfingi o danzatrici seminude:

a lui bastava suonare il campanello; un lesto sciabattare,

due risate, il letto da rifare ogni volta, fargli la barba,

cantare con un nodo alla gola 

 

sono il factotum della città

 

Congedo

                                                                        “Rimasto come un’ombra offuscata,
                                                                        vagherò qui ancora un po’, ricorderò tutto,
                                                                        la luce accecante, il buio infernale,
                                                                        io stesso fra cinque minuti sparirò.”

                                                                                                               Boris Ryžij  


Boris  mi ha inviato un messaggio nel sonno:

non parlava, ma non c’era nemmeno silenzio: 

guardandomi negli occhi precipitava ancora la neve:

una ragazza dal New Jersey, per il terzo giorno, 

mi mandava cartoline dal mare. A volte se le guardo,

mi sento ancora nudo e solo. Ma io non so, 

Boris, non so cosa avrei detto, 

qualcosa tipo “Stammi bene, se hai freddo

pensa a un paio di occhi azzurri”. Qui dall’Italia

le donne non si muovono più sotto il sole, pensa

a un cielo vuoto, di notte, un aereo, i piloti 

si tuffano nel mare, direttamente. Ecco, così,

senza paura delle onde, Boris, né degli scogli,

allora pensala, felice e bella, anche per me,

con le gambe sottili mentre balla –

ma a questo punto, mi ripeto buona notte,

buona notte, niente poesie, coglione. 

 

 

Simone Burratti, da Nuovi modi per uscirne

 

11h (Nuovi modi per uscirne)

Reazioni, soluzioni, adescamenti alla solitudine. Per farlo nel modo giusto. Libero da tutti i mondi a cui non ho accesso. Dalle profondità che mi controllano. Senza pensare più a spie di senso nella tenda che si muove nel momento in cui mi giro a guardarla. A congiunzioni alternative possibili. O alla luce quasi religiosa del cellulare sul comodino, innalzato a oracolo della mia sera, come a un’ultima forma di salvezza. Le donne e gli dèi erano a un altro livello. Le mani luminose che scendono in soccorso dal soffitto e se tutto va bene mi portano via. Piccole speranze per grandi uomini, piccoli uomini per grandi ambizioni. Gli alieni entrano sempre nelle menti in cui dovrebbero. E invece poi: l’evoluzione della specie. (Almeno per quanto mi riguarda). Dio che esce dal suo tempio e se ne va ovunque. Troppo ovunque. E cioè non qui. La luce slitta lentamente sui grandi quadranti della mia stanza. Vivo sempre meno e il mio corpo è sempre più grande. Nella mia stanza non ci sono vortici di vento e polvere, e tutto è sotto il mio controllo. Bisogni fisiologici, azioni scriptate. Il cavatappi che scintilla nell’ombra del suo cassetto, come un’ancora al sicuro in fondo al mare. Le dipendenze mi fanno sentire più tranquillo. Che dividono la giornata in prima delle sei e dopo le sei. E cioè: finalmente le sei. E allora eccola lì la mia salvezza, il buio in fondo al bicchiere che mi inghiotte e mi promette che qualcosa può succedere. Il più degno sostituto di quello che può succedere. E ancora: la stanza che vibra, il lampo bianco in mezzo agli occhi –– e tutto su lungo la pancia, a esaurimento forze. Un minuto di silenzio per il nostro imperatore. Titolo provvisorio: nuovi modi per uscirne. Io che sto bene qui ma quando sto qui non sto bene. Ma poi, una volta fuori da qualsiasi svolta o evento: andare dove. E soprattutto: con chi. Tornare a casa è la parte più difficile della vita. Temporeggiare, il verbo più esatto per la contemplazione. Fontana o torrente che sia. Il rumore dell’acqua. Il rumore dell’acqua per tutta la mia vita. Quando sento finalmente che nessuno mi è caro. E allora di nuovo buio, porte chiuse, serrande abbassate. Posizione orizzontale come l’unica possibile. E tappi per le orecchie.

 

Stinkfist

Qualcosa deve cambiare: l’insoddisfazione non dovrebbe essere un peso. La sovrastimolazione intorpidisce. L’oltranza intorpidisce. Eppure è qualcosa che non voglio sostituire con nient’altro. Come se nient’altro potesse soddisfarmi, nient’altro funzionasse come allegoria di, fosse abbastanza per. Ogni minuto che passa ho bisogno di qualcosa in più. Un dito oltre il limite, un gomito oltre il limite. Ho sognato di entrare nella vagina di mia madre e ripercorrere a piedi tutto l’utero. Lo so che è brutto perdere la sensibilità. Non lo desidero, ne ho bisogno e basta. Per sentire di più, per sospirare di più, per quello che si dice sentirsi vivi, il corpo che reagisce. Voglio prendere da te tutto quello che mi manca. E ancora: voglio toglierti tutto quello che mi dai. Le pareti dell’utero erano tuberose e arrivare fino al feto è risultato faticoso. La delicatezza non è del nostro tempo: bisogna scavare per sentire qualcosa. Posso aiutarti a trasformare i momenti di stanchezza in momenti di piacere. A calibrare con precisione dolore e godimento, un passo dopo l’altro, ristabilendo l’ordine delle cose. Una spalla oltre il limite, un tuffo oltre il limite. Dal profondo del suo antro spettrale, ingolfato nel passato, il feto percepiva la sua sofferenza come la mia liberazione. Lo so che è brutto perdere la sensibilità. Spingere e insistere fino alla lacerazione. Non lo desidero, ne ho bisogno e basta. Adesso fammi vedere che mi ami, che c’è qualcosa che ci lega. Rilassati, girati e prendimi la mano. Farà un po’ male, ma ti ci abituerai. Mi basta avere la tua fiducia. Mi basta che tu dica di sì. Non vorrai più sostituirlo con nient’altro. 

 

 

Linda Del Sarto, da Questi che siamo

 

Mi sono girata per parlare

ai fiori, ho detto piano

che era vero tutto:

che c’era in questa acqua almeno

un litro di salvezza, ma credo ancora

in una vita stanca, di fortuna.

Che mi rimetto a questo:

al canto – che aderisca

ad ogni corpo.

 

*

Belli mondi possibili che andate –

vi chiedo una nuova terra madre.

Lei era viva e ha dato tutto, perse andando

alla deriva, disperse a causa mia

l’istinto della sera. Guarda l’agonia,

quanto sangue perso ieri.

Era questa la mia pena, lo sapevi:

tagliare i gambi ai fiori, tutti dritti

per darli a quella gente che non muore.

 

*

Era la buona volta, sembrava un giorno

buono, il buongiorno

all’ora viva della notte.

Parlavano di delusioni

al bar e ho detto: sono uscita

pazza, capitalizzo tutto, anche il dolore,

e presto ciò che non dovrei prestare, in mente

ho gente marcia e troppo storta dal silenzio

c’è tanta aria

e non vi aprite, mai

come porte al vento.

 



Emanuele Franceschetti, da Testimoni

I martiri di Otranto schiantati dai bastioni

oppure questa pace di ossa che calcificano,

la vita tra l’origine e la soglia.

La terra rossa che resiste alla minaccia del diluvio.

Uno tra gli infiniti testimoni

ristabilisce un ordine

di silenzio e memoria.

Tutto è al suo posto, tutto si contiene.

 

Guarda questo che ti assomiglia, mentre dorme

e sembra un vetro opaco, un ferrovecchio

un organo stretto nell’ingranaggio

di un male che forse neppure è male

se lo liberi dai significati.

Guarda come ti guarda, ora che è sveglio e mastica i suoi succhi,

e cerca luce, acqua. Una piccola preda per nutrirsi, un’altra

per accoppiarsi, secondo la natura della bestia,

senza l’idea del male.


Brera, Pinacoteca, Sala trentatré,

una tela tra le altre, due righe nel memorandum:

 

Nel millecinquecentonovantasette

ventitré missionari furono crocifissi a Nagasaki.

 

Sono esistiti, hanno occupato un corpo:

ora non hanno nome, stanno immobili

nel fitto didascalico dei segni.

Come sant’Orsola, poco oltre,

sant’Orsola bianca di morte

che fissa la sua trafittura,

se la tiene stretta negli occhi.

Se guardi tutto questo

non cerchi l’eleganza del dettato,

non conosci la pace della forma.

Sai solo la tua assenza.

 


Matteo Meloni, da La danza degli aironi

 

Ci resta, forse,

un albero, là sul pendio,

da rivedere ogni giorno

Rainer Maria Rilke

 

È un altro sole che ritorna

stamattina e un grumo di calore

fa gli alberi irrequieti, spoglia 

la città sotto un soprabito di polline.

 

E non ci sono giardini ma crescono prati

di gramigne tarassaco

margherite, risposte 

luminose tra tutto quel verde.

 

*

Al mattino la collina è un’orchestra 

di gazze balestrucci cardellini

e quanti altri assetano 

le città del nostro silenzio.

 

Tutto dipende dall’apparenza

della luce: l’estate, la fatica 

della muta, la partenza.   

 

È per loro che il vento prende forza, le nuove

remiganti fanno vela.

 

*

Matura sulla buccia della mela

la sua cancrena il tarlo

che dura oltre l’albero

covando in noi chissà quale terreno.

 

Dovremo – mi dicevi – imparare

a sciogliere i legami,

alternare di generazione

in generazione gli affetti, mancare 

al tempo come le piante

 

imitare per gioco

la danza degli aironi.




Francesco Ottonello, da Futuro remoto

||

l’arca è dissolta. astronavi assalite

da microbi madri del nuovo mondo

– 

vedi che arrivano invadenti bruchi

vedi lamelle che luccicano nel cielo

dondolando distruggono i portali

formano i ponti violati con te

– 

si squaglia il colore, si dilata la profezia

la fantomima, il furto orbo dell’orco

origine ordita inorridita

urtata urgenetica semaglia

ururur

||

vi scrivo da una tabula aliena

bimbi impastati di nulla e di sogno

scordate adesso il linguaggio che logora

il palmo intirizzito che vi fingeva.

farsi mostro è non chiamarsi mai

rifondando il mito, il mare sbiadito

introiettate una memoria cometa.

noi rivivremo abbandonando il monito

spingi l’elettrodo, tu, spargi il seme

utile a chi, a quale specie, pianeta

 

||

siamo soli dentro una possibilità

soli finché siamo, se anche non saremo

soli nella confusione che ci tende

in un sogno di isole che si aprono

stai certo tu, cheto arruffato borioso

nel tuo punto piccolo, in un cielo idiota

nella cella della demenza, nella furia

nel depensiero. una larva. un negriero

della storia, invadi conquisti ti espandi

con il lardo, svuotandoti il tuo male

precipitandolo in un altro alveare

tu che vuoi il tuo seme ovunque

vedere fiorire, bere dal tuo bere

ma marcia l’esistenza, marcia

latte rancido, randagio, prende se ne va




Sara Sermini, da Diritto all’oblio

 

fuga

 

radice bhug [dal greco phug, latino fug] piegarsi, curvarsi, evitare

sanscrito bhug’-a-ga che va per curva, il serpente

bhug’-as braccio e proboscide

 

Chi fugge si piega,

accetta le linee curve,

il rischio del serpente in scorza di bruco. 

A fatica traccia vie d’erba.

 

Chi fugge si piega,

come l’acqua,

cambia piano il percorso,

fa l’amore coi sassi.

 



Medicago sativa (I)

 

Li conservano in teche di ferro battuto

i vostri rami: femori, falangi, radî, 

ulne e cumuli di cranî. A seccare 

come erba medica che nutre ma non cura.

 

Vostri, di gente sconosciuta, abbracciata

in questi ossarî, o forse soltanto

impilata come i libri negli antiquarî. 

Oppure separata in blocchi di cemento 

asettici, in quadrati asfittici, chiamati

colombarî: sotto al tetto si accentua

la caduta, segno che le accumulazioni 

si producono per perdite.

 

La casa dei morti invece è senza copertura,

incompiuta, e poi abbandonata, eppure

ornata di fiori finti e vasi e foglie 

da spazzare, erbacce da estirpare.

 

 

Capparis spinosa

 

La terra trema, crolla,

ecchimòtica aspetta

in silenzio indugia poi

affonda: l’abisso violaceo

giallisce contuso

confusa la lingua stravasa.

 

And thou, O wall, O sweet, O lovely wall

(bouquet di capperi

tra le orecchie degli amanti sotterrati.

Imperativo: 

lecca la calcìna sulla pelle, 

ingoia il giorno prima che sbocci).