«Un’ombra di umanesimo rivoluzionario». La formazione filosofico-politica: rinegoziazioni d’identità è il titolo del primo capitolo di un saggio monografico di Sara Sermini su Amelia Rosselli. Da poco uscito per Olschki, con introduzione di Antonella Anedda, il libro si chiama «E se paesani / zoppicanti sono questi versi». Povertà e follia nell’opera di Amelia Rosselli. Pubblichaimo un estratto dal primo capitolo, che tratta del rapporto tra Amelia Rosselli e la politica.
«Dio mio, ma allora cos’ha
lei all’attivo?…»
«Io? – [un balbettio, nefando
non ho preso l’optalidon, mi trema la voce
di ragazzo malato] –
Io? Una disperata vitalità.»
(P.P. Pasolini, Poesia in forma di rosa)
«Passò anche Amelia, volava come una tunica». Basterebbe forse questo verso di Giovanni Giudici, tratto dalla poesia Il ristorante dei morti, a condensare i tratti sfuggenti della personalità di Amelia Rosselli e la sua estrema reticenza a farsi cogliere dall’altro. Lo confermano i documenti personali rimasti: l’epistolario con la madre e il fratello John[1], in cui i saltuari e serrati slanci introspettivi paiono sempre frenati da un pervicace riserbo, nonché le interviste di recente raccolte, nelle quali la stringatezza, la ridondanza e l’apparente semplicità delle risposte date agli interlocutori si scontrano con l’intricata complessità della biografia rosselliana, con la ricchezza e la varietà delle sue letture e soprattutto con la densità della sua riflessione in versi.
Ha scelto di concludere la sua vita in solitudine nel 1996, gettandosi dalla piccola finestra del suo appartamento romano, una mansarda di monacale sobrietà[2] in cui si trovava un letto singolo, una sedia, uno sgabello e una cucina apparentemente inutilizzata[3]:
Amelia Rosselli aveva una cucina senza tracce.
Il cibo non si vedeva, il lavello era nudo.
Ogni mattonella splendeva come una luna.
Chi viveva lì poteva essere appena andato via o appena tornato.[4]
Uno spazio, dunque, quasi precluso a quell’alterità che, al contrario, è il centro propulsore della sua poesia:
Contro del re dell’universo gridavano anacoreta e
amorosa.
Anacoreta e vergognosa. Anacoreta vergognosa si vergognava
della sua pulchritudine. Studiava piani e etmisfere
senza controllo. Con la bottiglia d’acqua calda addosso
studiava piani e emisferi. Con il contagoccie della
solitudine frenava la sua passione al bello. Con la
sua passione al bello frenava la sua corsa alla solitudine.
Con la sua passione al bello decifrava la solitudine.
Lo spettro della solitudine gridava! Gridava che essa
aveva trovato il bene, la pulchritudine e le essenzialità
della vita – gridava di ridar vita gridava forte che
la vita era tornata e che era donare. Non danaro,
non la forza né il tempo né altre essenzialità
ma: – una corsa alla forca che imperterviava contro
ogni generosità contro ogni essenzialità contro ogni
ostacolo. Il bene cadeva supino disteso sul letto
bocconi fra delle sue quattro candele morte. La notte
lo reinvolgeva nel suo scialle misterioso fatto di
lana grassa e smorta – un vero inferno.[5]
La poesia di Amelia sembra nascere dall’opposizione vissuta – che l’accomuna ad Antonia Pozzi, altra importante voce poetica femminile del Novecento italiano – tra l’amore per l’altro e la consapevolezza di aver scelto la solitudine. «Anacoreta e amorosa», Amelia Rosselli traspone le sue difficoltà a relazionarsi in quel «cangiante»[6] tu che, come si vedrà, continuamente oscilla fra l’autoreferenzialità e il richiamo al “volto dell’altro”.
L’attribuzione di un’identità al tu poetico della poesia rosselliana non è, tuttavia, di primaria importanza: la vera “esistenza sociale” di Amelia Rosselli sembra infatti consumarsi nella sua scrittura, il cui valore fondante è ravvisabile in quella categoria barthesiana del “neutro” che «non è un media attivo e passivo; è piuttosto un va-e-vieni, una oscillazione amorale, in breve, se si può dire, il contrario di un’antinomia. Come valore (venuto dalla regione Passione), il Neutro corrisponderebbe alla forza con cui la pratica sociale spazza e irrealizza le antinomie scolastiche (Marx citato in Sur Racine, 61: “è soltanto nell’esistenza sociale che antinomie come soggettivismo e oggettivismo, spiritualismo e materialismo, attività e passività perdono il loro carattere antinomico…”)»[7]. La poesia di Amelia Rosselli è politica nella misura in cui è “neutra”, in cui esprime un valore collettivo:
In poesia mi esprimo anche politicamente. Qualcuno intravede nella mia tematica un’ombra di umanesimo rivoluzionario. Sul piano sociale la poesia può servire se tocca la collettività, non tanto l’esperienza personale. È poesia secondo me riuscire a trasmettere questa esperienza del reale collettivo.[8]
Ricostruire la “pratica sociale” vera e propria di Amelia Rosselli è il presupposto necessario per capire l’orizzonte di idee in cui si colloca la mutevolezza della sua Weltanschauung, ed è necessario farlo ribaltando la modalità consueta: non a partire, dunque, dalla sua biografia bensì dalla sua poesia, rintracciando i nodi tematici che la percorrono. Procedendo in questo modo si potrà forse fare luce sulla poesia di un io che, nascendo nel cuore della Storia, non sceglie la via della poesia ma è condotto sulla via della poesia dalla Storia stessa nonché da un «ritmo che sta prima della coscienza e financo della rima (ossia prima della più elementare sicurezza infantile d’eco, dove si è al confine di penombra fra coscienza e precoscienza)»[9]:
Tu – lunare e la stessa
Che ora fa trent’anni
Da me vista parlare
A me seduti a un tavolo
In Roma più due astanti
E dirmi – Ah sì Lei scrive
Ppp – oesie!? – non senza stento
Puffando la labiale
Muta – che cosa vuole
Colui da grande più che grandezza dolore
Cosa da tutto che ognuno
Può!?[10]
Quella “ppp-oesia”, a cui non avrebbe inizialmente creduto di dedicare l’intera esistenza, diventa il campo di battaglia interiore tra la volontà di prendere parte attiva alla Storia e la sensazione di totale inettitudine, accompagnata dalla paura di essere indifferente («con la terra che sembra tremare di coincidenze / non ho fiato per gridare la mia indifferenza»[11]). E proprio da questa lotta tutta giocata sul terreno poetico, neutra e “infunzionale” poiché si sottrae alla padronanza del soggetto, affiorano i termini di una riflessione politica vera e propria che, partendo dalla sua eredità familiare, confluisce nel solco del dibattito europeo sull’umanesimo moderno. Proprio entrando nel cuore di questo dibattito, Amelia Rosselli saprà metterlo in discussione e, riflettendo sul suo portato teorico, saprà prenderne le distanze per rinegoziare la propria identità.
In questo capitolo si ripartirà dunque da due fils rouges strettamente intrecciati, l’amore per l’altro e la povertà, per ripensare la biografia intellettuale di Amelia Rosselli negli anni della formazione, prendendo in considerazione il suo arrière-pays: l’eredità intellettuale di una famiglia che dimora nella Storia e le frequentazioni, finora trascurate, dell’ambiente olivettiano e dei fautori di quella “terza via” politica sulla quale in molti hanno riposto le proprie speranze di ripensamento e di ricostruzione dopo l’“anno zero”. L’aggiornata biografia del “Meridiano” Mondadori, di recente pubblicazione, sarà di fondamentale importanza nel lavoro di ricostruzione. E tuttavia da essa ci si allontanerà per convocare ulteriori materiali e testimoni che, gettando una nuova luce sulla formazione intellettuale di Rosselli, permetteranno in parte di riscrivere la storia dei suoi anni giovanili.
In questo senso, si esaminerà anche il rapporto di Rosselli con il poeta lucano Rocco Scotellaro conosciuto nel 1950 al convegno intitolato «La Resistenza e la cultura italiana». Prenderò questa data come punto di partenza per mostrare come, nello scambio intellettuale così come nella riflessione di Rosselli degli anni immediatamente precedenti e successivi al ’50, sembrino già in nuce i frutti della sua poesia.
Il convegno del 1950 e il lascito familiare
Di fronte allo smarrimento, alla sconoscenza e addirittura al rinnegamento di quella che è stata la grande lotta pratica condotta contro il fascismo dal movimento della Resistenza, già nel ventennio e poi apertamente e vittoriosamente negli anni 1943-1945, noi uomini di cultura, intellettuali non separati dalla realtà dei maggiori problemi nazionali, vogliamo affermare anche per parte nostra, nell’ambito nostro specifico, la devozione sentimentale e la fedeltà storica ai motivi, non contingenti e non limitati, della Resistenza: vogliamo esaltarne senza vanagloria e imparzialmente gli altissimi valori, riconoscerne e qualificarne i meriti, e svilupparne i germi che lasciò fecondi, perché tra il nostro recente passato e questo duro presente non si avverta come un fosso, o un muro che irreparabilmente disgiungano dalle nostre coscienze il senso continuo della nostra vita storica…[12]
E proprio per quel “senso continuo della vita storica”, indissolubilmente intrecciato alle note vicende personali, la ventenne Amelia Rosselli risponde all’appello rivolto «agli esponenti della cultura nazionale» e parte alla volta di Venezia dove, nell’ala napoleonica del Palazzo Ducale, dal 22 al 24 aprile 1950 si tiene il Convegno nazionale dal titolo La Resistenza e la cultura italiana.[13] Il Comitato d’iniziativa, formato da alcuni fra i massimi intellettuali, uomini e donne di cultura, e in particolare l’organizzatore, lo scrittore Leonida Rèpaci, danno vita a un Convegno «che non vuole essere una accolta di aristocratici del pensiero avulsi dalle spirazioni e dai bisogni del popolo italiano»[14]. Per tale ragione il programma, redatto partendo dalle presunte esigenze culturali del popolo italiano del dopoguerra, prevede gli interventi di: Luigi Salvatorelli (Primo e secondo Risorgimento), Roberto Battaglia (La Storia e la Resistenza), Raffaele Ramat (La scuola e la Resistenza), Franco Antonicelli (La Letteratura e la Resistenza), Piero Calamandrei (Il Diritto e la Resistenza) e Arrigo Cajumi – poi sostituito da Vittorio Gorresio – (Il Giornalismo e la Resistenza). La notizia del convegno è accolta sulle prime pagine delle principali testate, dalle quali si evincono alcune modifiche e aggiunte al programma ufficiale: oltre allo spazio per i dibattiti, alcuni momenti sono dedicati alle «comunicazioni sulle arti»[15], tenute da Renato Guttuso, e all’intervento di Anna Banti sul cinema dal titolo Neorealismo e Resistenza[16].
Presenti in sala anche gli esponenti politici[17], molti dei quali sono stati amici e compagni del padre di Amelia, Carlo Rosselli, e in particolare Ferruccio Parri che Amelia frequenta a partire dal suo trasferimento a Roma nel 1949. A lui rimanda un componimento dal titolo Pastiche per Ferruccio[18], uno dei manifesti della poesia rosselliana, dedicato a Parri «in un secondo tempo o contemporaneamente»[19] alla stesura, avvenuta nel marzo del ’68 a casa di un matematico-musicologo che porta lo stesso nome del politico:
Come
se da tanta autobiografia, nascesse il
parto delizioso, delle cose friabili
se dal riottoso incontro con la specie
tutto ciò che è imperfetto e colpevole
voglio io recitare,
fallimentare realtà
o paura dell’ordine
con fusione diffusa
d’amore poter restituire ai miei persi
soldati l’impero intero del vivere!
Vorrei che
mi si salutasse con gran fragore o che
un attonito silenzio fatto di stupore
corrugasse la fronte di quei bifolchi.[20]
«Da tanta autobiografia», dal «riottoso incontro con la specie», da quella sovrapposizione tra storia personale e collettiva che è propria della scrittura di Amelia Rosselli, scaturiscono versi “friabili”, frammenti di quella Storia che, se non è sempre il precipuo oggetto della sua poesia, ne costituisce sicuramente l’innesco poiché punto di non ritorno di un’intera esistenza:
Nata a Parigi travagliata nell’epopea della nostra generazione
fallace. Giaciuta in America fra i ricchi campi dei possidenti
e dello Stato statale. Vissuta in Italia, paese barbaro.
Scappata dall’Inghilterra paese di sofisticati. Speranzosa
nell’Ovest ove niente per ora cresce.[21]
Il noto rifiuto di Amelia Rosselli per la definizione di “apolide” o “cosmopolita” è giustificato facendo ricorso alla volontà storica:
La definizione di cosmopolita risale a un saggio di Pasolini che accompagnava le mie prime pubblicazioni sul «Menabò» (1963), ma io lo rifiuto per noi quest’appellativo: siamo figli della Seconda guerra mondiale. Quando sono tornata in Italia mi sono molto legata a Roma. Cosmopolita è chi sceglie di esserlo. Noi non eravamo cosmopoliti; eravamo dei rifugiati.[22]
Amelia Rosselli vive, dunque, tra le mura di una dimora continuamente dislocata altrove, il travaglio della Storia: in forma di storia personale, nel «senso di non corporeità»[23] lasciato dalla figura paterna, di contro alla presenza costante della silenziosa attività politica della madre, Marion Cave[24], nonché delle frequentazioni familiari; e, ben presto, in forma di memoria collettiva, letta sulle pagine di libri che del padre portano soltanto il nome così come in quei ritagli di giornali, riviste e fotocopie scrupolosamente conservati, documenti preziosi che ci restituiscono la fervida volontà di un impegno socio-politico da parte di Rosselli, chiamata a prendere parte alla Storia dalla sua stessa storia.
Il convegno del 1950 costituisce in questo senso la prima occasione in cui Amelia Rosselli partecipa a un momento di riflessione collettiva sul recente passato. Per la prima volta a cinque anni dalla liberazione non si vuole più soltanto commemorare la lotta antifascista: la cerchia intellettuale italiana si riunisce nella primaria consapevolezza che «la Resistenza è stata innanzitutto un impeto spirituale, un calore morale»[25] e che, non potendosi esaurire in quella “grande lotta pratica” che ha saputo combattere il fascismo, sia proprio la Resistenza ora a dover resistere. Aspetto che ben mette in luce Giacomo Noventa, intervenuto in chiusura della prima giornata dopo le relazioni di Salvatorelli, Battaglia e Ramat[26]:
L’antifascismo procede da un sapere, da una certezza. La Resistenza da un non sapere, da un dubbio. L’antifascismo conosce tutte le cause, mortali e veniali, del disastro. L’uomo della Resistenza si domanda invece come mai un simile disastro sia stato possibile. Come mai i fascisti ne siano stati capaci, e gli antifascisti e gli italiani in genere capaci di prevederlo, non di impedirlo. E appunto perché l’antifascismo sa tutto, è tutto rivolto al passato, ma la Resistenza all’avvenire. L’uno tende, com’è naturale, a combattere gli errori del passato, l’altra quelli del presente.[27]
Concorde sulla necessità storica di partire dall’oggi per guardare al futuro, lo storico piemontese Giorgio Vaccarino, dalle sale del palazzo Ducale, ricorda le parole di Lucien Febvre nell’affermare l’impossibilità di qualunque forma di attendismo storico: «Per questo noi abbiamo la convinzione che, sotto pena di suicidio, gli storici onesti non possono, non debbono lasciare nell’ignoranza di ciò che già si può oggi sapere un vasto pubblico che domanda, che non si attenda la sua morte per offrirgli – che cosa in fondo? – del provvisorio, appena meno provvisorio di quanto gli possiamo dare oggi. Bando quindi agli scrupoli dell’attendismo»[28].
Non ha remore ad allinearsi a questa posizione nemmeno Piero Calamandrei, appoggiando la ferma necessità di comprendere cosa è stata la Resistenza, di rimeditare immediatamente l’oggi appena trascorso e capire quel male oscuro, quel «qualche cosa che perdura negli anni, nascostamente, sordamente» e dal quale non bisogna «lasciarsi schiacciare»:
La Resistenza fu una guerra o fu una rivoluzione? O fu l’una e l’altra? E se fu una rivoluzione perché non si chiama rivoluzione e si chiama, come vi dicevo poco fa, Resistenza? – che è una parola diversa, un concetto diverso, più profondo, più quantitativo? […] hanno detto i costituzionalisti, che le rivoluzioni si dividono in rivoluzioni fallite, che sono sommosse che portano al patibolo e in rivoluzioni trionfanti che sono creazioni di un ordine nuovo, che portano al governo i rivoluzionari.
La Resistenza, in quale di queste categorie si può inquadrare? Perché, vi ripeto, si è adottata una parola così grave? Non lasciarsi schiacciare da qualche cosa che perdura negli anni, nascostamente, sordamente, con qualche forza bruta che vuole schiacciarlo e tuttavia lo spirito riesce a non farsi schiacciare. Questa Resistenza, che la sua prima qualificazione l’ebbe in quel giornaletto fiorentino “Non mollare” e anzi, qui io devo aprire una parentesi, amico Antonicelli[29], nella tua relazione veramente bellissima una sola dimenticanza c’è stata, i ricordi autobiografici di Carlo Rosselli, che anche sotto l’aspetto letterario e sotto l’aspetto politico rappresentano uno dei libri fondamentali della letteratura della Resistenza.[30]
Calamandrei accentua la nota letteraria di quegli Scritti autobiografici e politici del compianto amico Carlo Rosselli e in particolare fa riferimento al primo foglio di Non mollare, «bollettino d’informazioni durante il “regime fascista”» risalente al gennaio 1925, in cui, in una prosa telegrafica quasi versificata, si dà adito all’urgenza di una necessità:
«Pubblicheremo questo bollettino ogni settimana.
Riporteremo articoli e notizie che non possono essere pubblicate nei giornali d’opposizione.
Non ci è concessa libertà di parola: ce la prenderemo.
Nel titolo è il nostro programma.
Bisogna resistere contro coloro che ogni giorno cercano di intimidirci con nuove minacce, che ci tolgono il lavoro del quale viviamo e diamo da vivere alle nostre famiglie, che prima di aggredirci ci fanno prendere le armi dagli agenti della questura per assicurarsi che non potremo difenderci, che comprano i testimoni ed i giudici per farci condannare, che ci impediscono di riunirci, bruciano le sedi delle nostre associazioni, sequestrano i nostri giornali.
Bisogna resistere malgrado le armi della milizia, malgrado l’impunità assicurata ai delinquenti, malgrado tutti i decreti che possono venire firmati dal Re.
Se vorremo vinceremo.
La vittoria significherà per noi intorno alle leggi dei nostri padri, ritorno a quelle libertà che ci consentano una vita civile.
La nostra volontà non può dunque non essere ben decisa: oggi è in gioco non solo l’unità del nostro paese, ma il nostro stesso onore di popolo.»[31]
Le ultime righe individuano la ferita, lo strappo da sanare, di fronte al quale la contingenza storica non può più tirarsi indietro: il problema della volontà. Quella indefinita «forza bruta» contro la quale bisogna resistere e a cui Piero Calamandrei non dà un nome, è forse Giacomo Noventa a definirla durante il convegno (memore probabilmente di quella densissima pagina scritta da Antonio Gramsci l’11 febbraio 1917 dal titolo Odio gli indifferenti[32]):
Ma la causa della Resistenza era molto più profonda ed antica. Il nemico contro il quale la Resistenza popolare italiana combatteva non era soltanto l’ultimo fascismo e l’ultimo nazismo, ma l’Indifferenza popolare italiana dal Risorgimento in qua. Il pericolo contro il quale la Resistenza popolare combatteva non era soltanto la decadenza delle classi politiche e di una parte della società italiana da Giolitti in poi, ma il pericolo più grande che una decadenza più antica, la decadenza di quelle classi da Cavour in poi, rappresentava per tutta la Nazione.[33]
Indubbiamente la questione dell’indifferenza è nodale nella storia della famiglia Rosselli e avrà un enorme influsso sulla vita e sulla poesia di Amelia: nel 1929, nel momento in cui Carlo Rosselli comprende che la «massa degli uomini» non può più «abdicare alla sua volontà»[34] e fonda il movimento “Giustizia e Libertà”, va alle stampe Gli indifferenti, il romanzo d’esordio in cui, scrive Ungaretti nella sua profetica recensione al romanzo, Moravia ha saputo mostrare quella «certa china della società» che porterebbe «verso un tetro regno di scimmie ben educate»[35]. Un candido ritratto dunque di una classe sociale che si muove in quelle “case signorili” dalle quali gli stessi fratelli Rosselli provengono e dove si manifesta, per dirla con un noto verso di Amelia Rosselli, «la furia dei venti contrari». È Piero Calamandrei, ricordando il suo primo incontro con Amelia Pincherle Rosselli, ad abbozzare un piccolo affresco di un ambiente per certi aspetti controverso:
La conobbi in via Giusti, una sera, in quella stanza a terreno a sinistra dell’entrata, dov’era lo studio di Carlo, ingombro anche sulle seggiole di libri aperti e di giornali spiegati, come un’officina nel pieno del lavoro. Apparve sulla soglia un istante, appena il tempo per salutare con un sorriso quel gruppo di giovani infervorati nell’impegno rischioso; e subito sparì per non turbarli. Certo intuiva che in quella sua casa signorile, che pareva fatta per un’agiata tranquillità, era già entrato in quella stanza risonante di discussioni giovanili un austero destino di prove crudelissime.[36]
Agli occhi di Calamadrei, l’«officina» sembra quasi stonare in quella «casa signorile» che, sebbene sembri non avere nulla in comune con quel mondo totalmente asettico e disimpegnato descritto da Moravia[37], mantiene i connotati di un ambiente borghese soffocante – condensato nella reticenza di Amelia Pincherle Rosselli a dare il consenso a un matrimonio fra una donna di modesta provenienza sociale[38] e il suo figlio maggiore – tratteggiato da Marion Cave, futura moglie di Carlo Rosselli, in una lettera del 7 novembre 1925 indirizzata al suo professore, Gaetano Salvemini:
Forse quello che più mi ha attirata nello spirito di Carlo è lo sforzo che ha fatto per liberarsi dall’atmosfera troppo facile e comoda dell’ambiente borghese. […] In quell’ambiente borghese, non concluderà mai niente. Potrà diventare un noto professore o studioso di economia, ma come uomo politico non potrà valere niente, perché quell’ambiente è come un fitto piumino che soffoca ogni slancio generoso, e in cui un uomo di carattere o un atto di volontà non possono esistere.[39]
Pare dunque verosimile che Carlo Rosselli riconosca perfettamente il milieu descritto dal cugino, come si evince da un articolo indirizzato a Mussolini a seguito della presunta proibizione (in realtà mai confermata) della pubblicazione del secondo romanzo di Moravia, Ambizioni sbagliate:
[…] Per la prima volta Mussolini colpisce con la censura un giovane scrittore. Moravia non è né un senatore né un corporativista. È un giovane cresciuto sotto il fascismo, che non ha niente di comune con i “passati regimi” e probabilmente li detesta non meno, se anche con più serietà, dei vari “pupilli” del duce. Ma è un giovane che ha il pericoloso privilegio di aver “conservato gli occhi”, per il quale il problema di falsificarsi per tornar gradito ad alcuni personaggi è semplicemente assurdo, e neppur si pone, perché il solo problema per lui è di dire il mondo come lo vede”. […] Con questa censura, sono quindi anche ufficialmente aperte le ostilità tra il regime e la giovane generazione italiana.[40]
Carlo Rosselli, che più volte aveva cercato di coinvolgere il giovane cugino nelle questioni politiche, scrive un articolo provocatorio nei suoi confronti, condannandone implicitamente la presunta inerzia politica e, al tempo stesso, riconoscendo quel mondo che Moravia descrive così “come lo vede”, quel mondo fatto di salotti in cui, in «un’oscurità grigia» tra «i gingilli e gli altri oggetti»[41], stanno «là, sospesi in quel meschino alone tutti gli oggetti della sua noia»[42]. Quel mondo in cui anche i personaggi diventano cose, veri e propri automi, non è un mero prodotto della sua fantasia bensì, come ha rivelato Moravia alla zia, uno spazio «conosciuto e osservato»[43], Gli Indifferenti, allora, altro non sono che la presa di consapevolezza di una condizione vissuta, come afferma Moravia:
Se per critica antiborghese s’intende un chiaro concetto classista, niente era più lontano dal mio animo in quel tempo. Essendo nato e facendo parte di una società borghese ed essendo allora borghese io stesso, Gli indifferenti furono tutt’al più un modo per farmi rendere conto di questa mia condizione. […] Che poi sia risultato un libro antiborghese è tutta un’altra faccenda. La colpa o il merito è soprattutto della borghesia specie quella italiana, in cui ben poco o nulla è suscettibile di ispirare non dico ammirazione ma neppure la più lontana simpatia.[44]
Circoscrivere il conflitto tra volontà e indifferenza vissuto nel microcosmo familiare dei Rosselli non solo permette di leggere in filigrana la crisi della civiltà, il dramma storico novecentesco imperniato proprio su questi due poli, ma è anche indispensabile per comprendere la tensione sottesa alla vita e all’opera poetica della figlia di Carlo Rosselli. Acquista dunque rilievo il fatto che, nonostante i risaputi contrasti di Moravia con il resto della famiglia, la giovane inizi a frequentarlo non appena giunta a Roma nell’autunno del 1949, riuscendo a far fronte alle incomprensioni familiari e a riscattare la fama di inerte che pesa su Moravia:
[…] appena arrivata a Roma, sono andata a vederlo, quando ancora viveva con Elsa Morante; credo che gli abbia fatto piacere questo perché qualcuno disapprovava dei suoi libri in famiglia, qualcuno no, ma insomma. Per istinto avevo bisogno di un ambiente e lui in quel periodo non stava perfettamente: aveva avuto una polmonite e aveva una specie di esaurimento e il dottore aveva detto «camminare ogni pomeriggio, parecchio»; e allo stesso tempo andava al cinema perché faceva il critico cinematografico. Allora lo accompagnavo nelle camminate, almeno due volte alla settimana, e lui mi regalava un sacco di libri suoi. E io stavo a tradurre e a divorare questi libri e non mi sorprenderebbe che è stato questo caso a farmi scrivere – più il tradurre, che è un mestieraccio che forza l’abilità creativa, in un certo senso: è una terribile scuola la traduzione, però ti porta allo scrivere, che tu lo decida o no. Ma questo suo regalarmi i suoi migliori libri, specie quelli dell’anteguerra… no, del post-guerra, io stavo sveglia a leggere e divoravo i suoi libri, prosa che fossero o no, e si discuteva parecchio di questi suoi lavori. E, brusco come sembrava allora Moravia, con l’età è diventato sempre più delicato, più dolce.[45]
Non è improbabile che Rosselli abbia ricevuto l’invito al Convegno veneziano proprio da Moravia stesso, anch’egli tra i membri del Comitato d’iniziativa, vista la loro vicinanza in quel periodo. Con maggior certezza si può affermare che Rosselli abbia letto il primo libro del cugino, presumibilmente nella copia di famiglia in traduzione francese del 1931, conservata, con dedica manoscritta dell’autore, presso la biblioteca di Amelia Rosselli[46].
La giovane Rosselli riceve in eredità non solo il peso e le conseguenze dei fatti familiari ma anche il contesto, lo spazio fisico delle vicende di una famiglia, dal quale cercherà presto di distaccarsi:
Ero a Roma e la mia condizione piccolo borghese non mi permetteva di avere contatti con il proletariato. Per questo ho cominciato a fare un faticoso lavoro di base prima alla sezione di Trastevere, poi a via dei Giubbonari. Sotto sotto capii di avere l’ansia di mio padre.[47]
L’ambiente dei Rosselli e quello descritto da Moravia possono essere presi come esempio della duplicità dello spazio borghese dal Risorgimento in poi: regno dell’inerzia da un lato, dall’altro dell’operosità intellettuale e rivoluzionaria. In questa seconda tipologia sembrano rientrare quegli scenari collinari delle ville piemontesi che, all’indomani del secondo conflitto, così bene immortala Barbara Allason, nel suo Vecchie ville vecchi cuori (pubblicato proprio nel 1950, anno in cui la Allason prende parte al Comitato d’iniziativa del convegno veneziano). È proprio in queste tenute collinari che, racconta la Allason, militante nel movimento “Giustizia e libertà”, sono nati i grandi ideali progressisti di giustizia e di uguaglianza sociale in opposizione rispetto ai principi del nascente regime fascista. Tuttavia si tratta di valori discordanti con un linguaggio aristocratico, che rivela rapporti di subordinazione riconducibili alla dinamica atavica servo-padrone, e con uno spazio signorile che, sebbene mostri tutti i segni del tempo e dell’«urto col moderno»[48], contrasta con lo “spazio della miseria”, con la «condizione umana negletta, abbandonata»[49], denunciata dal coevo cinema neorealista, di cui peraltro Moravia era stato attento recensore[50].
«Voce schietta di fatti e di volti»[51] è anche quella di Barbara Allason che ci restituisce l’altro lato dell’Italia del secondo dopoguerra, ripercorrendo il declinarsi di quel senso della «fine di un mondo»[52], il mondo aristocratico da cui proviene e in cui si muove la quasi coetanea e conoscente Amelia Pincherle Rosselli. La madre dei fratelli Rosselli è ritratta in un altro fondamentale libro della Allason, Memorie di un’antifascista (1946), nello scorcio di un salotto torinese, in compagnia degli stessi personaggi che si riuniscono nelle ville collinari per organizzare la “grande lotta pratica” contro il fascismo:
Dopo quella prima volta in casa Ramorino, molte altre volte vidi Nello Rosselli, e si divenne amicissimi. Ricordo specialmente una sera in cui fui a trovarlo con Ada Gobetti nel quartierino dove abitava, lì a Torino, con la moglie e la madre – quella nobilissima Amelia Rosselli che aveva già dato alla patria il suo primogenito, e restava così stupendamente bella sotto la sua capigliatura candida.[53]
I due libri della Allason, in cui «paesaggi e uomini sono […] teatro e protagonisti di una storia comune», si rivelano di fondamentale importanza per comprendere come «il fascismo è stato in primo luogo il colpo di scure sulla forma bella e secolare di una civiltà, il tradimento del Risorgimento»[54].
La presa di coscienza del tramonto della civiltà risorgimentale ha i suoi effetti tangibili nel secondo dopoguerra e coincide con il momento di massimo acume della miseria esteriore del popolo italiano, stremato dalla guerra. Ben prima del secondo conflitto e del massimo grado di depauperamento non solo economico, ma anche culturale e morale che coinvolge l’intera società, in molti hanno già preso atto che in Italia la strada del cambiamento deve passare dalla rivalutazione di un passato risorgimentale legato ai protagonisti borghesi delle ville, delle case signorili e al quale il popolo è del tutto estraneo.
Forte degli insegnamenti di Gaetano Salvemini e degli studi sul Risorgimento del fratello Nello, Carlo Rosselli parte proprio da questo punto nella sua prima e più nota trattazione politica, Socialismo liberale, pubblicata per la prima volta in francese nel 1930[55], poi nel ’44[56] in italiano per le edizioni clandestine di Giustizia e Libertà. Su questo testo vale la pena di soffermarsi, non solo in quanto sarà un riferimento imprescindibile per la politica italiana del secondo dopoguerra ma soprattutto poiché rivestirà un ruolo fondamentale nella formazione di Amelia Rosselli:
L’Italia male si prestava ad un innesto di socialismo marxista. Immensa plebe rurale, legata ancora alla gleba e al prete, con vastissime oasi artigiane e rare avanguardie proletarie e capitaliste, il problema per essa non consisteva nell’avviamento al socialismo, ma nell’avviamento al capitalismo e alla vita moderna. Il popolo, corrotto da servitù secolari, rimasto estraneo a tutto il processo del Risorgimento, galleggiava al livello della sussistenza fisica e morale.[57]
Rosselli dunque non può non prendere in considerazione l’inderogabile problema della povertà e per questo porre come base della sua riforma liberal-socialista un principio che darà poi il titolo al libro dell’amico e compagno Ernesto Rossi: Abolire la miseria.[58] Scrive Carlo Rosselli nel ’24 su La rivoluzione liberale di Gobetti:
La propaganda e anche l’azione socialista ebbe sino ad ora, e forse fu necessario, un carattere prevalentemente economico. Fu forse necessario perché è assai difficile, per non dire utopistico, andare cianciando di morale, di valori spirituali, di doveri, a chi soffre la fame in un tugurio. Condicio sine qua non è la conquista di una relativa autonomia economica; senza di questa nulla si può fare. Tutto cozza contro la miseria; la miseria è la gran nemica, forse quanto la ricchezza.[59]
Se anche Marx e Engels affrontano il tema della povertà nelle loro analisi sul capitalismo, lo fanno da un punto di vista primariamente economico, al contrario delle nuove teorie liberal-socialiste che considerano la risoluzione del problema della miseria soltanto la prima tappa di un processo che ha come fine ultimo, dalla dottrina marxista rimandato a rivoluzione avvenuta, «l’attuazione progressiva dell’idea di libertà e di giustizia»[60].
Del marxismo Rosselli, in linea con il revisionismo diffuso[61], non si limita a criticare soltanto il determinismo meccanicista, il suo carattere messianico, bensì individua il problema centrale «nel ruolo che esso assegna all’elemento umano, al fattore volontà»[62]:
Nel sistema marxista abbiamo a che fare con una umanità sui generis, composta di uomini per definizione non liberi, operanti sotto la spinta del bisogno, costretti a ricorrere a metodi produttivi indipendenti dal loro volere e ad accedere a rapporti sociali imperativi. Psicologicamente parlando, l’uomo di Marx non è che l’homo oeconomicus di Bentham. Questa è la sua costante psicologica, allo stesso modo della razza, del clima, ecc. Le reazioni che questo homo oeconomicus offre non sono reazioni spontanee ed autonome, ma determinate dal modificarsi dei rapporti produttivi e quindi dei rapporti sociali.[63]
Il sistema marxista cambierebbe radicalmente dunque, introducendo il “fattore volontà umana”, dando adito alla «scienza giovane»[64] della psicologia. Ed è proprio a partire da ciò che Rosselli costruisce la sua teoria:
Il socialismo deve tornare alle origini e ridiscendere nel cuore delle masse e abbeverarsi di nuovo a quella linfa vitale del movimento. Gradualista o rivoluzionario che sia – ha bisogno di una integrazione etica, di una impostazione volontaristica. Ha parlato sinora quasi esclusivamente di interesse, di diritti, di benessere materiale. Deve ora parlare più spesso di idealità, di doveri, di sacrifici. […] Il “proletariato” è assurto al rango di categoria filosofica; la Storia è diventata un epico poema in cui l’eroe proletario abbatte il mostro borghese; i proletari sono apparsi tutti naturalmente buoni e giusti, corrotti solo dall’ambiente e dalle ingiustizie sociali. Ragionando per astrazione si è perso il contatto con l’umanità concreta, coi viventi proletari. Accanto alla organizzazione sociale – senza dubbio grandemente responsabile – si è dimenticato che la imperfezione, limitatezza, debolezza del proletariato, rimane indipendentemente da ogni stato sociale o divisione di classe, deriva dalla sua qualità di uomo.[65]
Questo presupposto è indispensabile, scrive Rosselli, per la costruzione di una civiltà in cui i problemi di educazione e di cultura non siano «rimandati tutti a potere conquistato, a trasformazione avvenuta. Perché allora solo comincerà la vera storia, allora solo si verificherà il famoso passaggio “dal regno della necessità a quello della libertà”, e gli uomini diventeranno padroni della loro storia che non sarà più storia ma stasi»[66]. Il processo di trasformazione delle cose deve svolgersi di pari passo con quella delle coscienze; «ché ben poco valgono le conquiste materiali, soprattutto quando impongono responsabilità nuove e gravi ai vittoriosi, senza una adeguata preparazione spirituale»[67].
L’analisi rosselliana passa dal generale al particolare, addentrandosi in una realtà italiana piegatasi passivamente alla dominazione fascista e individuando il problema proprio nel diniego della volontà, in una passività che è disposizione d’animo ma anche strettamente correlata a una miseria contingente:
Il problema italiano è, essenzialmente, problema di libertà. […].
Ora è triste cosa a dirsi, ma non per questo meno vera, che in Italia l’educazione dell’uomo, la formazione della cellula morale base – l’individuo –, è ancora in gran parte da fare. Difetta nei più, per miseria, indifferenza, secolare rinuncia, il senso geloso e profondo dell’autonomia e della responsabilità. Un servaggio di secoli fa sì che l’italiano medio oscilli oggi ancora tra l’abito servile e la rivolta anarchica. […]
L’educazione cattolica – pagana nel culto e dogmatica nella sostanza – e la lunga serie dei paterni governi hanno esentato per secoli gli italiani dal pensare in prima persona. La miseria ha fatto il resto. Ancor oggi l’italiano medio abbandona alla Chiesa la sua autonomia spirituale; ed ora si vede costretto ad abbandonare allo Stato, elevato al rango di fine, anche la sua dignità di uomo, degradato a semplice mezzo. Disposto alla servitù nel dominio della coscienza, lo si forza ora alla servitù nel dominio sociale e politico. Logica conclusione di un processo di passive rinunzie.
L’intervento del Deus ex machina, del duce, del domatore – si chiami esso papa, re, Mussolini – risponde sovente a una loro necessità psicologica. Da questo punto di vista il governo mussoliniano è tutt’altro che rivoluzionario. Si riallaccia alla tradizione e procede sulla linea del minimo sforzo. Il fascismo è, contro tutte le apparenze, il più passivo risultato della storia italiana.[68]
Appena diciottenne, Amelia Rosselli legge il libro del padre e proprio sulla scia dell’impegno paterno e familiare sembrerebbe selezionare in un primo momento le sue letture.[69] Non è un caso se nella sua biblioteca si ritrovi La condition ouvrière di Simone Weil nell’edizione francese del 1951[70] in cui, come nella dissertazione di Carlo Rosselli, è chiara la presa di coscienza, vissuta sulla propria pelle, della forte dipendenza del “fattore della volontà” dalla condizione fisiologica messa a dura prova nell’alienazione di un lavoro di fabbrica «demoralizzante»[71]:
Lo sfinimento finisce col farmi dimenticare le vere ragioni della mia permanenza in fabbrica, rende quasi invivibile la più forte tra le tentazioni che comporta questo genere di vita: quella di non pensar più, unico mezzo per non soffrirne. Solo il sabato pomeriggio e la domenica mi tornano dei ricordi, dei lembi di idee, e mi ricordo che sono anche un essere pensante. Spavento che mi penetra constatando la condizione di dipendenza nella quale mi trovo di fronte alle circostanze esterne: sarebbe sufficiente ch’esse mi costringessero ad un lavoro senza riposo settimanale – cosa che, dopotutto, è sempre possibile – e io diventerei un animale da soma, docile e rassegnato (almeno per me). Solo il sentimento della fraternità, l’indignazione di fronte alle ingiustizie inflitte agli altri, rimangono intatti – ma fino a che punto ciò potrebbe resistere? – Non sono tanto lontana dal pensare che la salvezza dell’anima di un operaio dipenda anzitutto dalla sua costituzione fisica.[72]
Tra l’esperienza della Weil, risalente agli ultimi anni Trenta, e la sua ricezione da parte del pubblico italiano bisogna considerare lo scoppio della guerra che ha visto la realizzazione della profezia della Weil, sintetizzata nell’amara ironia di quell’Arbeit macht frei di ferro fuso posto all’ingresso dei campi di concentramento. All’indomani del conflitto è necessario ricominciare proprio dal lavoro, come è stato fatto dall’Assemblea costituente della Repubblica italiana: liberarsi dalla povertà, dalla dipendenza fisiologica, dall’assoluzione dei bisogni primari diventa la prima e indispensabile tappa per il raggiungimento di una libertà che è innanzitutto spirituale, per l’emancipazione da un altro tipo di povertà negativa che ha nell’indifferenza la sua matrice. Il libro della Weil riveste, in questo senso, un ruolo di prim’ordine nello sviluppo delle nuove vie politiche dell’immediato dopoguerra italiano ed è una lettura attraverso cui passano molti intellettuali.
Non potrà partecipare alla ricostruzione Carlo Rosselli, assassinato, insieme al fratello Nello, dai cagoulards nel ’37 a Bagnoles-de-l’Orne. In molti tuttavia raccoglieranno la sua eredità, l’eredità di un umanesimo rivoluzionario fatto di molte voci che, soffocate dal totalitarismo, concorderanno sulla necessità di ripartire proprio «dalle aporie simmetriche del liberalismo e del comunismo»[73] – seppur nella diversità dei retroterra culturali e dei fini che si porranno – e in primo luogo dal lavoro e dal popolo, come recita il primo articolo della Costituzione («L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione»). Così l’art. 3 pare essere la summa delle riflessioni sopracitate di Carlo Rosselli e Simone Weil:
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e la uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Raccoglierà l’eredità di un umanesimo rivoluzionario anche Amelia Rosselli. Occorre tuttavia sottolineare che prima di leggere l’opera paterna, apprenderà la pratica di questo “umanesimo della resistenza”, ne farà esperienza nella sua infanzia, durante gli anni di esilio. Ad accompagnarla nel cuore della tragedia, attraverso la tragedia, c’erano state infatti due figure in particolare, forse le più rilevanti per Amelia Rosselli e spesso poco studiate quando si parla della sua formazione: la madre Marion Cave, la nonna Amelia Pincherle Rosselli nonchè la zia Maria Todesco, moglie di Nello Rosselli. Poco noto è il ruolo politico che ebbero queste donne nella resistenza. Come ha messo in luce Isabelle Richet, Marion Cave in primis ma anche le altre donne connesse a Giustizia e libertà e ad altri gruppi antifascisti, pur in una posizione di marginalità rispetto al mondo politico e intellettuale ufficiale, dunque maschile, giocarono un ruolo chiave nell’antifascismo italiano, ovvero «furono le prime a cercare d’informare l’opinione pubblica inglese circa la natura del regime di Mussolini»[74] e a denunciare cosa stava succedendo in Italia.
L’opera di Amelia Rosselli risente della condizione e dell’esperienza appena descritta: la sua opera è fortemente intrisa di un radicato senso politico e morale, vissuto nella costante paura di vedere «forbici, che recidono, ogni attitudine /al dovere»[75]. E i suoi versi si alimentano proprio di questo timore che, se radicalizza il suo senso del dovere[76] e inasprisce l’intolleranza nei confronti di se stessa e dei suoi tentennamenti, apre d’altro canto la strada alla ricerca di un nuovo linguaggio poetico che esprima il dissidio, a una lingua che sappia inscrivere la propria resistenza nell’afasia, nel balbettio, nella molteplicità linguistica:
[…] Io non so
quale vuole Iddio da me, serii
intenti strappanti eternità, o il franco riso
del pupazzo appeso alla
ringhiera, ringhiera sì, ringhiera no, oh
posponi la tua convinta orazione
per un babelare commosso […][77]
[1] Tutte le lettere di Amelia Rosselli a John Rosselli e a Marion Cave citate provengono dal Fondo Amelia Rosselli del Centro manoscritti dell’Università degli studi di Pavia.
[2] Cfr. M. C. Cardona, Il rifugio di un’esistenza nomade, in La furia dei venti contrari, a cura di A. Cortellessa, Firenze, Le Lettere, 2007, p. XXI.
[3] Cfr. la Fotobiografia di Amelia Rosselli nel Dossier Amelia Rosselli, in «Caffè illustrato», n. 13-14, luglio-ottobre 2003.
[4] A. Anedda, Saggio ottuso (una lettura), in La furia dei venti contrari, cit., p. 291.
[5] Variazioni belliche, p. 72.
[6] Vocabolo che rimanda alla traduzione italiana sia di Montale sia di Fenoglio della poesia Pied beauty di G. M. Hopkins, più volte usato da Amelia Rosselli nei suoi componimenti.
[7] R. Barthes, Barthes di Roland Barthes, Torino, Einaudi, [1980] 2007, p. 150.
[8] Intervista di Aurelio Andreoli del 1980 in A. Rosselli, «È vostra la vita che ho perso». Conversazioni e interviste 1964-1995, a cura di M. Venturini e S. De March, prefazione di L. Barile, Firenze, Le Lettere, 2010, p. 40.
[9] F. Fortini, Saggi ed epigrammi, a cura di L. Lenzini, Milano, Mondadori, 2003, p. 1172.
[10] G. Giudici, Labiale muta in Save Our Souls, ora in Id., I versi della vita, a cura di R. Zucco, Milano, Mondadori, 2000, pp. 20-21.
[11] A. Rosselli, Documento, in Ead., L’opera poetica, a cura di S. Giovannuzzi, con un saggio introduttivo di E. Tandello, apparati critici di F. Carbognin, C. Carpita, S. De March, S. Giovannuzzi, G. Palli Baroni, E. Tandello, Milano, Mondadori, “I Meridiani”, 2012, , p. 356.
[12] Manifesto del convegno «La Resistenza e la cultura italiana», Venezia, 22-25 aprile 1950.
[13] La brochure del programma e l’elenco completo dei membri del Comitato organizzativo [integralmente riportato nel libro] sono conservati presso il fondo G. Vaccarino dell’ISTORETO.
[14] Cfr. P. Spriano, La cultura a convegno nello spirito della Resistenza, in «L’Unità», 23 aprile 1950.
[15] F. Calamandrei, Il Convegno di Venezia aperto nel nome della lotta antifascista, in «L’Unità», edizione nazionale, 23 aprile 1950, p. 4.
[16] Dattiloscritto conservato presso il Fondo G. Vaccarino dell’ISTORETO con il titolo Neorealismo e Resistenza, pubblicato poi con il titolo Neorealismo nel cinema italiano in «Paragone Letteratura», I, 8, agosto 1950.
[17] Il Comitato d’onore è formato da «Croce, Castelnuovo, Celenetti, Orlando, Bonomi, Parri, Longo, Morandi, Pizzoni, Gianquinto» (cfr. il già citato articolo: P. Spriano, La cultura a convegno nello spirito della Resistenza).
[18]. A. Rosselli, L’opera poetica, p. 723 e relative note. Si conservano inoltre presso il Fondo Manoscritti di Pavia i ritagli di un articolo italiano sulla morte dello stesso (G. Battistini, Addio a Parri, in «La Repubblica», 9 dicembre 1981) e un articolo uscito su Le Monde e inviatole da un conoscente francese (la firma del quale risulta di difficile decifrabilità) con un biglietto di accompagnamento che recita «Hommage à l’ami et compagnon de votre père».
[19] Si veda l’autocommento di questi versi in: A. Rosselli, Pastiche per Ferruccio, in Ead., Una scrittura plurale. Saggi e interventi critici, Novara, Interlinea, 2004, pp. 287-288.
[20] Appunti sparsi e persi, p. 723.
[21] Variazioni belliche, p. 46.
[22] P. Zacometti, Figli della guerra, in A. Rosselli, «È vostra la vita che ho perso» Conversazioni e interviste 1964-1995, Firenze, Le Lettere, 2010, p. 117.
[23] Intervista di Giacinto Spagnoletti del 1987 in ivi., p. 79.
[24] Per comprendere il ruolo politico di Marion Cave cfr. I. Richet, Marion Cave Rosselli and the Transnational Women’s Antifascist Networks, in «Journal of Womens’s history», vol. 24, n. 3, 201, p. 117-139; cfr. anche: Ead., Marion Rosselli, la fuga da Lipari e lo sviluppo dei circuiti antifascisti in Gran Bretagna, in I fratelli Rosselli. L’antifascismo e l’esilio, a cura di A. Giacone e E. Vial, prefazione di O.L. Scalfaro, Roma, Carocci, 2011, pp. 74-88.
[25] Si tratta di una citazione desunta da un dattiloscritto conservato presso il Fondo G. Vaccarino dell’ISTORETO, contenente l’intervento di Piero Calamandrei dal titolo Il Diritto e la resistenza, pronunciato nell’ultima giornata del Convegno veneziano. Il testo integrale è inedito; è stata pubblicata la parte conclusiva del discorso su «L’Unità» del 27 aprile 1950 con il titolo In nome della Resistenza difendiamo la Costituzione e un ulteriore brano su «Il Nuovo Corriere» di Firenze del 28 aprile 1950.
[26] Cfr. l’articolo già citato di F. Calamandrei, Il convegno di Venezia aperto nel nome della lotta antifascista:: «Si è iniziata quindi la discussione. Sono intervenuti sulle tre relazioni, Leo Valiani, il prof. Bendiscioli, il figlio del patriota Gastone Sozzi, De Cabalis, Joyce Lussu, Giacomo Noventa e Giorgio Vaccarino dei cui interventi parleremo più ampiamente nella prossima corrispondenza». Il discorso di Noventa è pubblicato nel 1973 nella raccolta di saggi Tre parole sulla Resistenza e altri scritti, Firenze, Vallecchi, 1973.
[27] G. Noventa, Tre parole sulla Resistenza, cit., p. 83.
[28] G. Vaccarino, La Resistenza e la cultura, in «Il movimento di liberazione in Italia», 6, maggio 1950, p. 40.
[29] Franco Antonicelli interviene prima di Calamandrei sull’argomento La letteratura e la resistenza.
[30] Cito dal dattiloscritto di Piero Calamandrei intitolato Il Diritto e la resistenza, conservato presso il Fondo Vaccarino dell’ISTORETO, foglio 2.
[31] Cfr. il recto del primo bollettino di «Non mollare», n. 1, gennaio 1925, ora in Non Mollare (riproduzione fotografica dei numeri usciti con tre saggi storici di E. Rossi, G. Salvemini, P. Calamandrei), Firenze, La Nuova Italia, 1955, tav. I.
[32] A. Gramsci, Indifferenti, in «La Città futura», 11 febbraio 1917, ora in Id., Odio gli indifferenti, Milano, Chiarelettere, 2011.
[33] G. Noventa, Tre parole sulla resistenza, cit., p. 82.
[34] A. Gramsci, Odio gli indifferenti, cit., p. 4.
[35] G. Ungaretti, Un romanzo, in Id., Vita d’un uomo. Saggi e interventi, Milano, Mondadori, 1986, p. 206.
[36] P. Calamandrei, Amelia Rosselli, in «Il Ponte», XI, I, gennaio 1955.
[37] Cfr. S. Casini, introduzione a A. Moravia, Lettere ad Amelia Rosselli ed atre lettere familiari e prime poesie (1915-1951), a cura di S. Casini, Milano, Bompiani, 2009, pp. 92-93.
[38] Marion Cave nasce infatti nel dicembre del 1896 a Uxbridge da una famiglia modesta: unica di 5 figli a perseguire gli studi universitari grazie all’ottenimento di una borsa di studio (1918) della British-Italian League, grazie alla quale può preparare la sua tesi a Firenze. Il padre, Ernest Cave, membro dell’Indipendent Labour Party, si unisce ai Quaccheri nel 1919, diventando membro della “Society of Friends”. Cfr. I. Richet, Marion Cave Roselli and the transnational Women’s antifascist network, cit., p. 119.
[39] G. Salvemini, Carteggio (1921-1926), a cura di E. Tagliacozzo, Roma-Bari, Laterza, 1985, p. 476.
[40] C. Rosselli, La proibizione del nuovo romanzo di Alberto Moravia, in «Giustizia e libertà», 4 gennaio 1935, citato in A. Moravia, Lettere ad Amelia Rosselli ed altre lettere familiari (1915-1951), a cura di S. Casini, Milano, Bompiani, 2009, pp. 75-76.
[41] A. Moravia, Gli Indifferenti, Milano, Alpes, 1929. Cito da Id., Gli Indifferenti, Milano, Bompiani, 2005, p. 3.
[42] Ivi, p. 14.
[43] A. Moravia, Lettere ad Amelia Rosselli, cit., p. 236.
[44] A. Moravia, Ricordo de «Gli Indifferenti» (1945), in Id., L’uomo come fine, Milano, Bompiani, 1964, p. 14.
[45] Conversazione con Gabriella Caramore del marzo 1992 in A. Rosselli, «È vostra la vita che ho perso», cit., p. 296.
[46] Fondo Amelia Rosselli (FAR), Università della Tuscia, Viterbo.
[47] Intervista di Paolo di Stefano del 1994 in A. Rosselli, «È vostra la vita che ho perso», cit., p. 154.
[48] G. Jori, «La casa in collina». Un itinerario nel Novecento (1929-1972), introduzione a B. Allason, Vecchie ville vecchi cuori, cit., p. XVI.
[49] A. Banti, Neorealismo nel cinema italiano, in Cinema 1950-1977, Firenze, Fondazione di studi Storia dell’arte Roberto Longhi, 2008, p. 9.
[50] Si veda a questo proposito: A. Moravia, Cinema italiano. Recensioni e interventi 1933-1990, a cura di A. Pezzotta e A. Gilardelli, Milano, Bompiani, 2010.
[51] A. Banti, Neorealismo nel cinema italiano, cit., p. 13.
[52] G. Jori, «La casa in collina». Un itinerario nel Novecento (1929-1972), introduzione a B. Allason, Vecchie ville vecchi cuori, Torino, Nino Aragno Editore, 2008, p. XXX.
[53] B. Allason, Memorie di un’antifascista, Roma, Edizioni U, 1946. Cito da Id., Memorie di un’antifascista, Torino, Graphot Spoon River, 2005, p. 84.
[54] G. Jori, «La casa in collina», cit., pp. XXI-XXIII.
[55] C. Rosselli, Socialisme libéral, Paris, Librairie Valois, 1930.
[56] C. Rosselli, Socialismo liberale, [Italia], Edizioni di Giustizia e libertà, 1944 ; poi Id., Socialismo liberale, con una nota di Marion Cave, Milano, Edizioni U, 1945.
[57] Cito da C. Rosselli, Socialismo liberale, Torino, Einaudi, 1973, pp. 380-1.
[58] E. Rossi, Abolire la miseria, Milano, Casa Editrice La Fiaccola, 1946.
[59] C. Rosselli, Liberalismo socialista, in «La Rivoluzione liberale», 15 luglio 1924; fulcro della più ampia trattazione dal titolo Socialismo liberale.
[60] C. Rosselli, Socialismo liberale, cit., p. 427.
[61] Rosselli dedica due capitoli al revisionismo (Dal marxismo al revisionismo e Marxismo e revisionismo in Italia), passando velocemente in rassegna in particolare le posizioni di «Bernstein, Sorel, Jaurès, Corce, Labriola, Mondolfo» (ivi, p. 370) nel tentativo di superarle. All’inizio del quarto capitolo, Conclusione del revisionismo, si legge: «Da quanto si è detto nei capitoli precedenti appare che se il revisionismo ebbe il merito di rompere le incrostazioni dogmatiche, sforzandosi di adeguare la teoria alla nuova prassi del moto operaio e sceverando nel marxismo gli aspetti ancor vivi e fruttuosi da quelli sterili e superati, non seppe e non osò condurre il processo di revisione alle sue logiche conclusioni e finì per arenarsi in una polemica interpretativa che annullò gran parte dei benefici che aveva apportato» (ivi, p. 399).
[62] Ivi, p. 357.
[63] Ibidem.
[64] Ivi, p. 358.
[65] Ivi, p. 426.
[66] Ivi, p. 429.
[67] Ivi, p. 431.
[68] Ivi, p. 457.
[69] In una lettera indirizzata a Marion Rosselli il 23 agosto 1948, Amelia annovera tra le «letture interessanti» di quel periodo proprio Socialismo liberale.
[70] Scritto nel 1941 e pubblicato nel 1947 nel quarto fascicolo del «Cheval de Troie», è ripubblicato nella raccolta di saggi intitolati La condition ouvrière, nella collana «Espoir» diretta da Albert Camus nel 1951. Amelia Rosselli possiede proprio questa edizione: S. Weil, La condition ouvrière, Paris, Gallimard, 1951, FAR 2627. Il frontespizio del libro riporta l’ex libris “A. Rosselli ‘66”, ma è probabile che Rosselli lo legga, o per lo meno ne venga a conoscenza, molto tempo prima, come dimostrano molti altri libri presenti nel Fondo, in cui le date riportate sull’ex-libris contrastano con l’effettiva lettura del libro, spesso segnalata nelle lettere e avvenuta precedentemente. Si consideri anche il fatto che Adriano Olivetti rende noto il libro della Weil (nella traduzione di Franco Fortini del 1952) per le Edizioni di Comunità, per le quali Rosselli inizia a lavorare nel 1949, all’indomani del suo trasferimento a Roma.
[71] S. Weil, La condizione operaia, Milano, Edizioni di Comunità, 1952, p. 276.
[72] Ivi, p. 45
[73] C. Ossola, «Libertà interiore» e «complessi collettivi», introduzione a M. Olivetti, Per vivere meglio. Proposta per un sistema economico-sociale, a cura di C. Ossola, Torino, Bollati Boringhieri, 1994, p. VII.
[74] I. Richet, Marion Rosselli, la fuga da Lipari e lo sviluppo dei circuiti antifascisti in Gran Bretagna, in I fratelli Rosselli, a cura di A. Giacone e É. Vial, prefazione di O.L. Scalfaro, Roma, Carocci, 20110903, pp. 74-88.
[75] SO, p. 262
[76] In questi termini Maurizio Viroli, in un’intervista, parla di Amelia Rosselli: «Ma vorrei concludere con una donna: Amelia Rosselli, la poetessa figlia di Carlo Rosselli. Se gli italiani conoscessero la sua vita, il nostro paese sarebbe un paese migliore. Una vita vissuta per il dovere». Cfr. G. Di Tanna, Viroli, il sogno della morale civile. «L’Italia salvata dai doveri», in «Il Centro», 6 gennaio 2009.
[77] VB, p. 7.
Immagine: Foto di Dino Ignani.