Uomini a quarant’anni (Men at Fourty)
Gli uomini a quarant’anni
imparano a chiudere piano
le porte di stanze
cui non torneranno.
Seduti a riposare sulle scale,
le sentono muoversi
come il ponte di una nave,
anche se è dolce il respiro del mare.
E fondo negli specchi
riscoprono
il viso del bimbo che in segreto
prova a annodare la cravatta del padre,
e il viso di quel padre, ancora caldo
del mistero della schiuma da barba.
Sono più padri che figli adesso.
Qualcosa li colma, qualcosa
che è come il canto dei grilli
al crepuscolo, immenso,
che colma i boschi sotto al colle
dietro le case di cui pagano il mutuo.
*
Paesaggio con figurette (Landscapes with Little Figures)
C’era una volta: dei pini, un canale, un pezzo di cielo.
I pini adesso sono le case dei più poveri,
strette una all’altra in stracci di vento azzurro.
I bimbi conducono i cani fischiando giù alle pozze di fango,
un tempo canale. C’è una palla rossa persa fra le erbacce.
E’ inverno, è dopocena, è addio.
Addio alle case, ai bimbi, alla pallina rossa,
e ai brandelli di cielo che adesso cadranno per giorni e giorni.
*
Il turista di Gorgonzola (The Tourist from Syracuse)
Non mi sapresti riconoscere.
Mio è il volto che sboccia sugli specchi
appannati dei bagni pubblici
quando brancoli in cerca dell’interruttore.
Negli occhi ho lo sguardo
degli occhi freddi delle statue
quando guardano i piccioni tornare
dalle granaglie che hai gettato loro,
e sto al mio incrocio
con uguale pazienza di marmo.
Se pur mi muovo, lo faccio
con la cadenza esatta
della persiana sull’altana
sotto cui aspetto e pare che mi sia
già fuso del tutto
con la sua oscurità.
Parlo di rado, e sempre
con il murmure cheto dei crocchi
che si accalcano attorno
alle vittime degli incidenti.
Devo confessare chi sono?
Mi chiamo con ogni nome e nessuno.
Sono il rivenditore d’auto usate,
il turista di Gorgonzola,
il sicario, e aspetto.
Starò qui in piedi per sempre
come uno che ha perso l’autobus—
familiare, anonimo—
al mio solito incrocio,
l’incrocio dove svolti tu
per avvicinarti al posto dove ora
non devi sperare più di arrivare.
*
Una lettera (A Letter)
Scrivi che sei malata, confusa. Le piante
oltre la finestra della camera che ti hanno dato
sono bagnate di lacrime ogni mattino quando ti destano
dal sonno in cui non cadi mai del tutto.
Hai in testa un vago sogno di traffico
che si ferma e va, e va, e non si ferma
a volte tutta notte, tutto il giorno. La processione dei motori
ti passa accanto come il corteo funebre
di uno famoso con cui andasti a letto, una o due volte.
(Un altro accesso di pianto bagna le foglie, la pagina.)
Allora scopri le ferite, lasci cadere la camicetta,
esponi il seno appieno al dottorino
che ha il potere di firmare ricette, permessi,
cui pare tu piaccia… E così tornare
in città per l’ennesima volta, una di noi,
scorrendo veloce oltre gli alberi bagnati di un parco
verso un incrocio che conosci bene dove
il semaforo ti suggerisce di non attraversare,
di aspettare, come prima, sola – ma d’improvviso
con dieci anni in più, donna ora, meno folle, meno bella.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).