[Due poesie in anteprima dal nuovo libro di Mario Benedetti, Tersa morte. Segue una recensione di Giorgio Meledandri.]
Quante parole non ci sono più.
Il preciso mangiare non è la minestra.
Il mare non è l’acqua dello stare qui.
Un aiuto chiederlo è troppo.
Morire e non c’è nulla vivere e non c’è nulla, mi toglie
[le parole.
E non ci sono salti, mani che insieme si tengano
alla corda, sorrisi, carezze, baci. Una landa [impronunciabile
è il letto nella casa di riposo dei morenti,
agitata, negli spasmi del sentire di vivere ancora.
In provincia di Udine, Codroipo, il malato ai due polmoni,
i pantaloni larghi, il viso con la pelle attaccata alle ossa,
il naso a punta non sono la storia da raccontare, né i [ricordi.
Arido sapere, arido sentire.
E io dico, accorgetevi, non abbiate solo vent’anni,
e una vita così come sempre da farmi solo del male.
*
Il sosia guarda, la vita ha deciso.
Vede gli ultimi giorni, si vergogna di scriverlo.
E’ avvolta nella coperta sui piedi,
il figlio senza lo stomaco mangia i pezzetti di trota
sulle scatole dello yogurt medicinale.
Giocato a carte nel bar del paese. Non visto il due.
Bevuto il caffè con la diarrea refrattaria.
E’ una storia per tutti questa morte.
Nella casa il sosia tocca le dita della madre
dicendole che il figlio è morto. Dopo la pleurite
un mese prima di compiere gli anni lei
ha detto: anch’io e la nostra casa non ci siamo più.
***
Un nuovo libro di versi che, ancora prima di essere scritto, portava con sé una scommessa fondamentale per Mario Benedetti: ritrovare una forma dopo l’esperienza delle Pitture nere su carta (Mondadori, 2008), dove la parola, già ischeletrita, si annullava in un’angoscia conoscitiva spinta fino all’«estremo del possibile» teorizzato da Bataille. Oggi che possiamo sfogliare le pagine di Tersa morte (Mondadori, 2013), sappiamo che la scommessa è stata vinta. Ma uscire dall’abisso con cui si concludeva il lavoro precedente e fare di quel luogo-limite un punto di partenza non poteva essere un’operazione indolore. Mai come in questo passaggio cruciale l’autore ha avuto davanti a sé il linguaggio in tutta la sua fragilità. Poteva richiudersi nel silenzio, rinunciare a scrivere. E invece ha deciso di mostrarci quella fragilità, di portarla alla luce.
Tersa morte si configura così come un nóstos, un ritorno alla parola proprio nel momento in cui se ne percepisce tutta la sua povertà. Come accade agli eroi greci, anche questo ritorno è costellato di lutti, difficoltà, solitudini. In particolare, ad avviare la riflessione sul modo in cui «testimoniare i morti» (p. 69) sono i lutti di due persone care: il fratello e la madre. Di fronte alla forza annichilente della loro morte, il poeta è paralizzato e non può che demandare ad un sosia, sin dalla prima pagina, il compito della scrittura. Ma il compito, oltremodo gravoso, non risulta praticabile fino in fondo: «Il sosia guarda, la vita ha deciso. / Vede gli ultimi giorni, si vergogna di scriverlo» (p. 27). Si avverte il peso insopportabile dello scollamento tra segno e referente («Il preciso mangiare non è la minestra», p. 15), dell’enorme distanza che separa una realtà perentoria da un mezzo espressivo più che mai incerto. Ecco allora che un altro lutto si aggiunge ai precedenti: il lutto della parola, uno strumento che perde legittimità, e che soltanto con enorme fatica e infinito dolore riesce ad avverare il miracolo della significazione («E piange la parola che riesce a dire», p. 33). È in tale spostamento focale che consiste l’impresa di questo libro: attraverso la morte dell’uomo, Mario Benedetti rappresenta un’altra morte e scrive un grandioso ed intenso epitaffio in memoria delle parole. Tutta l’opera non fa che rimarcare l’impotenza espressiva del soggetto, l’indicibilità delle cose, l’esaurimento del linguaggio: «Le parole hanno fatto il loro corso» (p. 14); «Quante parole non ci sono più», «Morire e non c’è nulla vivere e non c’è nulla, mi toglie le parole», «Una landa impronunciabile / è il letto nella casa di riposo dei morenti» (p. 15); «la discarica delle parole di poesie che respingono» (p. 83); «non posso / più scrivere di quelle vite, le scomparse», «Non posso scrivere di un giallo che mai riconoscerete, non leggete più» (p. 53).
Solo dentro questa cornice, nell’eco delle parole che muoiono, l’autore può mostrare altre esperienze di lutto. Tenta quindi di recuperare le immagini, i fotogrammi di chi non c’è più: una vera e propria evocazione di luoghi e di date nel corso della quale l’io lirico si diffrange in una molteplicità di soggetti, si mescola con i morti, si sovrappone agli oggetti fino a scomparire. Tra l’autore, i suoi sosia e la persona che dice «io» avviene una divaricazione e, in alcuni casi, una scissione: «Ma io nella mia vita non ho scritto nessuna poesia, / io nella mia vita non ho letto nessuna poesia. / E questa nessuno l’ha scritta, nessuno l’ha letta» (p. 23). Più in generale, un processo di compenetrazione attraversa l’intero libro: «Si diventa l’uomo o la donna che non si vede / chi sono nella propria vita, sul rilievo fisso del mare. / […] Si diventa altri occhi per morire dovunque» (p. 16). Un altro esempio: «Ora sono io a svuotare i tuoi sogni, dentro di me / ho sempre Le amiche di Michelangelo / Antonioni, dopo la scritta che dice Fine» scrive Benedetti nella sezione Madre (p. 21).
Il coraggio di Tersa morte è tutto qui, nel restare anche dopo la scritta che dice Fine, nel provare a raccontare una storia che di per sé è una conclusione, nel morire non una volta soltanto ma sempre. Il contrasto che ne deriva è lacerante: da un lato il poeta vorrebbe rivivere con gli occhi le persone scomparse, dando luogo a quella confusione tra «reale» e «vivente» che secondo Barthes è insita nell’immobilità di una fotografia; dall’altro, la vista restituisce una realtà tragica, svela l’assenza, permette di «vedere nuda la vita» (p. 43) e dunque amplifica il dolore. Dallo scontro di tali tensioni opposte si generano poesie come questa (p. 20), dedicata alla madre:
Cosa devo guardare per sentire che non è così vero,
e riuscire a spostarti nelle faccende di casa,
a risospingerti lungo le strade. E tra le righe
vicine dei capelli guardo i sentieri del sottobosco
ingiallito. E riesco a vedere i vicoli di Napoli,
gli anni Trenta, i gatti, le gonne lunghe di una ragazza.
E tu mi dici: tu lo sai che è vero, tu resta forte e sereno,
quanti giorni hai davanti! Io sono morta di lunedì,
tu sei arrivato a guardarmi, ero una cosa vestita
con l’abito blu che mi avevi regalato e tutto il ricamo
del foulard. Così tanto elegante, così tanto bello.
In una famosa scena del film Il deserto rosso di Antonioni, Giuliana (Monica Vitti) guarda fuori dalla finestra di un capanno e, fissando l’acqua del mare, dice: «Mi sembra di avere gli occhi bagnati»; poi si gira di scatto e domanda: «Ma cosa vogliono che faccia coi miei occhi? Cosa devo guardare?». Allora Corrado (Richard Harris) si volta verso di lei e le risponde: «Tu dici: cosa devo guardare. Io dico: come devo vivere? È la stessa cosa». Anche per Mario Benedetti esiste una stretta corrispondenza tra «cosa devo guardare» e «come devo vivere», coerentemente con il «sistema ottico-ontologico» (Raffaella Scarpa) che l’autore ha costruito nei suoi versi a partire da Umana gloria (Mondadori, 2004). Cosa devo guardare? «Perché vedo ancora lapidi da mettere a posto / quando non c’è più nessuno?» (p. 80). Il dubbio e l’incertezza in cui nascono domande simili permettono di capire quale dovrebbe essere lo spazio della morte, aprendo nell’opera una dimensione etica: il poeta rifonda per i vivi il luogo di dimora (l’ethos, appunto) della morte. La consapevolezza tragica di questo spazio si manifesta con un ammonimento ad essere accorti, a non avere «solo vent’anni» (p. 15); un monito rivolto soprattutto a coloro che, lontani dal silenzio del morire e sopraffatti – per usare una categoria di Michelstaedter – dalla rettorica, «cantano, / hanno faccende di cui occuparsi, / quasi quotidianamente si sentono eterni» (p. 38): rispetto a una fiducia tanto cieca e illusoria, «lettura amara è La ginestra del poeta» (p. 52).
Chi si abbandona a certezze simili, infatti, corre il rischio di diventare un idiot boy, come recita il titolo di una sezione di prose che ha per protagonista un altro sosia: Marco. La sua decisione di allungare le labbra in un bacio invece di aprire la bocca per dire che «i morti ritornano dalle fotografie, dai ricordi» (p. 58) è l’emblema di come sia facile per ognuno di noi scegliere di soffocare le proprie consapevolezze. Sotto questo aspetto, dunque, il personaggio di Marco si avvicina non solo al ragazzo totalmente incosciente, perché mentalmente menomato, di The idiot boy, il poemetto di Wordsworth a cui Benedetti si richiama, ma anche alla bambina che in We are seven, altro componimento del poeta inglese, mostra di non conoscere (o di disconoscere) la realtà della morte. Tuttavia la possibilità di smemorarsi e rifiutare tale realtà non è che momentanea: terminato l’intermezzo in prosa, arriva risolutissimo l’invito a non distrarsi, ovvero a «non eludere / la pura inconcepibile assenza» (p. 65), a non dimenticarsi che si muore. I versi assumono allora una compostezza, un’austerità che li accomuna agli epigrammi funebri dell’Antologia Palatina, e l’autore può condurci prima – attraverso la mediazione di Gottfried Benn – nell’ora dell’azzurro cupo, poi nelle ore assenti di uno scenario urbano desolato e spettrale, fino al distico conclusivo (p. 86):
È un’ora assente. Mi guardi. Si vive ancora, sì, si vive ancora.
Ma non c’è la mano da darti. Guardi gli occhi della malinconia.
Gli occhi della malinconia sono i soli che possano sapere «quanto di morte noi circonda e quanto / tocca mutarne in vita per esistere», come scriveva Pagliarani. E con quegli occhi Mario Benedetti indica le macerie dell’umanità per dirci che bisogna ricostruire tutto. Adesso tocca a noi. Mettiamo in comunicazione il mondo dei morti con quello dei vivi, riuniamoli, riportiamo tra le nostre presenze il peso dell’assenza. Il conforto nascerà da questo vuoto, contro questo vuoto. Se domani sboccerà un fiore, sarà un fiore cresciuto sull’impietrata lava di questa Tersa morte. (G.M.)
Immagine: litografia di Marino Marini (1901-1980), collezione privata.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).