Può veramente definirsi rapporto privilegiato quello di Maurizio Cucchi con la scrittura, assiduo com’è e a tutto campo, da quella in versi alla prosa saggistica e narrativa. Posso affermarlo con convinzione, e modestia, in quanto lettore “fedele” da oltre quarant’anni di questo poeta milanese, assai legato a Catania oltre che per le sue attrattive architettonico-ambientali per motivi affettivi propri. Sin dall’apparire sulla scena letteraria italiana del suo primo libro di poesia nel 1976, lo straordinario Il disperso, ad ogni nuova pubblicazione in versi o in prosa lungo tutta la linea evolutiva della sua produzione letteraria fino ad oggi è stato un costante, immancabile appuntamento con il prodigio di una scrittura di volta in volta coinvolgente per ragioni di continuità nello sviluppo e rinnovamento come adesione al proprio tempo, alla sua cifra umana. Dunque una “lunga fedeltà” per dirlo, prese le dovute distanze, con le parole di Gianfranco Contini che compongono il titolo di una raccolta di saggi su Montale. Questa assiduità è documentata dalla presenza in libreria di due nuovi libri, uno di prosa l’altro di poesia, usciti rispettivamente, a distanza di pochi mesi, nell’ottobre 2018 e alla fine di gennaio 2019. In quanto al primo, mi riferisco al prezioso volumetto dal titolo Varietà post-umano, una raccolta di prose dal tono disincantato e tagliente, ma signorile, pubblicata da Algra Editore “etneo” nella speciale Collana di critica poetica, “L’arco di Ulisse”, diretta dal poeta e critico letterario Emilio Zucchi. Si tratta di riflessioni, piuttosto amare, ma di grande forza etica e a vasto raggio sugli aspetti che più oggi contraddistinguono le prerogative fondamentali del vivere umano, tra i quali la comunicazione e la capacità di pensare, dall’ambito strettamente culturale a quello largamente sociale, politico e dello spettacolo. Ne scaturisce un lucido spaccato della nostra società – “occidentale” – civile/incivile, imbarbarita e depauperata della capacità di pensare e creare rapporti umani con il primitivo e naturale strumento che fu e dovrebbe essere – se ancora lo volessimo – la “parola”, quella tutta “umana”, cioè spontanea, semplice ed essenziale, assolutamente aderente a ciò che dentro siamo e al nostro rapporto con la realtà del tutto privo di qualsiasi tipo di mistificazione. A questa legittima esigenza di una “umanità” in lento processo di “disumanizzazione”, che purtroppo fa pensare drammaticamente all’altro altrettanto tragico della desertificazione e di destabilizzazione dell’equilibrio dell’ecosistema, modestamente mi pare risponda con pregnanza di significato il nuovo libro di versi di Cucchi, il secondo, quindi, di cui si diceva, Sindrome del distacco e tregua, edito da Mondadori nella rinnovata, storica collana “Lo Specchio”. Un titolo, riterrei, tra i più suggestivi fra tutti quelli dell’intera sua produzione (partendo dal Disperso annovererei: Le meraviglie dell’acqua, Donna del gioco, Vite pulviscolari, nulla togliendo agli altri), con la sorprendente (sul piano creativo) definizione di una propria situazione; o condizione psichica modellata su quella di ben noti fenomeni psichici (“Sindrome di Stoccolma”, “Sindrome di Stendhal”). Del resto, la vedo del tutto aderente allo sviluppo tematico di una raggiunta nuova concezione volta alla sobrietà, all’essenziale, a creare un rapporto con la realtà adeguato alla propria stagione di vita, nella quale una ritrovata «improvvisa adesione. Non totale / adesione, ma quasi» fa sorgere una sorta di rinnovata “tregua benefica”, una sospensione di quel percepire l’essere al mondo divenuto tanto conflittuale e disarmonico da aver generato una “sindrome del distacco”, superata da una partecipazione resa ora armonica: «Ma poi, e basta qualche ora, /dopo l’orrore della massa accodata, /ecco la tregua benefica che scioglie /la sindrome sinistra e pervasiva /del distacco». Un’adesione/partecipazione che, pur non del tutto totale, tuttavia diventa profonda penetrazione nella materia del mondo, e dell’esserci in esso, fatta di processi minimali, vegetali e animali che ricompongono gradualmente e plasmano una realtà vivente, cosmica, «… dove assorbo / la media quiete e la dolcissima / mediocrità innocua e gentile del mondo». E se lo sguardo smaliziato del poeta si allunga all’indietro nel tempo, nella memoria ormai pietrificata di luoghi ed eventi alla ricerca dei quei segni semplici e quotidiani lasciati dalla mano dell’uomo, scenario di rovine di una esistenza fondata semplicemente sulla normalità del vivere, tuttavia come purificata dell’inutile sovrabbondanza degli orpelli del presente, allora percepisce il proprio “io”; «Ancora più interno, a fondo / più persuaso in un sorriso, / nella fisica, bassa normalità opaca / della terra, degli esseri e delle cose / senza nome, nella pasta vitale / e ruvida dell’umano mondo». Una nuova acquisita consapevolezza che fa penetrare la coscienza del poeta nella fisicità di una materia elementare, quella essenzialmente primaria della vita naturale composta di “insondabili armonie”, così nella sezione intitolata Minuta gocciola – una delle otto in cui è articolata la partitura del libro concepita senza la costrizione di una trama necessariamente lineare, ma affidata alla «rapsodia sparsa e sempre minuziosa / delle circostanze» – : «Nell’economia frattale nella luce / nelle sue infinite sospensioni / germoglia minutissimo e prezioso / e iridato l’esserci…». Un voler esserci che affonda le sue radici – valicando sempre a ritroso le barriere del tempo, delle ere – fino alla primordiale, genuina e incontaminata, condizione di una umanità ancora allo stato quasi animale, di cui «… ripossedere almeno l’orizzonte semplice» (in Antichi bestioni, altra sezione). A rifletterci bene, il poeta affronta con coraggio e tenerezza la convincente esperienza d’apprendimento che ogni cosa è un frammento sempre vivo, che noi stessi siamo elementi che compongono paesaggi intravisti da altri, macchie, tracce incise, percorsi labirintici, fisici e mentali. E ciò non potrebbe avere altro significato se non quello di una sorta di conquista attimo per attimo dell’esserci nell’unico possibile senso che è quello umano: lo conferma il poemetto intitolato Il penitente di Pryp’jat, anticipato nell’ultima sezione dell’Oscar Mondadori, Antiche, rare, inedite, volume pubblicato nel 2016, che raccoglie, in una nuova edizione accresciuta e aggiornata, le poesie dal 1963 al 2015. Qui un’energia “poetica”, in continua azione di trasfigurazione dei dettagli della realtà, in un vorticoso percorso onirico, trascina il lettore dall’“immenso cortile di pietra” del collegio dei padri Salesiani a Milano, viva memoria degli anni scolastici del ragazzo/io narrante alle vacanze trascorse con la famiglia a Miramare di Rimini fino alla cittadina ucraina di Pryp’jat’ nei pressi di Černobyl’ contaminata dal disastro della centrale nucleare del 1986, che assume così la connotazione di luogo simbolico di un viaggio onirico alimentato dalla fantasia e tracciato dal movimento del dito sull’atlante: una città fantasma, ridotta in macerie, dalla quale vorrebbe istintivamente spostarsi “altrove”, alla ricerca di una nuova condizione esistenziale: «Chissà se la via per Ovruch è libera », si chiede il protagonista, spinto da moto inconscio in un’altra direzione. Che è quella di Ovruch, sempre nelle vicinanze di Černobyl’, dove la diceria sostiene che ogni tanto compaia di notte dietro una chiesa il “penitente”, un fantasma materializzato forse per effetto delle radiazioni vaganti. Ma la piccola città di Ovruch è anche il luogo di origine del grande architetto Stefano Ittar, attivo nella seconda metà del 700, il quale, trasferitosi in Italia, passò da Roma a Catania per chiudere, poi, la non longeva esistenza a Malta. Uno dei nove figli, il primogenito Sebastiano, seguì le orme artistico-professionali paterne e dopo alcuni spostamenti a Malta e Roma si stabilì a Catania dov’era nato e dove prese moglie. A questo matrimonio risale la discendenza, per via materna, di Cucchi, rintracciata dopo alcuni decenni di ricerche. Luogo simbolico, dunque, si diceva, della strenua lotta per la sopravvivenza e dell’appartenenza, segnato dalla caparbia e coraggiosa volontà di riappropriazione dei residenti, nonostante il rischio della mortale contaminazione. È come se agisse un’energia interiore del “resistere” per conquistarsi la propria sopravvivenza, perché è proprio dell’essere umano tentare in qualsiasi modo di identificarsi in un principio/forma vitale che non si disperde nemmeno di fronte allo smarrimento personale o a eventi catastrofici indipendenti dalla propria volontà. Qui solo il miracolo della poesia poteva riuscire a trasformare, attraverso uno spontaneo movimento di identificazione, una memoria storica collettiva in richiamo genetico che è spinta verso le proprie radici, all’origine, indietro nel tempo, fino a raggiungere le tracce dell’illustre antenato, un richiamo che è «… lingua della terra che ti parla. / Tornare, passo ruvido su passo, /carico di vissuto sparso, disperso, / presente nelle povere membra». Il senso più autentico di questo percorso, tra l’onirico e un ideale, necessario immaginario, non può non ricordarci che quello del “viaggio”, in Cucchi, è sempre stato un elemento tematico di essenziale valenza poetica, in quanto esperienza di conoscenza nel passaggio tra luoghi, case, strade, divenuti memorie del passato che richiamano eventi legati al destino personale o ai “destini generali”, come direbbe Franco Fortini che del giovane poeta Cucchi aveva subito nutrito sincera stima, o documenti di un presente visibilmente stravolto dalla fasulla e ingannevole “civiltà del benessere”. Ne scaturisce la vera identità del poeta, quella di un “moderno flâneur”, come è stato definito con acuta intelligenza critica, attratto nel suo “vagare” dalla ricerca e scoperta di quei segni semplici e quotidiani lasciati dalla presenza umana, dall’ideale concretamente avvertito di una vita basata sulla quotidianità essenziale, ripulita dai superflui e accattivanti fronzoli di un’ingannevole civiltà del presente. Un presente alla fine riscattato dalla percezione del senso della materia, cioè dal sentire la realtà come entità viva attraverso un contatto con essa più profondo, pur sobria e minimale ma essenziale nel suo essere documento di ciò che è più autenticamente “umano”: «Mi sono messo in giro per la città osservando muri e case, luoghi in cui si potesse ancora vedere la traccia fisica del percorso umano, della storia di gente, di gente qualsiasi, soprattutto. Magari nella stessa sporcizia o nei muri scoloriti o scrostati». Siamo nel cuore del libro, la sezione intitolata Felicità frugale, che trae origine dal poemetto in forma prosimetra, La sciostra, edito nella silloge Paradossalmente e con affanno (Einaudi 2017), ora ampiamente riveduto. Da qui la sua necessità di concretezza, di gestualità elementare, di bellezza naturale, in un «mondo quasi arcaico, e quasi senza tempo», fatto di materiali contadini, orti, tetti di lamiera, sedie bianche di metallo scrostato e di conseguenza la ricerca, nelle sue passeggiate milanesi, di un approdo innocente, in periferia, lungo il Naviglio: un magazzino in disuso, dove fermarsi a godere la pace campestre, con un’unica ambizione: «Una sciostra, forse, / fra canne e sterpaglie, antico / magazzino di legna, calce e tegole, / e mia residuale dimora felice », lontano « dai luoghi delle decisioni» e della massificazione consumistica che ci rende tutti « ottusi, scossi / dalla sacra idiozia della moneta» e dall’ossessione del profitto senza limite che genera il delirio di onnipotenza, pacificato nell’animo dall’odore dell’erba e dal colore verde cupo dell’acqua del canale. È così che vivere può tornare ad apparirci in tutta la sua bellezza “frugale”, naturalmente essenziale, dunque spoglia di quei superflui e vuoti ornamenti dell’odierna evoluta èra del benessere avanzato, economico e sociale, una visione genuina pur nel suo essere perfetta e fugace, perché nel momento in cui ne godi ne cogli insieme la bellezza e la fine, come per tutte le cose legate alle leggi naturali dell’esistenza. Alle quali sottostanno anche le vicende della storia dell’uomo accadute negli anni, come quelle che emergono dalle date riportate sui muri o sulle porte di un antico quartiere della città di Nizza (nella sezione Babazouk), attuale privilegiato “posto di vacanza”, richiamando il titolo di un magnifico poemetto di Sereni, amico e maestro amato da Cucchi, anch’esso, dunque approdo pacificatore, che restituisce il senso vero e paradossale della vita, che però ti fa sentire «… più sereno di esserci e meglio / nutrito dalla grazia sensibile, labile, chissà, / e sinistra delle epoche che furono». Libro perfettamente compiuto, Sindrome del distacco e tregua, non solo sul piano tematico -contenutistico ma anche su quello stilistico-espressivo, in quanto il lavoro testuale, sempre originale in Cucchi (nel senso di “personale” il più possibile) e di libro in libro innovativo, questa volta fa emergere un rapporto strettissimo fra contenuti e struttura, cioè risulta particolarmente “coniugato”, intessuto, tale, quindi, da costituire armoniosamente il tessuto testuale. Ne sono documento esemplare, dall’esito felice, i transiti in uno stesso corpo/testo (propriamente il “prosimetro”) dai passi in versi a quelli in prosa e viceversa, estensione espressiva quasi in forma di “contrappunto”. Requisiti questi, a mio modesto avviso, che indicano come il “discorso” poetico di Cucchi si avvii sempre più verso la dimensione del “classico”. L’affermazione non vuole essere né gratuita né tanto meno presuntuosa. Partendo proprio dalla già osservata e, tra l’altro, palese armonia palpitante in ogni singolo componimento e dunque per l’intera partitura del libro, trova un mio personale riscontro in una particolare asserzione del pensiero estetico di Bergson, e cioè questa ”armonia” potrebbe essere identificata con quel pieno equilibrio tra i fini perseguiti e ottenuti e i mezzi adoperati per conseguirli, che, secondo il grande pensatore francese, fanno raggiungere a un’opera d’arte, sia essa figurativa, musicale o letteraria la dimensione della “classicità”. Una dimensione nella quale sono ravvisabili come costitutive, fra le diverse, almeno due componenti essenziali. La prima è quella del sentimento della “bellezza” che trascende il momentaneo moto emozionale per farsi naturale strumento di conoscenza e appropriazione dell’autentico senso dell’esistere, nella consapevolezza dell’inscindibile nesso fra umana necessità e concretezza della realtà, avvertita da Cucchi, lo abbiamo già notato, come bellezza naturale e necessaria, concreta semplicità del vivere consegnata alla poesia, che chiede di incontrare, perciò, gli altri, «di spargersi e andare / lieve e piana nel mondo, / che forse non lo sa / però la sta aspettando». L’altra è intimamente legata alla prima, in particolare a quest’ultimo auspicio del poeta: qui ritorna l‘eterno dilemma. Può la letteratura, in questo caso la poesia, aiutare veramente l’uomo a vivere meglio la propria esistenza? Possono contribuire a frenare il temuto irreversibile offuscarsi del mondo, delle umane società nelle tenebre di quell’inverno dello spirito già profetizzato dalla Yourcenar? La risposta è quasi unanimemente negativa; tuttavia, sta di fatto che da millenni, dalla classicità alla contemporaneità, accade singolarmente, se non universalmente, che un individuo, uno di noi, in un momento imprecisato, e senza una motivazione qualsiasi, diciamo pure per caso, apra un libro di poesie, che magari aveva dimenticato di possedere, e ne legga alcune, o un’opera narrativa apprezzata molti anni prima e ne rilegga alcune pagine: è probabile che ne provi una sensazione sconosciuta, che ne ricavi qualcosa che lo faccia sentire più vicino a se stesso, che lo faccia riflettere un po’ su ciò che aveva dimenticato di poter essere degno di attenzione, che lo spinga a pensieri altri, più semplicemente propri.