[Due poesie con traduzione inedita. Entrambe le poesie si leggono in Wallace Stevens, Collected Poems, Faber & Faber, 1954]
LE POESIE DEL NOSTRO CLIMA
I
Acqua linda in un vaso luccicante,
Garofani rosa e bianchi. La luce
Nella stanza come un’aria innevata,
Che riflette neve. Neve venuta
Giù nuova, alla fine dell’inverno,
Quando i pomeriggi tornano indietro.
Garofani rosa e bianchi – hai brama
Di molto più che questo. Il giorno stesso
Si semplifica: un vaso di bianco,
Di freddo, in ceramica, tondo e basso,
Con niente più che i garofani dentro.
II
Se questa completa semplicità
Ci spogliasse dei tormenti, celasse
L’io vitale, composto insieme al male,
Lo rinnovasse in un mondo di bianco,
D’acqua linda, luccicante ai confini,
Pure avresti brama, urgenza di più
Che un mondo di bianchi e innevati effluvi.
III
Rimarrebbe ancora la mente inquieta,
E si vorrebbe fuggire, tornare
A quanto tanto a lungo fu composto.
L’imperfetto è il paradiso nostro.
Nell’amarezza, la gioia, si noti,
Poiché l’imperfetto ribolle in noi
Sta in scarse parole e ostinati suoni.
*
THE POEMS OF OUR CLIMATE
I
Clean water in a brilliant bowl,
Pink and white carnations. The light
In the room more like a snowy air,
Reflecting snow. A newly-fallen snow
At the end of winter when afternoons return.
Pink and white carnations – one desires
So much more than that. The day itself
Is simplified: a bowl of white,
Cold, a cold porcelain, low and round,
With nothing more than the carnations there.
II
Say even that this complete simplicity
Stripped one of all one’s torments, concealed
The evilly compounded, vital I
And made it fresh in a world of white,
A world of clean water, brilliant-edged,
Still one would want more, one would need more,
More than a world of white and snowy scents.
III
There would still remain the never-resting mind,
So that one would want to escape, come back
To what had been so long composed.
The imperfect is our paradise.
Note that, in this bitterness, delight,
Since the imperfect is so hot in us,
Lies in flawed words and stubborn sounds.
***
VITA COMUNE
È il fregio del centro città,
Il campanile specialmente
Linea nera su linea bianca;
E la ciminiera della centrale
Linea nera su aria piatta.
È una luce morbida
Dove loro sorgono
Come una lampada
In una pagina da Euclide.
In questa luce l’uomo è un risultato,
Una dimostrazione, e una donna
Priva della rosa e priva della viola,
Le ombre che in Euclide mancano,
Non è donna per un uomo.
La carta è più bianca
Per queste linee nere.
Risplende sotto le trame
Del filo, motivo d’inchiostro,
Piani in potenza dotati di genio,
I volumi come rovine in marmo
Tracciati e con glosse alfabetiche
e note a piè di pagina.
La carta è più bianca.
Gli uomini non hanno ombre
E le donne hanno un unico lato.
*
THE COMMON LIFE
That’s the down-town frieze,
Principally the church steeple,
A black line beside a white line;
And the stack of the electric plant,
A black line drawn on flat air.
It is a morbid light
In which they stand
Like an electric lamp
On a page of Euclid.
In this light a man is a result,
A demonstration, and a woman,
Without rose and without violet,
The shadows that are absent from Euclid,
Is not a woman for a man.
The paper is whiter
For these black lines.
It glares beneath the webs
Of wire, the design of ink,
The planes that ought to have genius,
The volumes like marble ruins
Outlined and having alphabetical
Notations and footnotes.
The paper is wither.
The men have no shadows
And the women have only one side.
***
NOTA: Memorabilità del dettato, peso specifico del verso, un’intelligenza quasi sensuale e un’impersonalità che in realtà ci trascende e sussume: questo è Stevens per me, indebitamente riassunto in una breve lista di attributi che mi prometto di espandere un poco in questa nota, anche in relazione alle due traduzioni che ho tentato. Difficile da approssimare, in sede traduttiva, è l’equilibrio tra un’architettura testuale severa e ineccepibile e il fluire quasi omogeneo, o giocato su piccole significative variazioni ritmiche, del verso. Resterebbe deluso chi cercasse in Stevens gli strappi e le frantumazioni di tanta altra poesia modernista: in consapevole ritardo rispetto al suo stesso passato, ma tuttora in anticipo rispetto al nostro presente, l’opera di Stevens aspira alla sintesi come risposta difensiva e propositiva alla disgregazione novecentesca che altri poeti (Pound, Eliot) vollero rappresentare direttamente. Oggi conta relativamente poco il fatto che in Stevens la spinta alla trascendenza sia debitrice di Emerson (ma chi non lo è tra gli americani?), o che il desiderio inappagato (“pure avresti brama, urgenza di più”) sia una componente della filosofia idealista: per quanto si vorrebbe storicizzare un poeta, la realtà è che gli uomini rispondono a una poesia se questa intercetta bisogni profondi che al più si modificano nei tempi lunghi dell’evoluzione biologica, non in quelli brevi della storia.
Nella prima poesia, il “clima” del titolo altisonante sembrerebbe alludere a un momento storico; poi però, con ironia quasi impercettibile, “clima” passa a designare un fattore atmosferico e, di riflesso, una disposizione interiore sospesa tra misticismo (“se questa completa semplicità / ci spogliasse dei tormenti”) e ancoraggio agli oggetti che si fanno prossimi all’allegoria senza perdere un grammo della loro datità (“un vaso di bianco, / di freddo, in ceramica, tondo e basso”). Vita comune, più concettuale, sembra realizzare il discorso di Poesie del nostro clima in quanto la semplificazione là auspicata qui si concretizza in un disegno (“linea nera su aria piatta”) che verte verso l’astratto. La descrizione non si propone come verosimile (nessun effetto imagista): non l’Hopper di un William Carlos Williams, qui al più si può rinvenire De Chirico (“I volumi come rovine in marmo”), in un riferimento forse scaturito dalla grecità della poesia (“fregio”, “Euclide”) e funzionale al discorso filosofico influenzato dalla scienza: “In questa luce l’uomo è un risultato, / una dimostrazione”. Tra parentesi, si confrontino questi versi con il De Angelis di Somiglianze: “nel luogo incerto / dove tutto è meno meschino / di noi dimostrati”. Il passaggio di testimone è dal positivismo all’irrazionalismo, da una scienza ancora intesa come scoperta che nobilita a una scienza odiata perché sentita come riduttiva.
Cosa rimane, di tutto questo, nella traduzione? Non spetta a me dirlo; traducendo, ho anzitutto tentato di mantenere la struttura della frase originale, dato che in Stevens il dettato è spesso vicino alla proposizione filosofica semplice, alla frase con un contenuto di verità a cui l’espressività di superficie è sempre subordinata. Sono frasi relazionali (“L’imperfetto è il paradiso nostro”, “Gli uomini non hanno ombre”) e come tali non ha senso renderle diversamente che con un calco sintattico, costringendo la flessibilità dell’italiano nell’austerità dell’inglese (il contrario di ciò che fece Milton, trasponendo l’inglese in una sintassi latina). L’altra cosa che ho cercato di riprodurre è il rimo, e quindi il suono (per contro, credo che la traduzione di un pur ottimo anglista come Massimo Bacigalupo perda molto in termini di ritmo, configurandosi come troppo prosastica). Soprattutto nella prima delle poesie, ho cercato di mantenere una versificazione classica, con endecasillabi a mimare il blank verse originale; e poi ho cercato di non tralasciare il ricco impianto fonetico, perché contribuisce in maniera determinante alla componente più sensuale della poesia di Stevens, che si fonde a quella intellettuale in un equilibrio invidiabile e di modello per tutti noi.
D. C.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).