Proseguiamo oggi le testimonianze per Biancamaria Frabotta con un contributo di Roberto Deidier.
Per primo ti veniva incontro il suo sorriso. Un sorriso aperto, che prendeva luce dai suoi occhi chiari, il sorriso dell’accoglienza e della curiosità, se stavi per conoscerla; quello della sorpresa di rivederti, se t’imbattevi in lei per caso, inatteso. Non so quante volte ho assistito al suo saluto, al suo pronto rendersi partecipe se con me c’era qualcuno, appunto, di sconosciuto o d’inatteso. Lei era sempre permeabile, nel senso più pieno e profondo, ai contatti. Sorrideva anche con lo sguardo, quello di un’intelligenza cresciuta nell’umanità, nell’ascolto; uno sguardo mobile, vivace, che al principio sembrava non lasciasse trapelare molto della sua sapienza, come se stesse compiendo un esercizio di autodeterminazione, di lento, cauto dosaggio delle sue energie mentali e di quanto potesse esprimere attraverso quelle forze. Via via, discorrendo con lei, le parole potevano improvvisamente impennarsi e poi ridiscendere piano; era come salire su una giostra di pensieri, che potevano trascinare l’interlocutore dalle bassezze del quotidiano e della cronaca alle vertigini della politica, delle grandi questioni sociali.
Credo che per Biancamaria, per come ho potuto conoscerla, la letteratura sia stato il veicolo di quella giostra. Intendo non il virtuosismo intellettuale, che pure ha ben dimostrato nelle sue scritture, soprattutto nei versi, nelle letture critiche e in quel prezioso libretto autobiografico che è il Quartetto per masse e voce sola, il cui titolo suggerisce già tanto non solo riguardo i suoi interessi, ma anche sul modo di rapportarvisi. Intendo piuttosto una letteratura estroversa, centrifuga, che potesse illuminare le oscurità della storia e del presente; una letteratura non autoreferenziale, ma sempre aperta sui paesaggi mutevoli del contemporaneo. Lo è stata, e la scelta di occuparsi soprattutto del Novecento, e di insegnarlo, sta a testimoniarlo; ma anche quando si è affacciata su trascorsi remoti, Biancamaria ha sempre cercato, nel rispetto dei vincoli storici, qualche nodo che potesse riattualizzare opere e autori. Le sue letture di Petrarca, trasmesse alla televisione, rendevano i rovelli esistenziali di quel classico così prossimi e il garbo estremo con cui la voce ripercorreva quei temi li proiettava vorticosamente verso di noi, dall’altra parte dello schermo.
La voce, appunto, era l’altro aspetto che di lei, nell’immediato, sapeva colpirti. Calma, piana, quasi esile. Potevi scambiarla per una voce elegiaca, dimessa, ma sarebbe stato un bell’errore prospettico. Trasmetteva invece la fermezza di chi molto ha saputo addestrare il pensiero, così che potevi recepirla – stavolta cogliendo nel segno – come un suono udito sul bordo di una voragine. La calma nascondeva la profondità in cui costantemente lei si calava, confrontandosi spesso con domande che a stento avrebbero trovato risposte plausibili. Infatti poteva passare a toni più decisi, perché Biancamaria non si arrendeva, insisteva. E in quel suo non cessare di interrogarsi, e di interrogare il suo tempo, si apriva per lei lo spazio della poesia, come la dimensione ultima e necessaria in cui tentare di dare forma all’informe, di piegare il dio della lingua a donarci quell’immagine in cui finalmente rifletterci.
I ricordi si accavallano, si confondono. Quando scompare una presenza che ha significato un confronto serrato, onesto, inclusivo, ogni nostra rappresentazione interiore rischia di deformarsi e di deformare visioni che rinviano a momenti precisi, perché significativi, di quel sodalizio. Sono, per me, momenti lontani; negli ultimi anni i frequenti problemi di salute ci avevano costretto, più che a incontri, a lunghe conversazioni al telefono e a un clima di reciproca apprensione. Ma il sorriso e gli occhi di Biancamaria fanno ancora luce sui fotogrammi del passato, sull’attenzione che con grande generosità aveva voluto rivolgermi e sul mio ricambiarla, negli anni, come lettore e come interprete del suo lavoro poetico. La ricordo come correlatrice della mia tesi di laurea su Calvino, con suggerimenti che avrei sviluppato e che mi portarono verso una monografia su quell’autore; la ricordo leggera, come Proserpina, avanzare verso colleghi e matricole nei corridoi della facoltà di Lettere. Un giorno, doveva essere la metà degli anni Ottanta, aprii per caso una porta e mi trovai ad ascoltare Giorgio Caproni che leggeva in anteprima per noi studenti, invitato da lei, i versi del Conte di Kevenhüller. Biancamaria portava la grande poesia nelle aule universitarie, la rendeva prossima, viva, tangibile. Ancora, non saprei dire quando, m’imbattei in lei, prima che cominciasse la nostra lunga amicizia, nella libreria Rizzoli della galleria Colonna, che da molti anni non esiste più. Qualcuno mi aveva parlato di Luciano Erba, ed ero corso a cercare i suoi libri. Da uno scaffale trassi una vecchia copia del Nastro di Moebius; con la coda dell’occhio vidi che lei era entrata e aveva acquistato un’antologia di Apollinaire. La timidezza mi aveva impedito di accostarla. L’ultima immagine che si condensa nei ricordi è quella di padrona di casa, di ospite premurosa nella campagna di Cupi, con suo marito Brunello che suonava la tastiera, in un Natale anch’esso lontano. Una sera un cervo si avvicinò alla finestra; lo fissammo tra gioia e stupore, finché non scomparve nella nebbia.
Il suo era, insomma, il tocco della verità, della realtà. Le poesie, nella sua voce, nel suo porgerle, acquisivano una sostanza speciale, che è quella del magistero più alto: la condivisione. Le sue letture non calavano dall’alto della cattedra, ma invitavano a far parte di un mondo di cui lei era non tanto la guida, quanto l’esploratrice che si avventurava, a ogni dissertazione, come fosse la prima volta. Nel suo congedo dall’insegnamento, scelse di trattare il tema dell’eredità. Fu quella la sua ultima lezione: cosa resta, di certi autori e dei loro valori. Cosa resta di lei; a giorni so che mi arriverà il suo ultimo libro, a cui aveva lavorato spendendo tutte le energie residue, con l’entusiasmo di sempre; mi aveva parlato spesso, sempre al telefono, di come lo stava allestendo, delle poesie nuove o riscritte che andava assemblando e dell’entusiasmo dei redattori che lo avrebbero accolto. So anche che sarà bellissimo, perché il suo tracciato testimonia di un continuo crescendo, che la sua scomparsa non interrompe. Come non interrompe il fitto dialogo che ci ha accompagnato, per quasi un quarantennio ormai, nel dono incomparabile di averla incontrata.
Immagine: Ritratto di Dino Ignani.