E’ appena uscito, per la nuova collana “Gialla Oro” di pordenonelegge, Telepatia di Gian Mario Villalta (Lietocolle, 2016). Presentiamo alcune poesie.
***
Dreiländereck 2012
I
Oggi, che mi guardi poco
da stamattina e io sono troppo docile,
anche adesso, quando a voce bassa
tento il freddo, attento a non offendere
il vetro che protegge le domande,
siamo tornati al Trilande domenicale
perché fa bene camminare all‟aperto.
Poi l‟ossigeno, le foglie, le altre volte
che siamo stati qui. Un po‟ di sole,
che scioglie il gelo in superficie e nelle frasi
inevitabile un più acuto allarme: più scivoloso
si fa lo strato di ghiaccio sotto il sorriso.
Ma via, dove vuoi correre? Torniamo
a mettere un piede davanti all‟altro
indecisi, dove abbandona il sentiero
le bandierine e l‟incertezza, di nuovo, abbonda.
Poi farà buio. Resterà,
di questo giorno opaco come oro,
il silenzio inoltrato
in un ottobre storto, che sfinisce
ogni cedere – mi ritorce più crudo
il mio cinismo, e non mi crede.
*
II
Al posto di sosta: coda
alla cassa, cessi occupati, il lunedì che già affolla
le teste scarmigliate, le facce fiacche dell‟ultima gita
prima dello scontento
annunciato dal meteo
e dalle imprese di rating
che ci dettano il tempo libero, le visite di controllo, gli [spaventi.
Siamo italiani sloveni österreicher
qualche tedesco, siamo europei, ovvero uguali
più di ieri i capelli, le auto, gli abiti,
più di ieri dispersi nel pulviscolo
di vite che vogliono piacersi, quando troppi
sono i microfoni e ovunque voci imitano
uno che chiama il tuo nome.
……….(Da dove chiamano? Ascoltiamo
……….marcire le pietre,
……….i bambini che apprendono la vita degli animali
……….nelle nursery dei centri commerciali,
……….e il sangue che macchia il colletto
……….non è mai il tuo, dove sei, tu, che cosa credi?
……….E l‟Europa – voci, ancora voci – dissangua
……….nella guerra di banche).
***
La maturità
I
Chiazze di luce sbalzano su lame d‟acqua
tra sghembi di fabbriche e branchi di case in fuga
nel bianco e rosa degli alberi da frutto:
lasciamo il Piemonte a 286 chilometri all‟ora
– ostenta il display del vagone –
in un‟allegria grigia che sfuma: “A questa
velocità è sopportabile”, dico al signore vestito di scuro
che non ho visto salire,
silenzioso sul treno unico viaggiatore
nella postalba domenicale.
Il mio sguardo insiste sul suo tacere,
finché lo riconosco, quando, quasi distratto: “A questa
velocità, sarebbe stata sopportabile forse
anche per me”, risponde, dopo molti minuti,
Cesare Pavese, e non intende, come me, la vista
sulla campagna informe,
ma – a questa velocità! – la vita.
***
Tra mi e ti
con Andrea Zanzotto, due anni dopo
IV
No ò resòn? Ancora te me varda
e no te parla. Bianchi i déi de fora da le maneghe
de lana grossa che squasi sconde le man,
la scufièta de lana che lassa fora le recie,
banbin, sbilf, antichissimo, nume (come che te ciaménsi
mi e Cecchinel), installasiòn, adess, al Museo de [l‟itinerario
enogastronomico del prosecco, Tutelare Ologramma
dei Colli e della Marca, posse dirte qualsiasi
semerìa, che no te me risponde, come no te me à [rispondest
i ultimi bruti ani del me scontent.
E, come „lora, son sol che bon de „ver un grop in gola.
No ò resòn. Nissùn l‟à mai resòn, te me l‟à insegnà,
ma l‟invenzhion, ma el logos, ma l‟amor l‟è sta
lori a portarne qua, sul silio de sto savariàr
gnent a gnent, in gnessulògo (e adess che anca mi
me so‟ sfogà el servel, restèn ancora un fià
in silensio, fora de la memoria – là
se sta streti, ancora, par adess – in te sta sospension
de verità, fin che l‟è ora de dirte, come tute
le altre volte: “Devo andare, me toca „ndar, Andrea,
ò un bel tocon de strada prima de rivar”…
Non ho ragione? Ancora tu mi guardi
e non mi parli. Bianche le dita fuori dalle maniche
di lana grossa che quasi nascondono le mani,
la cuffietta di lana che lascia fuori le orecchie,
bambino, elfo, antichissmo, nume (come ti chiamavamo
io e Cecchinel), installazione, adesso, al Museo dell‟itinerario
enogastronomico del prosecco, Tutelare Ologramma
dei Colli e della Marca, posso dirti qualsiasi
scemenza, che tu non mi rispondi, come non mi hai mai risposto
negli ultimi brutti anni del mio scontento.
E, come allora, riesco solo a sentirmi stringere un groppo in gola.
Non ho ragione. Nessuno ha mai ragione, me l‟hai insegnato,
ma l‟invenzione, ma il logos, ma l‟amore sono stati
loro a portarci qua, sulla soglia di questo farneticare-fantasticare
niente a niente, in un nessunluogo (e adesso che anch‟io
ho sfogato la mente, restiamo ancora un poco
in silenzio, fuori dalla memoria – là
si sta stretti, ancora, per adesso – in questa sospensione
di verità, fino a quando è venuta l‟ora di dirti, come tutte
le altre volte: “Devo andare, Andrea,
ho un gran bel pezzo di strada prima di arrivare”…
***
Ingiunzioni e dilazioni
IV
E all‟improvviso siamo nel silenzio,
e il buio appena rotto sùbito si ricompone
sulla crepa di luce che ha attraversato la notte.
A volte anche la memoria è così. Adesso grosse gocce,
lente, gocce grevi sulle tende da sole
sulle auto e sulle gronde sono tracce più brevi,
si confondono con le voci
dei vicini che chiamano al riparo,
esortano a chiudere, a portare dentro.
Sono nel centro che fugge
dentro il cerchio del tempo.
Sono fermo, immaginato l‟istante
che si schiude prima
della pioggia crosciante, prima del vento
che scuote le imposte, e della grandine.
Lo so che nascere fa male. Lo so che respirare
appena nati è tremendo. E appare naturale.
Come l‟amore quando arriva e chiedi
un giorno ancora un giorno un giorno ancora.
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Se ricorderanno
I
Those who have crossed
With direct eyes, to death‟s other Kigdom
Remember us – if at all – not as lost
Violent souls, but only
As the hollow men
The stuffed men
Thomas Stearns Eliot, The Hollow Men
Vedi qui come contrapponeva T. S. Eliot
le “vite perdute e violente” (che forse erano state
o credevano ancora di essere)
agli “uomini vuoti, gli uomini impagliati” del presente,
e mi pare lo facesse con un certo rimpianto
(nel 1925!, a sette anni
dalla Grande Carneficina, a poca più distanza – una decina –
dagli inizi della Mattanza Mondiale).
Che non fossero ignari, allora,
di perdizione o violenza (nel 1925!), ipotizziamo
oggi, ma si trattasse d‟altro, e di più serio:
ciò che predice Giorgio Guglielmo
Federico Hegel, dove immagina che la Storia finirà
quando finirà il Desiderio.
Maiuscole a parte, vi fosse margine
di concordia per ciò che qui è inteso per storia
e desiderio, se ne trarrebbe che la memoria
quel giorno non s‟affannerà più a sospingere
in qualche direzione, a noi occulta, l‟incoercibile dire sì
dell‟essere, come fa ancora oggi, dando filo da torcere
alla ragione (e ad essa la sua stessa
ragione di essere) per raddrizzarne il timone.
E quando potrebbe accadere? Con altra voce, ormai,
con altro verso, occorre prevedere:
accadrà ciò, quando esplose
nel presente tutte le voglie,
l‟immediatissimo coglierle
sarà virtualmente dato
a tutti al vero indistinti e felici
i cervelli connessi, foglie
di un‟immensa foresta, con le stesse,
esposte all‟istante, radici?
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Boschetto 38
IV
Boschetto 38 lo chiamo, ma solo tra me,
il tratto d‟alberi che separa la statale
dai chilometri di monocoltura (ieri a mais e oggi a filari
di viti nane), col numero di un‟immaginaria
mappa militare, dove il posto che mi nasconde
dal mio peggiore nemico, me stesso, è la data
dell‟anno che è nata mia madre,
che mio nonno – raccontando
la guerra per attentissime ore – diceva avere sette anni
quando per lei, più di tutto per lei, doveva ritornare.
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Una scatola da scarpe
IV.
Una scatola da scarpe.
C‟è dentro la paglia finta dei pacchi di ceramiche (piatti,
portacandele, soprammobili, cose di mia madre
stipate in fondo all‟armadio).
Un fiore di campo – c‟è dentro – giallo arancione, detto
“bottone d‟oro”.
Sopra la paglia finta, appoggiato con cura.
Poi un ritaglio di rotocalco
grande: cielo azzurro, nuvole bianche.
La foto mia di sette anni.
“Come passa il tempo – ha detto
ieri mia madre – sei già in seconda elementare”,
come se lo avesse appena saputo.
Manca ancora qualcosa?
Il coltellino con la lama rotta.
Il foglietto del calendario con il numero sette
di quando? (il tempo, è questo il tempo?).
Non ci sta altro, se devo mettere al centro
il rondinino, girato su un fianco.
I buchi sul coperchio, per respirare,
non servono più, ma posso incollarci sopra
un foglio dell‟album, bianco, così la terra non entra.
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Serate memorabili
III
È una scemenza, va bene, che una giornata è bella
perché finisce, come un fiore è bello perché sfiorisce
e via dicendo, tutto questo mondo con noi dentro
fatto così, è stupido dirlo, per andarsene, come una sera
che ricorderemo: solo uno scemo spera
di farci una poesia – lo sa chiunque.
A meno che non sveli perché è vera.
O almeno, se non perché, quando succede
che ogni cosa diventa più preziosa,
quando il tempo quasi ti precede
più veloce di te nell‟abbandono,
quando le cose abbandonano te, le persone,
i sogni di quando eri giovane, senza volere
abbandonarti o che tu le abbandoni.
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Immagino, guardo, ragiono
IV
Immagino, guardo, ragiono – credimi, sono stanco i pensieri
quando viene la sera, da mesi, e per questo non esco più.
I pazienti pensieri, efficienti, fin dal risveglio, lavorano
al rammendo di me, a inseguirmi in altri dove e altri [quando,
per riportarmi dentro la data di oggi, i visi dovuti, le voci
dove ho il compito di ripetere
l‟io che devo e che gli altri si aspettano,
dove divento quell‟altro,
sconosciuto, sfibrato nell‟utile sforzo
di trattenere me stesso in sé tutto il giorno.
Capisci perché non esco, da mesi, la sera, e anche se
uscissi – capisci – con questi discorsi sfiniti
che pesano nella testa, dove vuoi che vada, dove vuoi che [resti?
***
Nel regno della ruggine
IV
Mi accade una poesia, mi porta via.
Mi accade di sfiorare con la mente
la gente che è stata qui, dove si sente
più forte il sogno che il cuore inventa,
più alta la parola che manca
al discorso della vita,
negli orti vuoti di sguardi, di ore
dove l‟età è fiorita,
dove la terra è pestata
con pazienza, con accanimento, per comprimere
erbacce, resistere al vento, e inutilmente festoni di foglie
e di fiori, chiome giovani, fantasmi del tempo protendono
la sera sulla pianura
inventata da voci, che nulla sanno, nulla possono – solo
promettere: “Aspetta, prolunga un desiderio
(lo senti il vento, che cosa dice il vento?) sulla curva
della terra”.
***
Telepatia
III
Dico che ti penso.
Penso che sia il pensiero
di te, che io invento
nella mia mente,
che sono io, cioè, a trovarti
in me stesso e a portarti in un luogo
e in un tempo, perderti di nuovo.
Ma sei tu che mi pensi, forse,
perché sei tu che vieni
e il pensiero che ti porta è già te:
quell‟io che ti pensa, può essere che sei tu
che lo crei?
So che esisto fuori di me.
Le prove? Lasciamo perdere.
Ma so che persiste
l‟irrevocabile.
Forse l‟oscuro di ciò che chiamiamo
essere è appartenere
agli altri, a molto altro (anche luoghi, date, vuoti
di noi stessi) e non sapere dove
stiamo ancora insieme, dove siamo altri, o gli stessi.
*
IV
Il pensiero di te, che ha origine
in me stesso, viene da altrove,
suppongo, e lontano, per questo mi chiama,
o è come se lo facesse,
e spesso sorprende la mente
intenta al lavoro, alla guida, a se stessa
nel riflesso che rigira il presente.
Rigira l‟origine, il pensiero,
e quando arriva ci trova già
rivoltati verso il futuro, in fuga
da noi stessi, pieni di desiderio
di essere stati: “Celeste
è questa…” …facoltà, che hanno gli umani
di rivivere rimorire
lontani, celeste…
è il colore del cielo,
a volte, quel colore inventato da noi
umani, forse da uno rimasto solo
e nel pensiero vicino all‟amore
come vicino all‟amore nessuno.
*
La figlia che dice che è felice
V
L‟ho mai detto, io, ai miei,
agli amici, agli alberi, al cielo,
anche quando davvero potevo,
a qualcuno ho mai detto: “Sono felice”?
Mia figlia lo dice, senza pudore,
senza paura che qualcuno le invidi
la felicità, senza pietà per suo padre
che la stringe in silenzio e se dice “Anch‟io”
poi deve correggere “in questo momento”.
***
Una foto di me bambino trovata a casa di mia madre
III
Per ch‟i no spero di tornar giammai
Guido Cavalcanti
Because I do not hope to turn again
Thomas Stearns Eliot
Perché non spero più di ritornare.
Né lo vorrei, e poi
tornare dove?
Ammutolire in un silenzio d‟oro
a braccia stese:
il perduto risplende
e un cielo troppo vicino vortica
semi di istanti nella mente.
E le promesse di un bene duraturo?
Tutta memoria, resto di rovine.
Tutta roba taroccata, aggiunta dopo
per rattoppare vuoti.
Ma la materia, la matrice? Il vento
che adesso passa tra i rami e scuote i fili
della corrente, accende l‟ombra,
prende forma dai contorni che deforma.
Sono come questo vento, i desideri
dove divento?
Perché non spero di tornare mai
più, prima del passato
che mi ha fatto.
Anni e mesi e giorni e ore e istanti
come strati, tessuti, aghi, altro colore
su colore, altri silenzi, e voci e quante
mani, gli sguardi, dentro e fuori
io, gli altri, tutto, modellarsi,
rimodellare, sprechi, strazi e poi ri–
cuciture, nel mio racconto, un “io”.
Ma dove vanno le nuvole, col vento,
o sono parte dello stesso, o resistenze
nel vento, resilienze, solo parte
della stessa matrice, la materia
dei desideri dove divento?
Perché io spero
per non più sperare
e più dispero
–ero, –ero, –ero.
***
Tempi d’istanti
IV
Non sarà più qui, lo stesso
qui di adesso, quando
come tremolo e vento tremando
qui tornerò, prenderò possesso
di tutto ciò che mi è stato reso,
non voluto dal tempo, e neppure da te
perverso scrivere verso a verso
dicendo “io” di me.
Immagine: Alberto Burri, Cellotex.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).