Poesie inedite di Michele Ortore.
***
I delfini
Visto da lontano sembrerà meraviglioso
le braccia larghe delle molecole di acqua
si chiuderanno come al compleanno
di un cugino di quarto grado sui fianchi
a proteggersi nell’angolo dall’essere
inadatto alle circostanze, in silenzio ai giochi
dei bambini attorno rispondi
con un sorriso mantenuto col fermaglio
e sforzi gesuitici per trovare
qualcosa di diverso dalla diversità.
Ma spesso non funziona. E quando le
molecole di acqua stringono le braccia
senza che il silenzio si scuota, dal circolo
più stretto del pianeta sale la calma liquida
del mare, sale il sale sulle caviglie ed i garretti
sui radiocomandi della festa, i calzini con Pippo
inzuppato (ma anche Paperino muore perché la civiltà
post-liberista di Paperopoli ha scalfito nel profondo
la sua memoria di anatide), sale sulle palazzine
liberty di lungomari sommersi,
sulla crosta d’amore della vecchia,
sulle certezze di sabbia:
finché la terra, respirando
quasi immensa e smisurata balena,
non ha più ghiaccio e già non lo sa,
scende nell’acqua e sbatte la coda,
non ha più gambe e già non lo sa:
ci sono i delfini a giocare
*
Le vecchie zie
Lo scafo separa il mare, da questo
lato che quasi i pesci l’assecondano,
salto accanto al taglio della schiuma
sfioro l’epitelio del mondo acquatico
con il dorso ramato sono io,
mi do all’alto per rapida visione
flash cambio di colore nel blu sotterro
di nuovo le mie branchie, il corpo.
Nel mio corpo, qui sul ponte, conservo
una sequenza di fosfati e acidi nucleici
che conservano memorie del non
esistere alternativa al nuotare,
eppure di quei colpi bianchi di fioretto
schivati senza nome e non dal viso
di un Adriatico in orgoglio, le mie
cellule non parlano, non permettono
di capire e di sentire quel groviglio
le correnti lungo il dorso, schiocco
di coda, vibrazioni ad onda bassa
l’udito, profondo. È tanto lontano
quel gradino evolutivo, che questi pesci
li costringo al simbolo perfino, già penso
all’aspetto metafisico del subacqueo,
al Dio ritratto, solo la scia poter cogliere
di un’azione nata e proseguita in altri mondi
ormai estranei, irraggiungibili se non
tuffandosi in oblio, la nave scomparire
lontano in un sorriso di ritorno.
Eppure dicono dei geni la lingua sia lunghissima,
adusi al pettegolezzo, in materia ereditaria
preparatissimi, desti a metter becco
in ogni minima questione, senza scampo
o libero arbitrio che tenga. Ma se
questo stesso starsene affacciati
fosse il loro suggerimento?
Mi giro e donna al parapetto
ha la schiena affusolata, comincia a
camminare le spalle scivolando
i quadricipiti nel ritmo oscillante
stacca con il busto inarca
lo sguardo si fa umido, boccheggia
per il caldo. Soltanto la lisca
eccede in appendici.
Le vecchie zie hanno parlato.
*
Supino
Steso supino sul tappeto ma non lo bagno perché
la fontanella dietro la mia testa al momento è CHIUSA
ritrovare il contatto con la terra qui significa
inclinare di lato il capo e accorgersi
che non tutte le posizioni sono disponibili,
lo stato di quiete è permesso soltanto se
il compasso delle vertebre va sui direi almeno
diciotto gradi, allora come in uno scivolo di potenziale
la testa accelera per due centimetri e poi con uno scatto
breve come i numeri che galoppano sul televideo
si ferma in corrispondenza di una fossetta sul [centrosinistra:
corredo anatomico del sapiens, o forse è l’espressione
fenotipica, oppure quella volta in altalena
come la biglia di settembre,
colpita piano con le nocche,
pettina il vento rotolando,
luce disfatta sulla spiaggia,
separa i grani e così avanza,
separa i grani e così avanza,
separa i grani e così avanza,
poi c’è la conca umida di sale
(un dono del secchiello della specie)
in quel cretto s’insicura
ruota in cerchio e si consuma
la traiettoria dei conversi
che sono raggi e vetro e ossa
si riposa si riposa
un piglio d’indiviso che li unisce