Jean-Charles Vegliante su Tersa morte, l’ultima raccolta poetica di Mario Benedetti. L’articolo è apparso con il titolo Une « lande imprononçable » peut-être sul sito Recours au Poème. La traduzione italiana è inedita, a cura di Jean-Charles Vegliante.
Da Pitture nere su carta (2008), da Materiali di un’identità (2010) – sia nella voce lirica, sia nella riflessione sul proprio retroterra poetico –, Mario Benedetti ci colpisce sempre meglio per una certa qualità di tenuta nella comunicazione letteraria. Diciamo: nel suo dialogismo asciutto, quasi sull’orlo del silenzio eppure in cerca costante dell’altro, interlocutore interlocutrice parente lettore fraterno e “semblable”. Espressione precisa, concisa, netta e limpida. Uno spazio-tempo letterario proprio di un “dopo disastro”, contemporaneo ad altri disastri. Il pensiero corre immediatamente a Eliot, alla terra devastata “guasta”, al mondo reso indicibile. E naturalmente anche alla lingua della poesia: pura materia di parole (4 occorrenze del lemma “parola” fra i 52 titoli dell’indice, 16 volte nell’insieme della raccolta, Tersa morte, l’ultima di Mario Benedetti), questione di segni scritti e di ritmi sobri, secchi, piuttosto che di confidenze – o di ricordi: non è qui “la storia da raccontare” che importa. E neanche si tratta di un sentimento, come in Leopardi. Nel seguito logico di Pitture nere, dove già era presente l’ombra dei genitori scomparsi – e di un plahn nascosto sulla madre –, questo nuovo libro persegue la raucedine della voce, in un discorso quasi abraso, fino alla percezione del silenzio nel suo stesso respiro, il gelo tagliente di una morte netta, di cui Benedetti sembra aver fatto l’emblema e lo stigma dell’ultima poesia ancora praticabile. Non è proibito pensare a qualche rapporto, in tono minore non stilisticamente tragico, con il più quotidiano, con il quasi familiare Celan: una cancellazione non muta (Stille), nonostante tutto.
Ma alcuni poeti non temono di esporre il proprio lavoro come se fosse una “domanda”, che permetta di andare avanti, fra temerità e pudore (per quanto costi), in faccia all’incomprensibile assoluto del nostro proprio dover morire. Mentre una maggioranza di falsi lettori “quasi quotidianamente si sentono eterni”, cercando nel testo, nel migliore dei casi, solo una consolazione, un pretesto per mettersi da parte, per preservarsi nel divertissement, per costruirsi – o per decostruire – un sistema intellettuale raffinato di protezione. Questa poesia si offre pericolosamente alla rincorsa di un tempo scomparso che forse non è mai stato se non nello sguardo di un piccolo disperso, l’Idiot Boy della sezione eponima, intento a cercare di sviare il proprio destino per “solamente bere, bere, masticare, masticare” ed è, proiettato in avanti, dunque, avrebbe detto Rimbaud, in un futuro testuale dove anche noi se vogliamo possiamo avere continuità. Poesia transitiva, porosa e laconica, aperta alle grandi correnti del nostro mondo desueto e contemporaneamente cibernetico, musicale, orale (altri testi di Benedetti sono anche cantati), intessuta di contraddizioni e di violenza, come un grande flusso di parole di cui non rimangono che frammenti improvvisamente attraversati da paesaggi lancinanti, da visi, da luoghi, “foglie tra le foglie”, e sempre una questione sola:
Come testimoniare i morti,
vivere come lo fossimo,
morire come lo siamo.
In questa atmosfera rarefatta, sembra infine che lo scrivere, seguendo una tradizione ugualmente antica, aspiri, in un certo modo, all’apprendistato della sparizione privata, non troppo indegna. Dove non manchi mai l’attenzione al male pubblico, di cui l’Italia post-moderna ha dovuto pagare un caro prezzo… Si tratta – ben inteso – di un’aspirazione laica; i poeti vicini a Mario Benedetti l’hanno spesso invocata, ciascuno alla sua maniera: già un maestro del Dolce Stil Nuovo, Guido Guinizzelli, si rallegrava con Dante di vederlo, passante nell’al di là, lui che “per morir meglio, esperienza imbarche!” (Purgatorio XXVI, v. 75). Resta da comprendere se il linguaggio permetta ancora di pensare – e poi d’articolare – una tale speranza, dopo secoli di disastri.
Perché la Waste Land attraversata qui è instabile, perfida. Necessiterebbe una lingua nuova (come si dice) priva di risonanze, d’eloquenza, ma certamente non di una voce offerta al calco di un’inutile vacuità discorsiva, oppure al puro gioco mentale. Ormai, per questa poesia che diremmo del “dopo”, bisogna partire dall’indecisione, dall’ignoranza, dall’indistinto, ove il dolore parifica tutto: i berretti di zolle di terra sollevati, i sentieri di sottobosco nei capelli, le dita rampicanti, i cespugli “farina e acqua mescolate senza mani” poiché non ci sono più mani, e la sera infine muta, quando il sole al tramonto è soltanto l’immagine d’un più grande amore-troppo-tardi (Pascoli: “come il sole: bello, ma bello come\ sole che muore”, Solon). Davanti all’enigma della sparizione degli esseri amati, di un mondo realmente significante, Benedetti ritrova il soffio silenzioso di un threnos primordiale, capace di accettare il lutto, il pathos comune, banale, ricevuto come in condivisione: una forma di dialogo, malgrado tutto, con qualsiasi lettore che legga, se fa sua almeno questa così tersa continuità ineluttabile d’un mondo ormai unico con la sua morte programmata, e le sue “mucche con i loro vitelli\ che dormono come i bambini”; fortemente agli antipodi di una certa avanguardia, non solo francese, ma dell’Europa occidentale. Poesia di corpo in presentia, di parole viventi dell’assenza del corpo, nuda ormai di orpelli filosofici, ai quali ci ha abituati la letteratura dominante da questa parte delle Alpi [in Francia]. La poesia – colei che fa ciò che dice – sembra allora ritrovarsi, poco a poco, attraverso frammenti, echi, attraverso respiri necessari. Una vitalità ultima, che rifiuta il compiacimento di qualsiasi lamento; e dell’elegia. Da qui Celan, Pascoli, Leopardi o Dante; comunità dove niente chiama, niente si oppone a chi vuole entrare a farne parte. Come l’autore, capace di sperimentare a freddo il nostro malessere di uomini e di donne, nella abiezione feroce del giardino leopardiano (ma qui, con Zanzotto, esso è anche un inerme “orto”), accettando di vedere “nuda la vita”, noi potremo forse attingere allora a quella forma di stoicismo che dichiara:
Ma io nella mia vita non ho scritto nessuna poesia,
io nella mia vita non ho letto nessuna poesia.
E questa nessuno l’ha scritta, nessuno l’ha letta.
Forse si deve proprio – una volta tanto – alzare il tono, dichiarare che questa poesia quasi “impronunciabile” va letta perché è necessaria al nostro bisogno urgente di una parola vera e vicina. Accogliere la limpida dizione di Tersa morte è anche sentirsi accolti, quindi leggibili a nostra volta, nel vasto e indifferente “ volume” di questo mondo.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).