Tre paragrafi sui legami di scrittura e biografia in Umberto Piersanti.
Recuperare la s/Storia
A cavallo tra Medioevo e Rinascimento, in quella crosta di secolo fluido e difficilmente incorniciabile che va dal Quattrocento ai primi vagiti del Cinquecento, la cultura umanistica (e il sostrato filosofico leggermente precedente) iniziò a intersecarsi con la teoria dell’arte del tempo. Abbiamo degli esempi in Van Eyck, in Lorenzo Lotto, in Leonardo da Vinci, in Leonardo da Bressanone. Un’eccezione fra i tanti pittori del Quattrocento italiano, ancora legati a una visione statica dell’arte e della scienza, fu Masaccio (cfr. Annarita Angelini, Matematica e immaginazione nel Rinascimento, Milano: Editrice Bibliografica: 59-69). Il maestro fiorentino, nel dipinto San Pietro risana gli infermi, cede alla presenza ineludibile del movimento e della storia, all’importanza esclusiva del racconto, superiore persino alla Bellezza cui era stato istruito dai pittori e dagli artisti dei secoli precedenti. Scelse così che, al costo di introdurre qualche artificio, la materia simbolica, oltre la pure mimesi del reale, era necessaria a plasmare il racconto, ad esprimere l’importanza di ciò che avviene, oltre a ciò che è. Un’intuizione che, come la filosofia di Cusano, non smetterà di gridare nelle piazze, seppur incontrò al tempo qualche resistenza.
Umberto Piersanti, ugualmente, non elude il problema del simbolo, lo scarto tra rappresentazione ed espressione (come noterà Leibniz). Tutt’altro, la sua poesia e la sua prosa possono essere ricondotte proprio a una riflessione intorno al simbolo, una riflessione non esplicita ma che rimane necessario individuare. All’interno dell’opera del poeta urbinate, infatti, è possibile rinvenire il tentativo di riformulare la nozione di simbolo in modo tale da emancipare la scrittura dal rimando ad altro (dandole una parvenza realista), ma senza escluderne i caratteri dinamici che una semplice fotografia del reale non potrebbe rendere. E se non viene dichiarato esplicitamente (e forse non può essere una pratica annoverabile tra i punti focali della sua poetica), tale strategia operativa è alimentata anche da una contingenza storica che fa di Piersanti un autore rarissimo (e che, per la sua fama nell’ambiente, unica nel suo genere, sarebbe anche di interesse sociologico rilevare, per quel che riguarda il mondo della letteratura). Infatti Piersanti è un poeta espiantato dal proprio microcosmo, fatto di favole, falò, carretti, diavoli, alberi che dicono il proprio nome solo guardandoli, neve e incavi tra le montagne. Un poeta che ha saputo gestire il presente attraverso un mondo che col presente cozzava in modo determinante. Ecco che una poesia o un racconto, per quanto alieni dal facile simbolismo di matrice baudelairiana, per quanto improntati alla memoria e al racconto il più realistico possibile, acquistano un mantello di simbolo, un occhio duplice che va ben oltre il reale e sedimenta nella mente del lettore un’alterità silvestre, per un pubblico del XXI secolo quasi immaginifica.
Ecco che accanto alla storia, fa capolino la Storia e il cerchio si chiude. La propria vita diventa foce di un’epoca specificatamente localizzata a confine tra Marche e Romagna, ma che epoca rimane, e va oltre il biografismo. Un bacino tra il mare e le montagne contenente un pensiero e un modo di intendere la letteratura che pertiene a un tempo passato, ai “luoghi persi” delle sue prime prove poetiche. Piersanti, simile e diverso da Masaccio, recupera l’azione, la dinamica sodale con la vita che è l’evento, tenta di scardinarne il senso simbolico per poi ritrovarselo tra le gambe; è il prezzo da pagare per una coerenza poetica che non permette all’opera di Piersanti di aggiornarsi ma che, allo stesso tempo, non la fa scadere, non la rovina. La Storia, se è connessa alla vita di ciascuno (come la moderna storiografia sembra ricordarci) allora è anche la sua specifica storia, e dunque uno sguardo che ha da dire non solo nel presente, in quel presente che a noi, oggi, sembra lontano (l’infanzia dello scrittore), ma anche al futuro, al nostro tempo, alla nostra infanzia intellettuale.
Con infanzia intellettuale, intendo parlare di ciò che è arrivato dopo quel taglio tra la visione culturale e intellettuale della prima metà del Novecento e i nostri giorni. Se è vero che Piersanti non possa dirsi un figlio di quell’epoca, bisogna anche ammettere che le campagne di Urbino non erano ancora chiaramente improntati a una vocazione metropolitana e mitteleuropea, che sembrava coinvolgere parte del nord Italia e i paesi d’oltralpe. Al contrario, Piersanti ha guadagnato da quel leggero ritardo “sul mondo” che Urbino ebbe, seppur non culturalmente, e che fu conseguenza di un periodo (quello di Carlo Bo rettore dell’Università) in cui fu necessario rigenerare quel centro di arte e natura che fu il luogo privilegiato (ed è ancora oggi tale) di Piersanti. La nostra infanzia intellettuale, lungi dall’essere immatura o poco sofisticata, non è così permeabile a quel passato recente, a quella fessura alternativa a un mondo che accelerava e che viene raccontata ne L’uomo delle Cesane (Milano: Camunia 1994; ora Rimini: Raffaele Editore, 2014); quella rete di riconciliazione tra uomo, tempo e spazio naturale in cui la primavera inoltrata “nel mio fosso” mostrava dentro le macchie “i ciclamini, più fitti dove la terra s’intride d’acqua.” (ivi: 37).
Ecco che il tempo si raggruma, si snellisce l’area interessata, è un concentrato puntuale e chiaramente individuabile che però non sempre ci appartiene. Anzi, un elemento che davvero caratterizza l’intera opera di Piersanti sembra proprio, in linea con quanto detto riguardo all’innocenza del carattere simbolico della sua opera (innocenza, perché si tratta di una simbologia non voluta e che quindi rifugge sia la retorica che l’eccesso di molta cultura letteraria patinata); dicevo, un elemento che davvero caratterizza l’intera opera sembra essere proprio il continuo avvicinare il lettore e distanziarlo da qualcosa che gli dovrebbe essere noto e che invece non lo è. È il caso del più fortunato dei romanzi di Piersanti, L’estate dell’altro millennio (Venezia: Marsilio, 2001; ora Milano: Mursia, 2013). Qui si parla del periodo fra le due guerre mondiali e in particolare dell’estate del ’39. Una parentesi storica che viveva forse, addomesticata la tensione della Grande Guerra, una sorta di fittizia pace dei sensi, quasi come una siesta del Novecento, un secolo che di lì a poco ricadrà nell’oscurità. Uno strappo di vita caratterizzato da pochi avvenimenti, da un clima lieve, da una leggera staticità. Dovrebbe essere facile inquadrare quel periodo. Eppure, grazie al luogo della storia (Urbino e dintorni principalmente), ecco che un’epoca non problematica diventa sfuggente, a tratti quasi favolistica. Certo, si parla di un mondo che non incontrava il favore né della cultura liberale del tempo né della cultura progressista di sinistra di questi ultimi cinquant’anni. Ed era anche lontana dall’essere un paradiso luddista. Al contrario, si tratta di uno squarcio su un modo trattato dal proprio punto di vista ma mai influenzato ideologicamente dall’autore. (Questa sarà una caratteristica anche del modo di parlare della Natura nell’opera poetica di Piersanti, in cui non si idealizzerà nulla, facendo invidia alla letteratura “omeopatica” e buonista, che esalta boschi e alberi come se fossero simulacri di salvezza e grazia, tappandosi gli occhi vicino al falchetto che mangia la serpe, alle frane nei boschi e ai funghi velenosi).
Dunque un equilibrio: equilibrio tra storia personale e Storia, equilibrio tra mimesi e simbolo, equilibrio tra condivisione e distacco tra lettore e i luoghi persi della vicenda raccontata.
Nell’ultimo periodo, in particolare con Anime perse (Milano: Marcos y Marcos, 2018), la capacità realistica della poetica di Piersanti è cresciuta, probabilmente aiutata dal fatto che stavolta, oggetto dei racconti, sono storie singolari, slegate da un’epoca di cui trattare e slegate soprattutto da elementi autobiografici. Ecco che Piersanti si fa a un tempo cronista e poeta, come se bisognasse tradurre in prosa una storia che avrebbe avuto bisogno di essere accettata, nonostante la tragedie e l’efferatezza di alcuni dei personaggi; accettazione, sembra suggerirci l’intero libro, in forma di poesia, cui avrebbe seguito il perdono per i crimini e le follie raccontate in questo libro. Ma anche qui torna l’equilibrio. È necessario proprio non farne poesia, seppur smarcandosi dalla semplice cronaca, non ricercare la compiacenza dei lettori. Non si parla di eroi o di vittime, si agisce a un tempo nel politico (parlando di vita vera, condizionata chiaramente da decine e decine di fattori anche economici e sociali) e nell’impolitico, nello scarto di umanità su cui uno scrittore dovrebbe soffermarsi. Al di là del peccato e al di là del perché di quel peccato, c’è semplicemente la storia, qualcuno che vuole essere ascoltato e qualcuno che può raccontare, senza troppe riflessioni. Questo non è sinonimo di vigliaccheria, di fuga dai problemi del presente. Lo testimonia Cupo tempo gentile (Milano: Marcos y Marcos, 2012), un romanzo storico a metà tra confessione politica, saggio di storia, cronaca della Urbino occupata degli anni Sessanta, e, ovviamente, letteratura. Dunque, è evidente, non tentativo di scappare, ma complessità che a volte va separata e non trattata in modo olistico. Se in un’occasione si parla di politica (e quasi solo di questo) allora potranno esserci anche altre occasioni in cui si scelga solo la vicenda, e nient’altro.
Intermezzo
All’inizio si diceva che il compito di questo breve omaggio era quello di mostrare la coincidenza tra la poetica e l’opera di Piersanti, e la sua vita per come io ho avuto modo di entrarci. Abbiamo parlato di equilibrio, della capacità di trattare in varie sedi della sua vita (L’uomo delle Cesane) e delle vite altrui (Anime perse), non fuggendo da riflessioni politiche (Cupo tempo gentile) e da un certo impegno storiografico (come ne L’estate dell’altro millennio, di cui si ricorda la descrizione della battaglia di El Alamein).
Questo è presente anche nei dialoghi informali e di tutti giorni, in cui Piersanti si fa cantore intorno al falò, nei cenacoli tra le foglie e l’oscurità che nelle nostre esperienze diventavano bar o il lungomare sud di Civitanova, e il fuoco il fumo delle tazze calde o della teiera in cui mi faceva mettere il limone che portavano sempre su un piattino separato. Umberto è un uomo dalla voce calma e pacata, la risata leggermente sgranata e il ritmo di narratore cresciuto a Carducci e giochi illetterati fuori dalle mura, giochi per bambini che finivano anche per menarsi e che, come tutti i bambini, non hanno grande interesse per la forma. Un uomo che racconta con dolcezza e nostalgia i tempi della sua colonia, quando dovette salutare l’amico bruttino che era obbligato ad avere accanto a pranzo, mentre lui voleva mettersi vicino alla bambina che gli piaceva. Storie che riporta pubblicamente, ogni volta come se stesse inscenando un copione fisso, ogni volta ponderando le pause e abbassando il tono sempre sullo stesso punto. Un uomo che incarna la propria storia, che conosce i suoi ricordi più di quanto tanti altri non conoscano il proprio presente. Un uomo che non ha mai ceduto alle lusinghe della finzione e che ha saputo recuperare la s/Storia dandole un dettato, una dinamica riconoscibile. Così l’uomo coincide con l’autore e l’opera con la vita, poiché si è sempre trattato di vivere “per poterla raccontare”, di una trama che è il precipitato della propria biografia (e più in generale la biografia del mondo).
Campi d’ostinato amore
In una prima nota di lettura che servì da anteprima per l’ultima prova poetica di Piersanti, campo d’ostinato amore (Milano: La nave di Teseo, 2020), sostituii involontariamente nel titolo la parola “campi” con “canti”. Involontariamente le mie mani scrissero ciò che la mia mente pensava, invece di copiare ciò che i miei occhi vedevano. In questa raccolta c’è tutto Piersanti e per questo non parlerò della trilogia einaudiana, dei libri precedenti e del penultimo sforzo poetico uscito per Marcos y Marcos, Nel folto dei sentieri. Infatti è proprio in questo testo che si sintetizza, quasi fosse una summa poetica dell’autore, l’intero lavoro (in poesia e in prosa di Piersanti). I campi d’ostinato amore, non sono altro che i luoghi persi, i sentieri incartati nella nebbia e tra le piante; le vicende di resistenza e di onestà che hanno caratterizzato la gioia e i drammi della vita di Piersanti. I campi d’ostinato amore sono riflessi nelle iridi dell’uomo-poeta Piersanti, sospesi tra presente e passato, e parlano di case che non sono solo nella memoria, che non sono solo simboli, ma che sono ancora la casa dell’anima. Un poeta che ha una patria poetica, in cui la poesia finisce per riconciliarsi con la natura, non un ambiente sterilizzato, ma un ambiente reale, un microcosmo consapevole di sé e dei suoi attori, in cui la dimensione umana e naturale si compenetrano senza mai escludere dal racconto la sofferenza, e anzi rivalutandone l’importanza alla luce dell’ostinazione con cui, nonostante tutto, si continua ad amare, a ricordare, a vivere. Un grande omaggio all’ironia e alla fame di storie, così come al dramma, all’amore, alla resistenza, all’ingenuità, e alla crescita esistenziale che gli fa dire quanto “l’età dell’oro” (Campi d’ostinato amore, op. cit.: 148-149) sia fugace. Una poesia che si racconta raccontando i luoghi, come se fosse la voce di quella vita mai scissa dal proprio paesaggio, e dunque quasi fosse la voce stessa di quel paesaggio. E com’è raro trovare chi ne riporta la musica e il ritmo. Il suon di lei, di una stagione presente reduce di stagioni passate; o in altre parole, il canto maturo dei prati.