Sette poesie da Spostare l’ora di Michael Krüger (Mondadori, 2015) nella traduzione di Anna Maria Carpi (Umstellung der Zeit, Suhrkamp, Berlino, 2013).
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Passeggiata nel bosco
Nessuno ha descritto il profumo della legna
fresca di taglio così che ne possiamo fare a meno,
nessuno quel momento di quiete
quando gli uccelli cadono nel loro sonno
agitato e il brontolio degli abeti
risuona come un’eco remota di sciagura
che senza ostacoli va per il mondo
in cerca di un nuovo nome.
In altri luoghi della terra ci si chiede
se questo mondo l’abbiamo creato noi opppure
se sia stato creato per noi e da chi.
Qui nessuno che chieda. Ogni sasso è convinto
che il posto che occupa gli spetti,
e la siepe sfrangiata cresciuta con estrema lentezza
sulla radura non vuol saperne di leggi di natura.
Se ne sta qui a proprio rischio e pericolo.
Se le rimani accanto, dopo un po’
afferri il respiro degli uccelli.
Poi se ne vanno. E’ ancora poco chiaro
se volino ad Atene o a Gerusalemme,
poiché se appartieni al bosco
ti dimentichi dov’è casa tua.
Bim-bam, bim-bam, per l’ennesima volta
la campana della chiesa ci prova
a segnalare un incendio
che non si potrà spegnere.
*
Hotel Malibran, Venezia
Nella calle sotto la mia finestra
la mattina un quarto alle cinque
il macellaio saluta la fornaia
come cinquecento anni fa,
e nel cielo invisibile sopra di me
ridono i colombi
di tutte le lingue indecifrate.
“Tutto ciò che in questo mondo
ha inizio in questo mondo
ha anche la sua fine”.
Si apre una pagina
in quel grosso libro che è l’insonnia
e a occhi chiusi io leggo
come si vince il tacere del mondo.
Vane frasi
che celebrano il mendace Ciononostante
e il liso Comunque,
nessun stupore ricoperto d’oro.
Voglio sentire la storia degli inizi,
più tardi quando in battello
andiamo per la laguna
e l’acqua si divide
come se un vento discendente
irrompesse furioso
in un campo di mais.
*
Denaro russo
L’albergo c’è ancora,
le case intorno
le hanno abbattute,
i piccioni ora nidificano
in altre zone della città.
Non c’è l’acqua calda, in compenso
una luce avara,
solo i morti riescono a leggere.
Abbiamo bisogno di questo denaro.
Il ragazzo
che trasporta le nostre valigie
lo chiamano manager,
da un pezzo
non emette più fatture.
*
Lirica a programma
Niente da fare,
non possiamo a meno
di cantare la rugiada
sulle foglie lucenti dell’ulivo,
l’antica ospitalità
delle ombre, l’alfabeto
delle pietre, in su e in giù.
Il nostro scudo di Achille
è un secco pugno di terra.
Di tanto in tanto passano degli uccelli,
fringuelli dal gozzo rosso,
che ci accorciano la vita.
*
Insonne
Una porta semiaperta
in cui s’insinua la notte
per mettere ordine.
In lontananza passano dei treni,
un vagone che somiglia all’altro.
I viaggiatori dormono, nessuno nota
che uno è sceso.
Ora è qui alla mia finestra
per mutare un’anima disobbediente
in un prezioso recipiente.
Gli occorre molto calore.
Io alla storia non occorro.
Lei procede insonne inciampando
fra Kitsch e Gloria.
Ma sono io il recipiente
colmo i dubbio fino all’orlo.
E’ la lezione della notte.
*
Lenticchie a New York
……………………………….per Drenka Willen
C’è gente che di New York gode
come dell’incontro con una civiltà
che nessun viaggiatore ha ancora davvero scoperto,
che gode degli inquieti bordi del fiume
e delle strade dove si contano i soldi
con avidità monomaniacale, prima che
si dileguino per sempre nell’ombra della brama.
Godono New York perché
qui sentono di dipendere da persone
che mai hanno incontrato in vita loro.
Ora immaginate una città in cui
vivono solo dei morti, immersi in corrispondenze
perché a tutti i costi vogliono
avere un passato. I morti continuano a vivere
per dispetto. Occupano delle limousines nere
che come grossi gatti in età sognano
di salvare il silenzio che qui era una volta di casa.
2
Io invece, se penso a New York,
mi vedo davanti il piatto di lenticchie
che mi aspetta al Village in una casa
di mattoni. Come lo stolto Esaù
che per un piatto di lenticchie cedette
la progenitura a Giacobbe, io la città
la darei per le mille lenticchie di Drenka,
prodotto serbo, lucidato all’ortodossa,
[come da cinquemil’anni.
*
Instanbul revisited
………………………………per Sezer Duru
Dopo trent’anni sono tornato a trovare
le carpe nella cisterna di Istanbul.
Allora sul Bosforo c’era una patroliera in fiamme
che aveva nome “Indipendenta”.
Come una tartaruga rugginosa boccheggiava,
cercava aria per animare il fuoco,
e dei giovani soldati anatolici erano intenti
coi fucili a tiro rapido
a disperdere il fumo nero
che gravava sulla città e ci toglieva la voce.
Vedo ancora quei grovigli di cavi
sopra le strade, punteggiati di cornacchie
che su mandato del servizio segreto
captavano le dicerie sui prezzi della carne di montone,
sull’amore e il lavoro in Germania.
Il gufo annuciava le ore dalle torri di Afrasiab
e il ragno tesseva i tendaggi nel palazzo dei cesari.
Adesso ho rivisto anche le carpe nella cisterna
di Istanbul, è da Giustiniano che danno informazioni
sul destino dell’impero.
Con la passione degli animali pesanti trainano
la malinconia sopra i sassi muscosi,
le mie antiche sorelle che sanno tutto
ma non agiscono e nemmeno alzano gli occhi
quando una moneta europea le colpisce.
Alcune posano, tristi e buie, come intarsi
sul fondo e leggono rimuginando
la historia arcana dell’avvento dei barbari.
Ciò che le salva è la mancanza di luce.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).