Voci del Grande Stile

da | Ott 3, 2023

Pubblichiamo in anteprima dal saggio “Voci del Grande Stile. Prose e poesie fra due secoli” di Alberto Bertoni, da poco uscito per Il Mulino, alcuni paragrafi della Premessa e la parte introduttiva del capitolo dedicato alla poesia di Pier Luigi Bacchini.

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«Grande stile» non intende assumere qui alcuna valenza nostalgica o passatista o – tantomeno – orientata verso una possibile restaurazione di valori, lingue e assetti sociologici legati a un passato che non ho mai considerato in quanto tale paradisiaco. Chiunque mi conosca (o conosca qualche mio studio del passato: a partire dal primo, nel remoto 1987, la curatela per questa stessa casa editrice dei “Taccuini inediti” di Filippo Tommaso Marinetti), sa che non ho mai sopportato alcun neoclassicismo che si sia di epoca in epoca ripresentato – magari sotto mentite spoglie – nella storia delle forme artistiche occidentali. Grande stile, qui, dovrà dunque venire inteso su due piani. Uno di ordine didattico, l’altro da assumere in una dimensione di indagine formale il più possibile ampia ed elastica, entro una prospettiva storiografica tutta dinamica e oscillante fra genealogia e geografia.

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Due realtà perno del mio insegnamento hanno cominciato di anno in anno a venir meno: la centralità dell’oggetto libro e il dovere – trasmesso a mo’ di preliminare patto tra docente e discente – di leggere molte pagine per capirle e possibilmente memorizzarle in vista dell’esame (o di una delle due tesi), dando per scontato che la scuola dell’obbligo avesse già instillato le tecniche necessarie per leggere bene, in vista di un necessario approccio critico. Sulla prima questione, nessun dramma: l’umanità ha attraversato molte fasi di rottura tecnica e materiale negli strumenti di trasmissione del sapere scritto, senza che per questo i diversi generi letterari abbiano conosciuto rotture definitive di esistenza o di continuità storica. Il web apre anche molte possibilità «positive» a chi impari a usarlo in modo consapevole. La questione del leggere con cognizione di causa è invece una questione cruciale per tutte le società occidentali, poiché le tecniche che ci permettono di riunire – leggendo – acculturazione e piacere, capacità astrattiva ed empatia, soddisfazione di tutto il corpo e accrescimento culturale le ha già descritte mirabilmente Italo Calvino nella «cornice» del suo capolavoro ultimo, “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, uscito nel 1979, sulla soglia d’ingresso della stagione postmodernista. Ma il risultato è stato che i precetti formulati da Calvino per il Lettore e la Lettrice consapevoli hanno chiuso – grazie allo humour inimitabile del loro autore – l’epoca del Moderno, senza tuttavia poter essere travasati e riconosciuti come capitali (e come veri e propri tesori in progress) dentro quella nuova. Non c’è dubbio, allora, che il leggere non sia ancora stato sostituito da alcun correlativo equipollente (e credo sia prematuro esprimersi in questa chiave sulle potenzialità e sulle aporie della cosiddetta Intelligenza Artificiale), nel XXI secolo di cui è già quasi trascorso il primo quarto. E questo, tanto sul piano pedagogico quanto su quello esistenziale, sia che ci si confronti a viso aperto con i dispositivi e le regole della società di massa, sia che ci si riferisca alle «crisi» individuali e spirituali dei soggetti più sensibili.

È ovvio che vittima prima della transizione da una civiltà all’altra è proprio la critica letteraria intesa come genere: ridotta a una miriade di like quasi sempre privi di autentica pregnanza interpretativa per quanto concerne il proliferare della poesia (dove solo in Italia si contano quasi tre milioni di estensori di versi a fronte di circa un millesimo di acquirenti almeno potenziali di un libro di versi); a una pubblicistica di elogi (e qualche mirata stroncatura) che coinvolge il genere più caro all’industria culturale, quello narrativo, dove editor e agenti letterari sembrano spesso contare più di scrittori e scrittrici; e infine a una critica-critica di stampo accademico, che tende sempre più spesso ad esprimersi in forme e con modalità autoteliche, fatta salva una qualità metodologica, storiografica, filologica ed ermeneutica di livello non di rado eccellente.

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Corollario di un simile stato dell’arte è anche il venir meno della figura – fondamentale – del critico-scrittore, spesso tenuto sulla soglia dell’Accademia (Giacomo Debenedetti, Cesare Garboli, gli esimii) o suo membro eminente (Gianfranco Contini, ma anche i maestri bolognesi del contesto nel quale mi sono formato: Ezio Raimondi, Guido Guglielmi, Piero Camporesi, Mario Lavagetto): un altro segno di separatezza e di lontananza patologica della critica specializzata da una possibilità o virtualità di pubblico. 

Il libro è dedicato, tempo quasi dieci anni dalla sua morte, avvenuta il 18 marzo 2014, a Ezio Raimondi, la persona che mi ha letteralmente cambiato la vita, inducendomi alla professione di insegnante-saggista, intrapresa fin dagli anni Ottanta. A lui devo tutto quel che so (il moltissimo che non so è invece solo colpa mia) in campo letterario: comprendendo in tale campo anche elementi solo in apparenza eterodossi quali passione e gusto. Verso la metà dei Settanta, quando ero ancora studente, in tempi di dominio e quasi di dittatura del Metodo (in particolare, allora, quello psicoanalitico), Raimondi ci insegnò e ci dimostrò in concreto una necessaria duttilità di approccio ai testi letterari, nel convincimento che è il testo stesso a chiedere all’interprete la dominante di metodo più fruttuosa e dialogica.

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OLTRE L’OFFICINA PARMIGIANA: IL CASO PIER LUIGI BACCHINI

Oggi che alle storie letterarie si affiancano con ragioni sempre più accentuate le antropologie e le geografie; e che – nell’ampia gamma dei punti di vista critici e degli insegnamenti universitari – si fa tesoro con impegno sempre maggiore di una disciplina in fieri ma già promettente come la geocritica, proprio oggi si deve constatare che esistono poeti forti (e durevoli) in larga misura indipendenti dalla stratificazione locale e culturale del proprio ambiente di nascita e di formazione nonostante che le apparenze – non di rado – ingannino.

È questo il caso del parmigiano Pier Luigi Bacchini, classe 1927, un autore tardivo, con le due sole raccolte firmate prima del 1981, l’anno d’uscita di “Distanze Fioriture”, l’opera di svolta che funziona come un trampolino nella sua vicenda di poeta e che – a pieno diritto – apre la sequenza di sei libri documentata nell’«Oscar» riassuntivo di “Poesie 1954-2013”. La sua opera prima, “Dal silenzio d’un nulla”, era uscita nel ’54 a Milano presso un editore piccolo ma raffinato come Arturo Schwarz, la cui attività più rilevante non era di editore, ma di gallerista e di esperto di arti figurative, benché nella sua collana di poesia siano comparsi via via Luzi, Betocchi, Parronchi, una Merini ancora più giovane di Bacchini… L’esordio del poeta ventisettenne non avrebbe però convinto Pasolini a inserirlo nel quadro – documentato fino al ’57 – dell’«Officina parmigiana», vale a dire in quel contesto di autori che si era formato attorno al magistero di Attilio Bertolucci, trasferitosi a Roma già nel ’51, ma genius loci fin quasi alla morte, avvenuta nel 2000.

A dire di Pasolini, infatti, «proprio per la sua qualità di “isola” tra i maggiori centri letterari, Parma tendeva a essere, sia pur leggermente, regressiva e conservatrice: a non accettare, dunque, i dati estremi dell’ermetismo e della letteratura affine; ma, una volta accettatili, a fissarli; e, insieme, a ridurli a dimensioni più miti e cordiali, da città, appunto, di provincia, ma con un grande passato». E se proprio in questo era consistita «l’operazione letteraria di Bertolucci» (almeno del Bertolucci 1957, ben prima – vale a dire – dei suoi capolavori giustapposti di “Viaggio d’inverno”, 1971; e del poema annalistico-narrativo “La camera da letto”, 1984 e 1988), allora Pasolini aveva buon gioco a riconoscere una costante nei versi di Gian Carlo Conti, di Alberto Bevilacqua, di Giorgio Cusatelli, del «quindicenne» Bernardo Bertolucci e di Gian Carlo Artoni. Ed era la tendenza «a una forma di realismo (la propria città accettata e approfondita in quanto fenomeno storico: con grandi tradizioni di raffinata capitale, da una parte, e un eccezionale benessere economico dall’altra), corretta da una tendenza opposta all’otium, un po’ accademico e comunque elegante».

Di là dal sintetico regesto critico di Pasolini, d’altra parte, Parma era una città sì di provincia, ma aperta a sperimentazioni riflessive, cinematografiche e letterarie tutt’altro che tradizionali o accademiche, in quanto – per esempio – crocevia tra gli Ermetici fiorentini (Macrì e Luzi, su tutti) e i milanesi della scuola fenomenologica di Banfi (Paci, Cantoni, Sereni). Poi, era la città nella quale operava un editore come Ugo Guanda, che ci si era trasferito nel ’36 da Modena e che aveva quasi subito affidato a Bertolucci la collana di poesia internazionale della «Fenice», assai libera e innovativa: e una città la cui «Gazzetta», fin dal novembre ’51, pubblicava un’appendice quindicinale dedicata a «lettere e arti», quel «Raccoglitore» che è stato un vero antesignano degli attuali inserti culturali. Di lì a non molto, infine, un mecenate intelligente quale Pietro Barilla avrebbe consentito a Bertolucci di dar vita alla raffinatissima rivista «Palatina», uscita dal ’57 al ’66, e curata anche da Tassi, Artoni, Cusatelli, Squarcia, Tonna, cui si sarebbero in seguito aggiunti Gian Carlo Conti e Mario Lavagetto.

Come conferma la “Bibliografia integrale” degli scritti approntata dal figlio Camillo, non c’è traccia di Pier Luigi Bacchini sulle colonne del «Raccoglitore» né tantomeno nelle auree stanze di «Palatina». E Pasolini non dovette apprezzare troppo i versi di “Dal silenzio d’un nulla”, benché scevri da qualsivoglia traccia d’ermetismo e vocati semmai a una lingua poetica intrisa di echi pascoliani e, sotto certi aspetti, anche dannunziani: «Ma il tuo volto perlato / immobile s’adorna / e più non ama / in pura statua / lontana bellezza». La koinè degli stili e dei toni poetici, intrecciati e dunque semplificati, di d’Annunzio e di Pascoli è stata d’altra parte molto dura a morire negli apprendistati delle generazioni italiane che si sono avvicendate fino a un Novecento piuttosto avanzato. Certo, il libretto pubblicato da Schwarz non dialogava ancora con il Pascoli che, l’anno dopo la sua uscita, nel ’55, dalla sede deputata di San Mauro sarebbe stato riconosciuto da Contini maestro del simbolismo europeo. Era un Pascoli ancora scolastico, quello del Bacchini ventisettenne, e riprodotto attraverso un’adesione istintiva a certo impressionismo paesaggistico piuttosto che dettato da una compiuta cognizione storico-critica: «È l’azzurro settembre / in me? Quando seguivo / la scia che vaniva / del tuo delicato profumo? / O sogno d’occhi che non ritrovo, / neri occhi d’indiana? / Ma pare invece m’insorga ora / dalla mia giovinezza / l’orribile rimorso: / miei quattro rimorsi, / mie insonnie…» (“Parole marine”). Poi, non è da escludere che a Pasolini – posto che avesse effettivamente ricevuto e letto “Dal silenzio d’un nulla” – non fosse proprio piaciuto il «giudizio» introduttivo di Francesco Flora che, per lui allievo di Longhi e laureato con Calcaterra, rappresentava una dimensione davvero estranea di approccio critico alla poesia. A Flora, Bacchini era arrivato senza alcuna mediazione, semplicemente andando a trovarlo in Facoltà a Bologna e lasciandogli il dattiloscritto del libretto d’esordio. Flora scrisse rapidamente il «giudizio» che accompagna il volume: nel frattempo, Bacchini ne approfittò per entrare in contatto di amicizia con un suo assistente interessato alla poesia (nonché ormai prossimo professore di Estetica nello stesso ateneo bolognese e fondatore della rivista «il verri»), quel Luciano Anceschi che lo invitò subito a prender le distanze dagli schemi dei lirici degli ultimi trent’anni e in particolare dalla loro «sterile contrazione esclamativa», vale a dire dal mito ermetico dell’epifania lirica. Anche a Schwarz, d’altra parte, Bacchini si era avvicinato grazie a un’iniziativa individuale. Come ricorda oggi, «attraverso un maestro di musica di Parma, un compositore che si chiamava Orazio Fiume», era andato a trovare Salvatore Quasimodo, che allora insegnava al Conservatorio di Milano e che lo mise subito in guardia da «alcune ingenuità» della sua poesia, trattandolo però in modo affettuoso e inducendo Schwarz a pubblicare “Dal silenzio d’un nulla”, in particolare – ricorda il poeta oggi – per il riconoscimento di «un certo movimento danzante di immagini e di ritmi».

In ogni caso, le prime tracce pubbliche di coinvolgimento di Bacchini in un contesto ricettivo sono sì autorevoli (Mario Colombi Guidotti sulla «Gazzetta di Parma», Enrico Falqui in un’antologia dedicata alla Giovane poesia, Giuseppe Ravegnani su «Epoca»), ma non accolgono l’autore nel dibattito poetico-culturale della sua petite capitale d’autrefois. Al di là del mancato
viatico di Pasolini, a questo isolamento dovette contribuire anche la sua formazione letteraria da autodidatta che aveva intrapreso studi di Medicina mai portati a compimento e che dunque era estraneo ai tradizionali curricula scolastici degli adepti di Bertolucci: e in effetti, a parte il «caso» di Nelo Risi (cui si può aggiungere la Bildung ingegneresca di Leonardo Sinisgalli), non sono molti i poeti novecenteschi che abbiano compiuto il loro percorso formativo attraverso le discipline medico-scientifiche. In Bacchini le due pulsioni, quella per gli studi in Medicina (tradizionali nella sua famiglia fin dai tempi del bisnonno) e quella per l’ascolto delle lezioni di Flora presso la Facoltà bolognese di Lettere, finirono per elidersi, non senza una mediazione del paesaggio emiliano, lungo il tragitto fra Parma e Bologna, e con la sensazione che il suo apprendistato conoscitivo procedesse contemporaneamente su un doppio binario, che non lo portò alla laurea, ma a una formazione culturale nient’affatto scontata o diffusa: «Quando andavo all’ospedale la mattina mi capitava di passare in mezzo ai campi. La via Emilia correva verso nord in mezzo alla pianura e io sognavo qualche cosa d’indefinito. Mi sentivo attratto da qualche cosa che non conoscevo: era la poesia».

È solo dopo aver pubblicato il primo libro, attorno al Natale del ’54, che Bacchini conosce personalmente – diventandone amico – Attilio Bertolucci, grazie a un parente comune, Nino Battistini, un pediatra cugino del padre dell’autore esordiente, «che, a sua volta e da parte di madre, era cugino di Bertolucci», peraltro già trasferito da qualche anno a Roma. Nel suo ricordo, Bacchini è lapidario, a proposito del rapporto con Bertolucci, mettendone in rilievo ad un tempo l’importanza per il proprio artigianato ancora molto in fieri e l’atteggiamento spiccatamente critico del maestro della Capanna indiana verso i suoi primi testi: «Bertolucci trovò grandi difetti nei miei primi lavori. Con la sua frequentazione imparai le tecniche del “fare poetico”. Furono conversazioni molto fruttuose».

Comunque, sarebbe stato Bertolucci – diversi anni dopo – a indirizzare il secondo libro di Bacchini, “Canti familiari”, a un altro «editore piccolo, ma pregiato» come De Luca di Roma, che nel ’52 aveva pubblicato le Stanze della funicolare di Caproni, oltre a opere di Viani, De Libero, Bigiaretti. Uscito nell’ottobre del ’68, il libro continuò tuttavia a costringere il nome del suo autore (ormai più che quarantenne) in una sorta di limbo: e, al di là della pregnante recensione di Cusatelli su «Aurea Parma», delle prime note dedicate a Bacchini da una voce autorevole della critica parmigiana, quella di Giuseppe Marchetti, e dell’attenzione di un lettore acuto, Aldo Rossi, che aveva intuito la direzione e l’itinerario di Bacchini «dalla famiglia al cosmo», Canti familiari tende a cadere in un sostanziale anonimato, spezzato dall’apprezzamento di alcuni eleganti happy few, ma nondimeno frustrante per chi era destinato a divenire uno dei protagonisti assoluti della nostra poesia a cavallo dei due secoli… In effetti, un lettore esperto non tarda ad accorgersi di un rinnovamento considerevole della lingua poetica dell’opera seconda, rispetto al libretto degli anni Cinquanta. E non tanto o non solo nella dimensione del lessico, quanto proprio nella sintassi e nel montaggio delle immagini, oltre che nel posizionamento rispetto al mondo (e a un mondo ormai spiccatamente «naturale», osservato con il rispetto dovuto alla «grande meraviglia» che esso sa suscitare nel soggetto sensibile) di un Io sempre meno psicologico e «lirico» nell’accezione tradizionale del termine. Infatti, è proprio nel vivo di questi anni Sessanta che Bacchini comincia a mettere a punto la tecnica divisionista (che, nei momenti di poesia più ampia e distesa fino ai limiti della narratività, rimanda anche a un montaggio di matrice cinematografica), tra impressionismo e nitore icastico dei dettagli, che diverrà di lì a qualche tempo la cifra più riconoscibile e profonda del suo discorso poetico, insieme con gli idioletti scientifici che saranno invece acquisizione del decennio seguente. Nella sua nudità ancora ispirata a un lirismo tradizionale è già significativa – da questo punto di vista – una poesia come “Fine agosto”, da riportare per intero, nella sua ripresa del topos della foglia che cade e nell’adesione a un Pascoli tutt’altro che effusivo: «Le foglie hanno il legno, qualcuna cade. / Sono i giorni dei fichi / dolci d’insetti, e i filari s’annerano. / Afa di luce incombe / sui campi arati; / ma l’azzurro dei monti / è di settembre / e pigola tra i fichi rossi / il rigogolo dorato».

Comunque, solo negli anni successivi al 1968 dei “Canti familiari” la poesia di Bacchini s’imporrà a un’attenzione più ampia, grazie all’accoglienza che a non pochi suoi testi di rilievo viene riservata da alcuni periodici di grande prestigio quali «Nuovi Argomenti» (cui Bacchini avrebbe collaborato intensamente anche in seguito) nel ’74, l’«Almanacco dello Specchio» (allora curato da Marco Forti) nel n. 7 del 1978, «Italianistica» nel ’79. In particolare, l’uscita sull’Almanacco mondadoriano fu motivata – nel ricordo diretto di Bacchini – da «un’occasione critica: Roberto Tassi aveva scoperto che Francesco Arcangeli, a Bologna, scriveva poesie che non pubblicava ma conservava fra altre carte; anche il fratello Gaetano era poeta, già pubblicato nello “Specchio”. Bertolucci e Sereni allora pensarono di pubblicare quattro poeti padani. Francesco e Gaetano Arcangeli, Giovanelli e Bacchini di Parma…». E così Bacchini ricevette la sua prima consacrazione mondadoriana, in un contesto di alto profilo documentario e qualitativo, benissimo approntato da Anna Folli, la quale – introducendo questo nucleo di Poeti padani – collocava Bacchini nella «frangia estrema» e ne riconosceva la derivazione pascoliana (il «glutine di morte» di “Tripudio” riprende il medesimo sintagma del “Vischio”, in “Primi Poemetti”) e «ungarettiana a tratti». Questi, d’altra parte, i presupposti di una poesia comunque «insolita»: «è ancora il segreto del “luogo lontano” che si moltiplica, in Bacchini, ossessivamente all’infinito nelle voci del mondo: ogni angolo è quel luogo, dove la cerimonia della fecondità si celebra ritualmente alla presenza della vita e della morte». Il soggetto umano resta così ai margini di un «mondo vegetale, animale, minerale», dove la memoria si conserva «graffita» e che ha la roccia, il «geoide» per figura, tanto che con un processo di «fossilizzazione» coincide «il rito del personale esorcismo di questo poeta». In realtà, l’inclusione del nome di Bacchini in un gruppo così bolognese e «longhiano» – di là dall’origine ferrarese di Giovanelli e dall’importante collaborazione di Bacchini a «Paragone», documentata a partire dal 1982 – non fu automatica, come si evince dalle lettere scambiate all’epoca da Bertolucci e Sereni.

Evidentemente, per l’uscita sull’Almanacco, il suo nome era già in lista d’attesa, ma la perorazione di Bertolucci presso il sodale rivela appieno l’ambivalenza di un giudizio sulla poesia del concittadino intessuto di luci e di ombre. Al termine di un durissimo attacco riservato a Pietro Cimatti (che aveva pubblicato dieci poesie sull’«Almanacco dello Specchio» n. 5, 1976), Bertolucci scrive infatti a Sereni, da Roma nell’aprile del ’76: «C’è che aspetta, in mano a Forti, il poetino parmigiano Bacchini, tanto meglio mi pare, non parlo per amicizia. E chissà se uscirà mai». Di lì a tre anni, nel 1981, matura finalmente il libro della rivoluzione poetica di Bacchini, Distanze Fioriture, di cui Bertolucci firma il risvolto di copertina, anche se non fa nulla perché sia stampato da un editore di diffusione nazionale, raccomandandone invece l’uscita presso La Pilotta, «una piccola casa editrice di Parma, che stava, allora, venendo fuori con alcune edizioni graficamente assai curate». L’ambivalenza critica di Bertolucci verso la poesia di Bacchini si manifesta nel risvolto che – certo – riconosce la novità di un linguaggio aperto a una terminologia scientifica tutt’altro che abituale per il nostro lessico lirico, ma che lo inquadra in una cartografia rassicurante in quanto domestica: «Bacchini non ha svoltato dal suo cammino, non è uscito dalla sua piccola, infinita patria, ma vi si è radicato anche di più, lasciando che le radici (lo imito, nel ricorrere alla metafora vegetale) entrassero più a fondo, si diramassero più in là, alla ricerca di nutrimento».

In verità, è ai paragrafi dell’acutissima e davvero partecipata Postfazione di Giorgio Cusatelli (non è poco sorprendente, in effetti, che Bacchini abbia avvertito l’esigenza di una doppia soglia critica per la sua opera) che ci si deve rivolgere, se si vuol cogliere appieno la novità assoluta di Distanze Fioriture non solo rispetto alla storia poetica di Bacchini (che nel frattempo ha compiuto cinquantaquattro anni), ma anche nei confronti del contesto poetico di cui il libro – seppur lateralmente, con la sua consegna a un piccolo editore locale – entra a far parte. Rilanciandone i passaggi fondamentali nel corso di una presentazione pubblica presso la Società Parmense di Lettura e Conversazione, nell’ottobre del 1981, Cusatelli sposta però l’accento sull’attraversamento – da parte di Bacchini – di un «bertoluccianesimo» quasi naturalmente insito nella tradizione parmigiana del Novecento e afferma che «una delle caratteristiche di questo libro è proprio un contenimento dell’abbandono elegiaco, dell’abbandono lirico che, appena tende a prendere la mano al poeta, viene represso e trattenuto».

A contrappeso di questa distanza dalla maniera di Bertolucci, il Bacchini del terzo libro manifesta un’originalità molto spiccata, che lo porta per esempio a collegare il Leitmotiv della morte «con il problema dell’espressione scientifica». Con un capovolgimento paradossale, a dire di Cusatelli proprio soltanto dei poeti autentici, Bacchini ha preso atto dell’insufficienza della scienza (e in primis della medicina) attraverso un’adesione forte al linguaggio delle scienze, non solo della medicina e della chimica, ma anche – nella maturazione nuova della sua poesia – della geologia, della mineralogia, della zoologia e naturalmente della botanica. E il germanista può così concludere il suo discorso di presentazione affermando che «la poesia di Bacchini è un viaggio circolare di partenza da un io chiuso lirico e di approdo ad un io chiuso che dialetticamente ha anche assunto il modello scientifico». Da ciò nasce una poesia «arricchita» e disposta «a nuovi sviluppi». Naturalmente, il Cusatelli del 1981 non poteva scommettere alla cieca su questi «nuovi sviluppi», ma certo – ben più che la chiusura della fase passivamente «lirica» della poesia di Bacchini – “Distanze Fioriture” è l’inizio di una storia poetica tutta originale e lunga ormai più di un trentennio. E avrebbe avuto pienamente ragione Maurizio Cucchi, anni dopo, a definire il libro pubblicato dalla Pilotta come la componente prima di un trittico in cui andavano compresi anche i successivi (e come sempre ben distanziati nel tempo) “Visi e foglie” (Premio Viareggio 1993, con l’adesione unanime della qualificata Giuria, grazie al sostegno convinto di un maestro di poesia come Giovanni Giudici) e “Scritture vegetali” (l’esordio di Bacchini nello «Specchio» Mondadori, datato 1999).

Entro questo ventennio, Bacchini mette a fuoco il mosaico dei suoi modelli poetici, oltre che le predilette nomenclature scientifiche, una sintassi sapientemente franta (non di rado a scopo drammaturgico o polifonico e spesso composta di lacerti nominali, senza verbo) e il suo stile metrico-prosodico, fondato anche su alcuni princìpi d’innovazione grafica, nella disposizione dei versi sulla pagina, e su un’alternanza molto sapiente di versi lunghi o lunghissimi e di versi brevi o brevissimi, per il risultato di un versoliberismo efficace e consapevole, «architettonico» e necessario come pochi altri, nel nostro secondo Novecento.

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NB: Per tutte le note alle citazioni, che non abbiamo qui riportato, si rinvia all’edizione cartacea del volume.