Da “Sonetti e specchi a Orfeo” (da R. M. Rilke) di Luciano Mazziotta, da poco uscito per Valigie Rosse Poesia, pubblichiamo la nota di Paolo Maccari e tre sonetti e i rispettivi testi-commento.
Una possessione, un omaggio viscerale, un deferente tradimento, un’ossessiva variazione di color perso: verrebbe da definire in termini siffatti, o in altri ancora, il rapporto che Luciano Mazziotta ha instaurato in questo libro con i “Sonetti a Orfeo” di Rilke (opera di cui ricorre quest’anno il centenario), e, in generale, il significato del corpo a corpo tra il grande modello e il suo ambiguo interprete-continuatore. Ma sarebbero tutte, comunque, etichette di comodo, tali da restituire solo in parte il senso suggestivo di una scrittura originalissima.
Per fortuna è Mazziotta stesso, nelle pagine della postfazione ironicamente fedeli al modello delle famose cinque W (qui, per coerenza con l’illustre ‘coautore’, declinate in tedesco e non nell’inglese scolastico a cui siamo abituati), a rendere ragione dei suoi “Sonetti e specchi a Orfeo”, dell’idea o del demone che presiedono alla loro composizione. Grazie a quelle pagine il lettore apprenderà minutamente i moventi, i tempi, le autorizzazioni teoriche e psicologiche, finanche le difficoltà e i dubbi di un’elaborazione estrema ed estremistica.
Ne citiamo, a scopi meramente descrittivi, alcuni passi: chiunque sfogli il libro “prima di leggerlo, potrebbe avere l’impressione che si tratti di una traduzione di ventisette “Sonetti a Orfeo”, situati sulla pagina sinistra, accompagnati, sulla pagina destra, da una sorta di commento. La prima impressione inganna. Se, in effetti, ho operato una cernita, sottraendo gli altri ventotto dei cinquantacinque testi che compongono il libro di Rilke, non posso arrogarmi il diritto di definire traduzioni quelle dei sonetti selezionati. Non sono traduzioni, né tantomeno traduzioni d’autore. Non sono neppure riscritture, né ancor meno parodie. Adotterei in questo caso una formula suggeritami da una vera traduttrice quale Giusi Drago che, a proposito della mia appropriazione, ha parlato di “Traduzioni incoerenti”; e ancora, riguardo alla “pagina destra”: “Come i ventisette sonetti incoerenti, ventisette sono gli specchi. Di nuovo è necessaria la negazione: non sono commenti. Sono delle ekphraseis, in prosa, di cui Rilke è un suggeritore. Le prose, gli specchi, speculano, per l’appunto, talvolta sulla traduzione incoerente stessa, talvolta riflettono idee filosofiche e di metapoetica, talvolta approfondiscono elementi autobiografici (…), in un unicum stilistico e narrativo”.
Da questi righi risulta evidente che l’operazione compiuta da Mazziotta è ben altro rispetto a una traduzione e commento dell’opera rilkiana. Invece di scomparire per spirito di servizio, qui il traduttore lo è a tal punto da tradurre e antologizzare in termini violentemente soggettivi e strumentali il suo autore, impastando le parole solenni dell’originale tedesco con una rovente urgenza interpretativa. Mentre le prose della “pagina destra” documentano l’incunearsi della voce e della lezione orfica dell’originale dentro le modalità di contatto che l’autore tenta con la realtà; per comprenderla, per trascenderla in un discorso, dettagliato e oscuro, capace di alludere alle incertezze del nostro presente così come alle frange più dolenti e autentiche della psiche.
Paolo Maccari
***
I
Lì sbucò un albero. E fu il primo passo nell’oltre.
E Orfeo canta. È un albero trafitto nell’orecchio.
Quindi silenzio. E silenzio. E in quel silenzio
daccapo un inizio, un indizio, la metamorfosi.
Poi ombre di bestie lasciarono il bosco di luce
lo spazio spianato di tane e cespugli,
allora fu sempre più chiaro che non per tramare,
né per paura dicevano calmati al cuore,
ma per ascoltare. Ruggiti, urla, fracasso
mutarono in piccoli battiti. E dove prima
c’era una casa di legno a riceverli,
un covo segreto di istinti nascosti,
con porte d’accesso che scricchiolano
lì, nell’ascolto, piantasti il tuo tempio per tutti.
1.I
Descriviti l’occhio. Col tratto leggero dell’indice percorrine
l’orbita qui in questo specchio deposto nell’unico spiazzo
del bosco spoglio di tane e cespugli. Le bestie spaesate
gli ruotano attorno e non ti riguardano, né le contempla
l’immagine dove premendo sul vetro il riflesso non lacrima.
L’ occhio descriverlo qui, è ciò che se serve impedisce di
chiuderlo. Sbarra le palpebre, scosta le ciglia – quindi silenzio
e silenzio e le bestie spaesate si accorgono – scopri radici che
assediano l’iride: al centro sbuca la forma di un albero, sbuca
e respinge l’attrito dell’aria a distinguere il campo che vede
da quello che è visto. Tutto si unisce due volte e sconfina. E
l’albero ascende, trafigge la retina e quindi silenzio e silenzio
e buio non fatto all’ascolto. Orfeo non ci scalda col suono
dal freddo ricordo di ciò che sarà, non dal deserto. Quindi
descrivilo l’occhio, il globo che puoi constatare e spezza il
legame col tempo, senza guardare che questo allo specchio,
che qui, dove ciò che si compie ti basta. Le bestie spaesate
che migrano non ti riguardano e l’occhio allo specchio è
un cerchio composto, il nero in cui se ti inerpichi affondi
nel nero più saldo dell’occhio di un altro. Descrivi anche
questo, violando le leggi autoimposte di non descrivere
altro che il tuo, neppure questi occhi concentrici e sali sul
bordo dell’epoca. Col tratto leggero dell’indice percorri la
cima dell’albero qui, in questo specchio dove rifletti e risali
all’origine. Sali, e salendo, poi guardati l’occhio. Sprofonda.
*
III
A un dio è concesso, un uomo non può, però, dimmelo,
seguirlo con l’esile lira se il suo intelletto è dissidio
e se all’incrocio tra le due arterie del cuore
non c’è nessun tempio ad Apollo.
Canto, come ci insegni, non è desiderio,
e neppure impugnare qualcosa infine e ancora raggiunto.
È esistere il canto. Facile gioco per dio.
Ma noi se esistiamo esistiamo senza sapere
quando la terra e le stelle coesistono in noi.
Non succede, ragazzo, se ami. E se anche la voce
ti spalanca di colpo la bocca – tu impara:
dimentica che un tempo hai cantato. È un canto già perso.
In verità il canto è un altro sospiro. Un vento.
È un soffio di spettri. Il canto: è un sospiro sul niente.
1.III
Non siamo all’altezza di un atto del genere, scendere fino
all’abisso senza fondale sul quale si impianta il pilastro
del mondo e poi risalire da vivi per dirne una minima
scaglia. Perché siamo tragici. Orfeo lo può e se è dio, è
dio per farci sentire da meno. Possiamo dargli la mano,
seguirlo di un tratto, e a metà strada staccare la stretta –
tornare più vuoti, sagome storpie prive di fiato e di frasi.
L’alto e il basso convivono in un’esistenza completa che ha
facoltà di parola, benché non tutto sa dire né quello che si
era proposto di dire all’inizio del viaggio. Noi non siamo
all’altezza di scendere senza paura lontani dal nostro
mediocre che allevia il timore di ampiezze. E la città
recintata consola, è il posto in cui il tempo è mancante
e più sempre mancato, come se avesse bisogno di pieno
che noi ci sforziamo a colmare coi passi in avanti, che
sono, invece, un ruotare su sé. In questo Orfeo ci somiglia,
seppure il suo movimento sia in verticale e il nostro sulla
pianura crepata di soffi di vento dai quali prendere il largo.
Ma siamo incastrati. E un alito gelido su questo restare
nel mezzo infierisce e ci schiaccia: costringe al confronto
tra noi e chi può, solo perché si conosca la perdita.
*
XVI
Tu, amico mio, sei solo, per questo…
Noi con parole e cenni di dita
ci impossessiamo poco per volta del mondo
forse della sua parte mancante la più dolorosa.
Nessuno addita con dita un odore.
Le senti le forze, però, le molte
che ci minacciarono, li sai tu i defunti,
la temi, inoltre, la formula magica.
Vedi, adesso è tempo di unire a fatica
lavoro incompiuto e frammenti, come fossero il Tutto.
Sarà faticoso aiutarti. Ma soprattutto: nel tuo
petto non mi piantare ché crescerei troppo in fretta.
Eppure la mano del mio Signore la voglio guidare e a lui
voglio dire:
Qui. Questo è Esaù nella sua scorza.
1.XVI
Orfeo, amico mio, muore spesso e anche oggi è colpevole
di non sopportare lo sforzo di esistere. Non difendiamolo
se tanto rinasce accresciuto di vita sempre col dubbio
sia sempre sul punto di andarsene verso una morte sua
propria più estranea per tutti. Non difendiamolo se il suo
attorcigliarsi è simile al nostro fissare nel fondo che cosa
accadrebbe se fosse successo quello che deve accadere
di necessità. Ora uno strato di ghiaccio ricopre i gradini
che avremmo dovuto scalare in possesso di ciò che non
può che mancarci. Orfeo, amico mio, non è pazzo, ma è
solo che deve fare da sempre da solo la scelta sbagliata e
non sa sostenere lo sguardo di chi in controluce lo crede
innocente di continuare a fallire a prescindere ovunque. E
un padre demente gli lacera il fiato, e un altro gli insegna
a sparire come se fosse un’ennesima prova per noi che
aspettiamo la resa dell’atto finale. Non difendiamolo
perché non esiste né muore, se è qui pur fingendo non
esserci stato, se oggi è il gemello colpevole di sopravvivere
ai suoi stessi prodigi che lo costringono ancora nel mondo
del doppio. Non risparmiamolo oggi nel tempo del gelo.
Oggi, se gela, infieriamo anche noi.