Sei poesie da Un quaderno di radici (Feltrinelli, 2015).
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da TACCUINI IN FOGLIA
ii. UNA PREGHIERA
Reclamo che il mio peso
venga valutato in radici
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da POESIE MATERNE
iii. DUE TEMPI D’UN FILM POLACCO SULLA FIGURA DELLA MADRE
Primo tempo
Dicono che la macchina
del tempo non esista ma è falso.
Il bambino sa distinguere
il colore del blu del mare
dal colore del blu del lago
dal colore del blu del fiume.
Il bambino non ha le parole
corrette per parlare d’amore
preferisce disegnarle su un foglio,
le mani che si stringono, a croce
Secondo tempo
L’arrivo del mese di settembre
si celebra in una pioggia di foglie,
la linfa inizia a salire verso il basso,
il tramonto dell’estate uccide gli alberi.
Le madri piangono all’imbrunire,
perché sanno che la notte è lunga.
Non porta consiglio, come dicevano
gli anziani, e non porta sollievo.
Spiano i figli respirare nel sonno,
si chiedono se saranno meglio di loro
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da ARBOR, ARBORES
i. LA FORESTA D’ACQUE
Piove nel cuore
pietroso della foresta
e piove nel cuore
lento del mio tempo.
Salendo alla cima una goccia
precipita sulla pagina
del diario e si spande
a formare l’ideogramma
(PING – PACE)
Quelle acque non smettono
di corrodere la roccia.
Quelle nebbie non smettono
di rincorrersi le code.
Queste mani non smettono
di cercare il tocco della vita.
Ho guadagnato un grado
di parentela con lo stambecco
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da LA VERGOGNA E ALTRI INCIAMPI
i. I CERCHI NEL GRANO
E’ un vizio di forma,
la delusione nei rapporti
nasce da quel che coviamo:
proviamo a fare combaciare
il cerchio col cerchio,
il rettangolo pel rettangolo,
il triangolo nel triangolo.
Dapprima lo disprezziamo,
dunque lo sogniamo,
infine ci cadiamo:
il cerchio nel quadrato
e il rombo nell’ellissi.
Incastriamo fin dove ci sta.
L’amore è una parola chiusa
che cerchiamo di spalancare,
è un giorno di festa e di canti,
di tavole imbandite e di fuochi
che vorremmo l’intera settimana.
La vergogna, dicevano le nonne,
sta negli occhi di guarda
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da POESIE D’UN TEMPO
i. STUDIO SULL’ANDAMENTO DELLE ONDE SABBIOSE
Tu dici che sulle alture del Piemonte
non c’è il mare e ti spiace, d’estate
in quei giorni tutti in fila, l’uno
dentro l’altro, un bagno lo faresti,
un tuffo anche soltanto cogli occhi,
in quel modo d’abbandonarsi là
nel centro del blu, o del verde,
a seconda delle correnti che figliano,
dei desideri che t’innervano
proiettando sagome di balene e capodogli,
d’alberi maestri e vele che stracciano,
di moli e ragazzi appesi su tavole da surf.
C’è chi dice che in Piemonte esista
la più grande spiaggia del mondo,
dove generazioni di contadini
hanno picconato il suolo, maledetto
l’ostinata naturalezza della gramigna,
piantato giù manubri di materia organica,
rincalzando radici e pezzi di spago.
E’ una goccia preistorica confinata
fra i calanchi e le grotte del Roero,
i ritagli dei filari che corrono in groppa alle dune
addomesticate d’Alba, Dogliani, il Barolo.
Sono montagne russe che lambiscono Canelli,
l’Acquese, le ultime braccia dell’Ovadese.
C’è un mondo costretto a produrre
lettere Z: dolcezza, asprezza, fierezza.
A mungere il sole, a spiare le stelle,
a rastremare il vento, a selezionare poesie
dalla grana fine, figlia se non sposa del mare.
Le mani hanno cavato via spine dorsali,
costole, grandi mascelle di delfini
e balenottere del Pleistocene,
anticate dai tempi in cui le parole
fra gli uomini non avevano misura.
Dal Piemonte non vediamo il mare,
anche se piove così tanto che ci abituiamo
a vederlo in aria piuttosto che in basso.
Nei giorni di sole, giurano i vecchi,
serrando gli occhi, il vento partoriente
arriva dalla costa trascinando il suono
delle onde migranti: sono loro, le senti?
Sono loro che borbottano, le conchiglie
che rotolano, il fischio dei bambini
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vi. NON È FACILE PARLARE ALLE PIETRE
E’ venuto al mondo strappato via dal grembo
che l’ha allevato con le zampe a mollo.
Il padre porta le corna d’un bufalo e tira l’aratro
di famiglia, la madre mangia terra a colazione.
Le nuvole galleggiano nel cielo e non si fermano
mai sopra la sua casa, la pioggia scroscia un metro
prima e un metro dopo il confine del giardino,
il sole e la luna si nascondono e brillano sul mondo
intorno, le migrazioni evitano la loro precarietà.
Le voci non abbandonano il fondo delle bocche.
Tutto quel che sta nello spazio del cerchio qui
tende ad allungarsi in linee rette e spezzate.
A ora di pranzo s’avvicinano alla mangiatoia
d’un mondo passato, abbassano la testa e alzano
le dita, sussurrano un ringraziamento e siedono,
in attesa d’un segno. Non è facile parlare alle pietre.
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Immagine: Martin Stavars, dalla serie Portraits of Trees.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).