Nove testi, poesie e prose, da “Un giorno di festa”, il primo libro di poesia di Matteo Tasca, da poco uscito nella collana ‘Obtorto Collo’ di Industria & Letteratura.
SOGNO NUMERO 6
Nella casa ai monti c’è una festa, anche se non è proprio casa ai monti, la sala è molto più grande e alta, al centro c’è una scalinata sulla quale a turno si esibiscono dei cantanti. Io so che è la mia festa, anche se tendo a dimenticarlo per non sentire la sottile pressione che mi mette il sapere di essere il festeggiato, per cui faccio finta che le persone siano qui solo per divertirsi. Ci sono anche i miei parenti, un po’ in disparte verso l’entrata della grande sala, sono tutti in piedi di fronte al muro, mi avvicino a loro e per scherzare dico che sembra stiano aspettando di essere fucilati, mi sembrava una battuta simpatica anche se poi ho pensato che poteva essere fuori luogo. Qualcuno di loro ha riso timidamente, altri hanno fatto finta di niente. Seduto al tavolo c’era solo zio Gui, non mi aspettavo venisse anche lui, e poi una donna che non conosco, sulla quale a un certo punto si siede nonno Gino, che sembra tornato bambino e ride molto, è contento e si mette a fare il cavalluccio sulle gambe della sconosciuta. A un tratto vengo fulminato dall’idea che non devo sedermi anche io, che il tavolo è il posto dei morti, e per questo lì intorno c’è solo zio Gui e il nonno che si siede e si rialza, e tutti i parenti guardano tristi in quella direzione.
*
LE SEI DEL POMERIGGIO
Luce, luce come oro a valanghe
oltre la sopraelevata, pentecoste
di fuoco che scotta la vista,
tu gloria delle sei del pomeriggio
dentro il giorno cattivo sei l’esca,
la cosa buona nella trappola,
salve regina sfacelo aprile.
Il tuo splendore mi fa pensare
ai disastri autostradali, alle macchine
che investono i pedoni;
ma in te ogni cosa è calma:
una perturbazione momentanea,
e poi ancora bene, va tutto bene.
Qui non succede mai veramente qualcosa.
È già troppo questa meraviglia.
Davvero è solo questo: le sei del pomeriggio,
una luce appena primaverile, due occhi
per essere contento, una sopraelevata.
Ho il cuore pieno d’amore e non è per nessuno.
*
OLD FASHION
Stasera che non ho voglia di ballare
e guardo la festa dai divanetti
mi accorgo che stare nel mezzo mi manca
infinitamente: la musica alla testa,
i culi, la speranza del sesso, tutti
che sono bellissimi e ridono –
questo è, e a questo siamo legati
finché tornerà a bruciarci l’ansia
dolce di stare dentro la vita
e rubarle più gioia che possiamo.
Ma da qui è diverso.
Il rumore della serata somiglia
a una richiesta d’aiuto che sale
da una profondità marina e io
comincio a sentirmi leggero
come un palloncino che nessuno trattiene.
Da quassù la festa è soltanto
una cosa povera e splendente,
come la vita senza il mito della vita,
e intorno stanno i volti
rabbiosi dei palazzi, e sopra la notte
altissima e piena di sonno.
*
ESSERE LEGATI
Le coppie in silenzio al ristorante,
una certa inclinazione della luce
che fa brillare gli occhi di una donna
sul lungarno, quelli che comprano
lo stesso pigiama e si fanno le foto
col cane, mio padre che non dorme
nel letto con mia madre: queste cose
non sono diverse, hanno in loro
lo stesso mistero di oscenità e calore.
(Eppure è così che noi facciamo
quando un giorno, chissà come,
ci troviamo di fronte una cortina di luce
oltre la quale non c’è niente, e questo
felicemente, come un sorriso di cortesia,
che non significa nulla ma chiede
un sorriso in risposta, e ci dice che la vita
è lì o in nessun luogo, e minaccia
di durare per sempre)
*
SOGNO NUMERO 4
Siamo in macchina, nonno Sileno è alla guida, io sono accanto a lui, dietro c’è nonno Gino. A un certo punto nonno Gino si sporge in avanti tenendosi alle testine dei sedili e piegando i gomiti verso l’esterno, ha il viso ringiovanito. È confuso e inizia a chiedere sempre più concitato: Chi cazzo siete voi? Che cazzo volete? Nonno Gino ha qualcosa che non va, nonno Sileno si distrae e sta per uscire di strada, ma all’ultimo riesce a sterzare e rimettersi in carreggiata (siamo sulla strada del muraglione nel punto in cui scende tutta curve). Inchiodiamo in uno spiazzo, nonno Gino viene catapultato fuori dalla macchina e inizia a vomitare, e io subito insieme a lui come se avessimo la stessa gola e il vomito fosse salito da lì. Frugo nel mio vomito cercando cose solide e le mangio, ma dopo un po’ mi rendo conto che non sta bene perché sono sporche di bile e mi fermo.
*
LA CASA DI FRONTE
Oggi la casa che ho di fronte
è tutta alla luce, tutta per intero
rivolta all’esterno: non tiene per sé
neanche un angolino, quasi
non avesse più vergogna, e appare
grande come non lo è stata mai,
troppo esposta per essere
completamente visibile.
Così un sorriso raggiante,
che in un punto raccoglie sé stesso
e i sorrisi del passato e quelli
di altri, e questo non entra
in uno sguardo tutta questa umanità
come fare veramente a riceverla?
Così una piazza piena,
con le persone sedute
e qualcuno che tira una palla,
tutta una vita all’aperto
espressa in una manciata di gesti:
così abbiamo chiarito ogni malinteso
e ci siamo incontrati qui, in superficie,
dove non c’è bisogno di nascondersi.
*
Ora siamo a casa, in camera da letto di mamma e papà, nonno Gino è diventato una fetta di carne rotonda con al centro un cerchietto di osso come un occhio che guarda. Sta steso sul pavimento e mi insulta, io mi sento frustrato e non so che fare, allora inizio a calpestarlo e il pezzo di carne si conficca nel pavimento, sembra una macchia. Nonno Gino allora diventa una macchinina, continua a insultarmi e cerca di venirmi addosso, ma è molto piccolo e non riesce a procedere dritto per dritto, va avanti per poco ma poi si perde, è costretto a fare retromarcia e a cambiare spesso direzione. Io scappo perché ho paura che possa travolgermi, ma ogni tanto gli tiro un calcio che gli stacca dei pezzettini.
*
Qualche mattina ti svegli e non senti
né gioia né dolore, la giornata è una cosa
che si fa, come una costruzione semplice,
un sogno come essere disperati
o preparare il pranzo. Camminare
è camminare dentro uno o due pensieri centrali,
che qualcuno ha pensato una volta
e poi sono rimasti fuori, sono cresciuti
e ora non entrano in tutta una lingua.
E dici buongiorno fatto un bel sonno
era buono il caffè e le frasi hanno un peso
che è loro e cadono subito via dalla voce,
ora si è fatta nuda e bella come un suono
dentro una chiesa, arriva da tutte le parti
e non ha niente da dire se non
questa nostra appartenenza.
Se lo ripeti buongiorno buongiorno è già casa
dentro una notte conosciuta, senza desideri.
*
Nel sogno gli animali venivano istruiti a suicidarsi
e poi li riprendevano con i cellulari,
il mulo aveva una mazza ferrata legata al collo,
se colpiva il bersaglio la mazza
gli ricadeva sulla testa, aveva un’espressione
di stupita disperazione, non capiva perché
se eseguiva gli ordini veniva
comunque punito. In una scena successiva
un agnello corre a testa bassa contro il muro
e si fa esplodere il cranio.
Ho pensato a quelli che stanno sempre male
alla fine è sempre di voi che mi innamoro,
entrare con voi nella stanza del pianto
a giocare con quel che si può,
poter dire di nuovo vedrai che andrà meglio
insieme noi due –
e intanto il dolore si allarga
diventa un palazzo con stanze infinite
nessuna è per me.
(Vorrei essere come voi, avere un dolore grande,
una storia per rendermi alieno
quando ho voglia di essere alieno,
usarla contro gli altri come un’arma o un talismano)