Occhiata
Col sole, una mattina, ho visto come
la vostra forza vi ha fermato,
care case.
Voi non andate da nessuna parte.
Restate qui, a portata di mano,
ma guardate lontano,
via, laggiù, dove siete
veramente fondate.
(da Tutti, 1998)
Interpretare i propri versi è un po’ come spiegare una barzelletta. L’ho già scritto quando – anni fa – mi hanno chiesto un autocommento (a Di guardia, da Chiarimenti, per l’almanacco “Punto”, n.1, 2011): se accetto di farlo è perché sono convinto che una poesia, se davvero c’è, dovrebbe essere in grado di resistere persino alle spiegazioni di chi l’ha scritta.
Il breve testo che ho scelto è tratto dal libro che si intitola Tutti (1998) e ha al centro uno dei motivi portanti del mio lavoro: le case. L’”occhiata” del titolo è quella che dà luogo – attraverso la vista – a un’improvvisa visione. Senza volerlo, un giorno come un altro, l’io che parla, guardando “col sole” i muri che gli stanno intorno, si trova di fronte a una rivelazione: quella di una forza.
Di norma, l’idea di forza è associata al movimento, a un’energia che anima, opera, sposta, trasforma, genera e distrugge. Le case, invece, sono lì, ferme, immutabili. Ma è proprio nella loro fermezza che una forza più segreta si manifesta. Le case “non vanno da nessuna parte” (in questa osservazione, vagamente comica, il soggetto tradisce la sua puerile sprovvedutezza); non hanno progetti, appuntamenti, imprese da compiere, territori da esplorare, affari da inseguire. La loro immobilità, però, non è inerzia; ad averle fermate non è una costrizione, un limite esterno: è la loro stessa forza. Le case sono ferme perché sono forti. Hanno deciso di stare. In questo sembra nascondersi un ammaestramento (Esempi è il titolo di un libro precedente).
“Care case”, prova a chiamarle la voce che le contempla. L’accorata apostrofe dovrebbe smuoverle, se non commuoverle; le case, invece, non rispondono, non si degnano nemmeno per un attimo di ricambiare l’attenzione del loro adoratore. In questo si rivela un altro aspetto della loro natura: le case sono salde, fondate, sono lì, “a portata di mano”, ma il loro sguardo non è rivolto al suolo che sostiene loro e chi le guarda. Le case stanno nella rassicurante prossimità che ogni giorno ci regge, ma guardano “lontano, via, laggiù”. I pilastri e i plinti che le sostengono sono qui, piantati nel terreno sotto di loro, ma è in una inaccessibile lontananza che sono fondate “veramente”. La sfilata familiare di muri e di finestre che ogni giorno ci viene incontro si fa segno, rinvia a una dimensione ulteriore, oscura, distante: la terra dove affondano le vere fondamenta del nostro stare. “Col sole, una mattina”, le case la rivelano e la nascondono.
Umberto Fiori
*
Dal suo primo libro di poesia, Case (1986), all’ultima raccolta, Voi (2009), Umberto Fiori è sempre stato un attento osservatore della realtà urbana, della sua ripetizione ordinaria e anonima da cui emergono alcune presenze còlte in uno stato di oggettivazione nuda, assoluta. Sono mezzi di trasporto come l’autobus, il treno o le sagome degli abitanti di un quartiere, dei lavoratori che nelle azioni quotidiane sembrano scambiarsi le identità in un’unica moltitudine. Ma, soprattutto, sono le case. Scegliendo Occhiata come testo da commentare, Fiori indica il nodo simbolico forse più importante della sua poesia. In un’incessante osservazione sulla vita di tutti i giorni, le case sembrano sciogliere i dubbi dello sguardo («Più grande di tutti è lo sguardo, / ma le case sono più grandi»: così si apre Sguardo in Esempi, 1992), sembrano dare una risposta «forte» di fronte alla realtà che vediamo senza proteggerci o consolarci, rimandano alle «fondamenta del nostro stare». Le case sono un’apparizione in cui la tradizionale epifania lirica è portata al grado zero: non c’è niente da annunciare; anche l’invocazione dell’io – «care case» – non restituisce le agnizioni che ci potremmo aspettare pensando, ad esempio, alle correspondences di Baudelaire, ma induce a prendere atto della reale condizione delle nostre esistenze attraverso la scoperta di ciò che spesso passa inosservato, delle presenze abituali e anonime. Il linguaggio semplice, disadorno e il tono apparentemente distaccato sostengono lo sguardo che scruta ciò che è evidente cercando raggiungere i lati nascosti e tenta di trovare un senso. La paura dell’insensatezza, del vuoto rende le case anche simbolo di una condizione ulteriore nella quotidianità urbana: le case sono lo spazio del singolo e della moltitudine, sono interni intimi e caseggiati anonimi, sono il luogo di io e tutti, di io e voi. Fin dai suoi primi libri, la poesia di Fiori si è sviluppata seguendo soprattutto il tema della congiunzione tra l’individuo e la collettività. È una relazione che resta sospesa nell’anonimato della metropoli – dal realismo ambientale di Esempi fino all’ironico dialogismo straniante di Voi -, ma che si mantiene pulsante, prova a difendere dal vuoto. Il centro di questo percorso è Tutti (1998). (M.B.)
Immagine: Petrus, sequenze n° 53
“I poeti leggono se stessi” ha ospitato: Mario Benedetti, Che cos’è la solitudine (Umana gloria); Milo De Angelis, Torna antica la parola (Quell’andarsene nel buio dei cortili); Franco Buffoni, Tecniche di indagine criminale (Il profilo del Rosa).
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).