di Bernardo Pacini
La pubblicazione di Poesie 1986-2014, nella collana Oscar Mondadori, contenente tutte le poesie di Umberto Fiori finora uscite più alcuni inediti, fa al caso di chi voglia recuperare, nella parabola scrittoria del poeta ligure, uno o più indizi del carattere che alla lettura risulta primario: una omogeneità del discorso, quell’armonia riconoscibile dello stile che lascia incapaci di scandalizzarsi dell’assenza, tra libro e libro, di repentini cambi di marcia o rivoluzioni linguistiche. Perché tale sembra essere la volontà autoriale: la costruzione di un’opera mondo, tramite un lavoro di intelaiatura del reale dentro un personalissimo vocabolario, o viceversa. A partire dai titoli, che, nel caso di Fiori, sono più che mai il diapason per determinare l’oggetto, il “la” della voce, l’inclinazione dello sguardo che caratterizza tutti i libri. Case, Esempi, Chiarimenti, Tutti, La Bella Vista, Voi. Parole isolate, semanticamente elementari, spesso solo impersonalissimi pronomi. Quasi tutti al plurale, come a esprimere una chiara, fulgida alterità, una partecipazione commossa col mondo, pure spietatamente nitida. I titoli sono inoltre in dialogo tra di loro: esiste, a ben vedere, una relazione consequenziale, un agglomerarsi e definirsi del senso nella successione cronologica dei titoli.
Usando un linguaggio geometrico, parliamo della poetica di Fiori come se, da un punto originale (la figura simbolica del titolo, sintetica di tutto il messaggio poetico) si allargasse un angolo (lo sguardo), le cui due direttrici divergenti (la realtà esperienziale e la parola poetica) sono unite da un segmento (il testo) tanto più lungo quanto è distante dall’origine, eppure sempre e immutabilmente capace di unire le due direttrici in divaricazione, facendo della partenza un approdo e dell’approdo una partenza, nel medesimo itinerario alla ricerca del significato, che è un orizzonte di vastità infinita.
Dovendo citare alcuni modelli letterari, potremmo individuarli all’interno della “linea lombarda”, se non altro per l’area di provenienza (il poeta vive e insegna a Milano, attualmente). Di tale linea – negli esempi di Sereni e Raboni – troviamo qualche elemento originalmente rielaborato e all’apparenza semplificato: la criptica densità del dettato poetico, l’ambientazione urbana, il tentativo di stabilire una familiarità col lettore nonostante, anzi, tramite la sparizione dell’io poetante. Dalla sua Liguria, Umberto Fiori accoglie invece maturamente la lezione di Camillo Sbarbaro (il poeta che camminava per le strade della città con gli occhi velati di lacrime per l’impossibilità di stabilire con essa un contatto armonico) e soprattutto Eugenio Montale: sintetizzando, nell’evocazione metafisica, o nell’imbattersi con la meraviglia di un’epifania, di una manifestazione inaspettata del reale, con la differenza che per Fiori lo sforzo è tutto nel cristallizzare il senso della visione, rendendolo dicibile, tramite l’atto di “dilatare, aprire e sporcare i confini del codice lirico”(1). Fra le altre influenze, troviamo delle similutidini anche con altri poeti dello sguardo piano, fortemente antinovecenteschi, quali Betocchi e Saba.
Tuttavia, Fiori non è un mero epigono. Non potremmo dire che egli sia solo il continuatore di una tradizione, perché la sua poetica si distingue per un’identità che lo pone in una posizione realmente unica e originale nella poesia contemporanea. Nell’epoca che ama definirsi post-moderna, nella quale il canone è uno spettro pericoloso, un peso di cui disfarsi o da caricarsi sulle spalle come giogo volontario, Fiori, ha scelto una lingua di “contegno”, per una poesia di contegno. È questa la parola che, forse coraggiosamente, scegliamo tra le figure lessicali più ricorrenti della sua poesia, incorrendo nel rischio di ridurne la portata: un lavoro poetico che difatti non è soltanto un addomesticamento della realtà tramite una significazione di rigore formale, destinata a stabilire un equilibrio tra il ruolo di impegno nominativo del poeta e il carattere di indicibilità del mondo che egli è portato a restituire al lettore. Pescando ancora dal circoscritto parco delle figure fondamentali di Fiori, isoliamo un altro semplice esempio: le case. La copertina dell’Oscar riporta un’opera di Marco Petrus che le raffigura. Le “care case”, le onnipresenti facciate non sono protagoniste solamente del primo libro eponimo, ma appaiono – come totem o capro espiatorio – lungo quasi tutta la produzione poetica. Si può affermare che il poeta abbia voluto affidare a questa particolare figura una sorta di valore esemplificativo (e infatti dopo vennero gli Esempi, e poi ancora i Chiarimenti), un significato che va oltre la pura immagine poetica, offerta al lettore come elaborazione di uno sguardo puramente referenziale:
Più grande di tutto è lo sguardo,
ma le case sono più grandi.
Le case eccedono il pensiero poetante, sono “altro da sé” e hanno un valore nella misura in cui dicono qualcosa del poeta. Non, viceversa, se il poeta riesce a dire qualcosa di loro. A una visione d’insieme, si ha l’impressione che Fiori abbia un grande controllo della scrittura. Che sia un supervisore oltre che un guardante, un cesellatore oltre che un cronista del reale minimo. Che ogni suggestione, ogni immagine, ogni intenzione che affiori debba passare dentro un meccanismo che sfoltisce, smussa gli angoli, illumina, e ricompone. Tutto quello che quotidianamente ci passa accanto – una persona, un animale, un panchina – se guardato bene, è talmente vicino che non può che sembrarci distante.
L’impegno della scrittura di Fiori è questo: tramite gli strumenti della poesia, tentare di far proprio quanto di più distante dal fatto conoscitivo esista: il senso o, come ha scritto in senso diametralmente opposto Maurizio Cucchi, “qualcosa che somiglia terribilmente a una sostanziale mancanza di senso (2). Il risultato è sorprendente: le poesie, specialmente le prime, sembrano scritte in absentia auctoris, eppure lasciano emergere un’impercettibile presenza del medesimo, i frutti di una determinante abilità poetica. Tale abilità, in senso sottilmente contrastivo, corrisponde a una formula che lo stesso Fiori ama ripetere: “Bisogna perdere tutte le bravure”. Fiori ha preso le distanze da quella che lui definisce la “poesia attrezzata”, ovvero quella dei tentativi che, puntando tutto sugli sforzi della tecnica, non riconoscono che “si scrive a partire da un limite”, che la parola stessa è limite, ma non flatus vocis.
La prima prassi poetica, il primo punto dell’anti-teoretica della poesia di Fiori è il puro sguardo: gettato per strada, tra le cose del mondo (e viene alla mente un altro “guardante” come Adam Zagajewski). Egli descrive gli autobus, le macchine, i marciapiedi, le piante, i parchi, le panchine, la gente impegnata, riporta i litigi tra le persone: le sue poesie sono quelle di un “parlante” muto (“Ricordami come parlo”, scrive) che calibra le parole per un segno di rispetto. Ci sono numerosi avverbi di luogo e di tempo: la funzione deittica della poesia sembra diventare assillo metodologico. È necessario collocare lo sguardo dentro l’universo, e contemporaneamente, collocare le cose ordinandole nello spazio e nel tempo tramite una voce veritiera. Si ha così questa impressione: che non esista un altro modo di dire ciò che Umberto Fiori ha descritto con le parole che, con perizia, ha scelto all’interno del linguaggio comune, della langue (le “parole italiane” che letteralmente appaiono all’altezza de La bella vista).
Il “mistero” che le strappa al loro ruolo di elementi della comunicazione verbale, trasformandole in parola poetica, sta tutto nell’approdo a una coscienza dell’“inermità della poesia”: il verso, curato nel ritmo e nella musicalità, deve tuttavia scomparire, lasciando parlare l’immagine. La parola, nel suo rivelarsi, si scopre inerme: solo significante, veicolo – di per sè irresponsabile – di senso. In un processo di questo tipo, il primo elemento a essere sacrificato è l’io poetico: in una poesia, Fiori elenca: “edera, vespe, nuvole, io, benzina”. L’io è diventato punto di un elenco. Si è ridotto a essere, a consistere come semplice elemento interno della poesia, e non in chi quella poesia l’ha fatta.
La fuoriuscita (e il graduale reintegro, diremmo, nelle ultime prove) dell’io poetico dalla poesia è, nel caso di Umberto Fiori, una questione storica di ideologia artistica e di linguaggio. Egli nasce come cantante di una band storica come gli Stormy Six. Negli anni Settanta, pur mantenendo le distanze da ogni tipo di canone musicale, essi erano parte di una corrente detta progressive rock. Le caratteristiche principali di questo genere musicale erano sostanzialmente: il complicato livello tecnico di esecuzione, la lunghezza dei brani, il rifiuto della forma-canzone. Alcune band erano dedite a una proposta musicale che, dal punto di vista dei testi, tendeva a ricercare una fuga dalla realtà: temi fantastici, surreali, di stampo letterario surreale, ma in senso deteriore. Gli Stormy Six, invece, esprimevano col progressive rock un forte impegno politico e sociale. Ascoltando un brano celebre come Stalingrado si percepisce immediatamente, nel testo e nelle musica, un contrasto formale tra il Fiori di allora e quello odierno: un linguaggio che era esuberante, impegnato, sfacciato, senza contegno. Dal punto di vista tematico, la Storia era un fattore opprimente. L’individuo, l’Io era cancellato e riposizionato dentro una visione politica e ideologica del mondo che ne tagliava fuori la più docile evidenza: da lì, l’irregolarità dei ritmi, l’enorme varietà e complessità dei suoni, i testi difficili. La poesia di Fiori, un decennio dopo, ne è l’esatto contrario.
Ricordami che oltre questo vocio
di cognomi, di insegne,
oltre questo litigio di facce e macchine
che strepitano io! io!
c’era il tuo panorama
La lingua si disarma, mostrandosi posata, regolare. Lo sguardo è piano e referenziale, vibrante di un’ansia di conoscenza che è consapevole di dover ricostruire lo sguardo dopo la distruzione, in un arco di tempo in cui mondo invece è rimasto intatto, in attesa. La Storia è presente in un’altra forma: più intimamente personale, più umana. La poesia si distingue, e non può fare altrimenti, per una tensione morale per la quale il poeta è portato a “rispondere di quello che dice”, sentendo su di sé la gravità di un nome:
da questa voce che mi vuole
e continua a chiamarmi,
imparo che cos’è
avere un nome,
trovarsi qui,
nei posti che ci reggono
e ci risparmiano.
(1) A. Afribo, Introduzione a Umberto Fiori, Poesie 1986-2014, Mondadori, Milano 2014, p. VII.
(2) M. Cucchi – S. Giovanardi, Poeti italiani del secondo novecento, Mondadori, Milano 2010, p. 1021.
Immagine: Marco Petrus, Hof Wien, olio su tela 80 x 60 – 2009.