di Lorenzo Babini
Pubblicato nella primavera del 1976 per i Quaderni della Fenice di Guanda, allora diretti da Giovanni Raboni, Somiglianze, libro d’esordio di Milo De Angelis, si è rivelato uno dei testi poetici più letti e influenti degli ultimi decenni, dimostrando un’inesausta vitalità. Consacrato da due edizioni successive[1] e da un interesse costante e continuativo da parte delle nuove generazioni, Somiglianze si è imposto come opera paradigmatica di una temperie culturale ed esistenziale riconducibile agli anni Settanta: l’espressione disarticolata dell’inquietudine e della solitudine esistenziale delle generazioni post-sessantottine, dell’individualismo e dello spaesamento di un ragazzo alla disperata ricerca di un’identità, di un’«idea centrale» (per riprendere il titolo di una celebre poesia contenuta nella raccolta). Nel panorama letterario di quegli anni l’esordio di De Angelis, divenuto presto figura guida per tutto coloro che sentivano il bisogno di una rifondazione del discorso poetico, rappresentò una forte e matura emancipazione dalle direttive allora dominanti: mi riferisco in particolare all’universo neoavanguardista, all’impostazione marxista e alle nuove teorie strutturaliste.
Numerose e diverse sono state le definizioni che, di volta in volta, sono state attribuite dalla critica a un’opera tanto complessa e multiforme: libro delle gioia, canzoniere amoroso, romanzo di formazione, canto dell’adolescenza. Eppure Somiglianze è tutto questo e molto altro insieme: una raccolta che percorre molteplici spunti e insegue tante direzioni, un libro di poesia difficile, che tende alla dispersione e alla disorganicità, quindi alla contraddizione, difficilmente comprensibile in un unico discorso. Vorrei provare ad affrontare alcuni aspetti significativi commentando tre poesie tratte da diversi luoghi della raccolta e non legate tra loro da un rapporto di stretta continuità.
Questi sintetici contributi, tolti da un lavoro molto più ampio rimasto inedito[2], sono il tentativo di diradare quell’oscurità semantica che a molti è dovuta sembrare un muro invalicabile, il segno di una volontà autoriale che avrebbe scommesso tutto sull’impenetrabilità del dettato poetico. Con gli strumenti della filologia, dell’analisi stilistica e della comparatistica (oltre a un dialogo fitto e continuativo con l’autore), è stato infatti possibile recuperare e rintracciare una volontà comunicativa evidente e svelare significati rimasti preclusi al lettore comune.
***
Largo pomeridiano
Ora che le canoe attraversano il fiume
movimenti
nel sole festivo, mentre lo sguardo
si chiude sulle ragioni
dove questa morte non è solo svanire
ma insieme, un poco, esserci
alla periferia della gioia
che si apre, reca l’offerta
leggera al brillare di una goccia
ed è escluso il commento
quando le rive al mattino
portano la loro forza
messaggera di un nome, in ascolto,
e traducono la volontà del corpo, la carezza imminente
guardare……vivendo……qui
la stagione intatta
che ha un tempo per durare
ma spinge più in là
non fruga nelle macerie e chiede
una scrittura inosservata.
Componimento costituito da quattro strofe di cui una di un solo verso (v. 15) e sviluppato su un unico e lungo periodo grammaticale stirato fino a perdere coerenza (come capita spesso in Somiglianze, per via di un debole e scarno uso della punteggiatura, compensato da una ripartizione in versi che tende ad assumerne le funzioni) e che sembra trovare il suo culmine nella strofa minima, formata da tre vocaboli giustapposti, come in sospensione: «guardare vivendo qui». Sono queste le tre parole chiave dell’intero componimento, a cui segue un’ultima strofa con funzione di epilogo, che traduce l’esperienza di estasi e di pace delle strofe precedenti in una piccola e sintetica dichiarazione di poetica.
Approfondendo il significato di quelle che, anche per via della loro disposizione tipografica sulla pagina, abbiamo definito come tre parole chiave, e ponendole in relazione all’intero componimento, interpretiamo: il ‘guardare’ come contemplazione non speculativa («lo sguardo ǀ si chiude sulle ragioni», vv. 3-4; «è escluso il commento», v. 10) del paesaggio terso evocato nella prima strofa, che ricorda le ambientazioni in cui il filosofo indiano Jiddu Krishnamurti collocava i propri dialoghi; il ‘vivendo’ come accettazione gioiosa e partecipe del miracolo dell’esistenza, dell’«esserci» (vv. 6-7); mentre il ‘qui’, che potrebbe ricondursi come complemento di luogo al verbo precedente, sottolinea il carattere immanente dell’estasi e della pace esperita, come a rimarcarne la veridicità.
In linea con l’insegnamento di Krishnamurti, la gioia che lentamente «si apre, reca l’offerta» (v. 8) è raggiunta tramite svuotamento da sé di tutte le speculazioni, attività intellettuali e condizionamenti esterni che impediscono la libera felicità dell’individuo: «La mente meditativa è vedere – osservare, ascoltare, senza la parola, senza commento, senza opinione – tutto il giorno attentamente il movimento della vita in ogni suo rapporto»[3].
A questo necessario sacrificare ogni pensiero per raggiungere la pace interiore, De Angelis dà qui il nome di ‘morte’, come a rimarcarne la difficoltà: «dove questa morte non è solo svanire» (v. 5).
Una volta raggiunto lo stato meditativo e gioioso, sta al poeta porsi «in ascolto» (v. 13, da cui il titolo della prima sezione di Somiglianze): le parole, per miracolosa grazia, vengono dettate da una «forza ǀ messaggera di un nome» (vv. 12-13). Per questo la scrittura non è concepita come uno sforzo che deve compiere il poeta, «non può essere cercata»[4], non è un frugare tra le macerie (v. 19), cioè un assemblare materiali di riuso dalla tradizione. Una «scrittura inosservata» è una scrittura che non si compiace di se stessa, perché è «un farsi inconsapevole»[5], la trascrizione di un dettato misterioso di cui il poeta non ne è che il copista.
*
La somiglianza
Era
nelle borgate, camminando in fretta
quell’assolutamente
oltre
che dai libri usciva nella storia
radendo le bancarelle, d’estate.
Domanderemo perdono
per avere tentato, nello stadio,
chiedendogli di lanciare un giavellotto
perché ritornasse l’infanzia.
Non si poteva
ma la somiglianza era noi
nell’immagine di un altro, ravvicinato, nel sole
volevamo trattenere il nostro senso
verso lui
in un gesto da rivivere: chi poteva sancire
che tutto fosse al di qua?
Prese la rincorsa, tese il braccio
Tra le poesie più celebri di De Angelis, La somiglianza è da annoverarsi tra le fondamentali della raccolta: da qui è infatti tratto il titolo complessivo dell’opera.
Il componimento si fonda sulla rappresentazione di un gesto atletico, il lancio del giavellotto, che, nella sua esecuzione, assume i connotati di un rito sacro, mimesi di un evento mitico fondatore: «la scienza atletica è fondata sulla ripetizione di un unico gesto originario. Ogni volta quel gesto rivive in chi lo compie e si azzera in se stesso riassumendo un percorso millenario»[6].
Compiere il gesto significa, in una regressione atemporale, recuperare la dimensione dell’infanzia (v. 10) e, con questa, «quell’assolutamente ǀ oltre» (vv. 3-4) che si situa fuori dalla storia. Infatti, come ha scritto Pavese, autore fondamentale nella formazione di De Angelis: «I luoghi dell’infanzia ritornano nella memoria a ciascuno consacrati nello stesso modo; in essi accaddero cose che li han fatti unici […]. Questa unicità del luogo è parte, del resto, di quella generale unità del gesto e del fatto, assoluti e quindi simbolici, che costituisce il mito»[7].
In uno stadio sportivo che immaginiamo come un teatro greco, gli spettatori (in prima persona plurale) sono completamenti immersi nella rappresentazione del lancio, con lo sguardo proiettato e fisso verso l’attore-atleta, fino alla più completa identificazione (somiglianza che è corrispondenza) in lui, che diventa tutt’uno con il suo atto (vv. 12-16). Si noti come, in una prima redazione del testo[8], l’atleta fosse identificato in una figura femminile (varianti ai vv. 9 e 15), poi divenuta maschile per evitare ogni suggerimento erotico e focalizzarsi sul gesto atletico in senso assoluto.
Questa rappresentazione sportiva e rituale sembra però fallire e i partecipanti rimangono in un ineludibile al di qua, impossibile da trascendere: «Domanderemo perdono ǀ per avere tentato» (vv.7-8), «Non si poteva» (v. 11), «chi poteva sancire ǀ che tutto fosse al di qua?» (vv. 16-17).
L’impossibilità di raggiungere una trascendenza era stata rilevata già da Bàrberi Squarotti in un saggio acutissimo che accompagnava la prima importante pubblicazione su rivista del giovane De Angelis, riferendosi a La somiglianza nei termini di uno «stupendo apologo […] nel quale tutto l’accanimento definitorio e raziocinante si traduce perfettamente nel segno e nella figura dell’atleta che lancia il giavellotto verso l’improbabile eppure trepidamente desiderato “altrove”, tanto più problematico quanto più il gesto si approssima, sta per compiersi»[9].
L’ultimo verso della poesia, isolato dal resto del componimento, rappresenta l’imprevedibile annuncio di un vitalismo ferreo che si oppone alla più facile e suggestiva cultura del nulla espressa, come sconsolato referto, nei versi precedenti. Il gesto si ripete contro ogni logica e previsione, come un dovere esistenziale o, meglio, come fede in un impossibile evento miracoloso, che è anche una fede senza spiegazioni nella parola poetica: «Prese la rincorsa, tese il braccio …» (v. 18).
*
Guido, la tua ritrovata è barocca
Sarebbe già meglio, se credi, dimenticare
che in via Garigliano …
e potrebbe aiutarti la voglia
di farmi vedere due film allo Zara se credi. Cosa stai
lì: ne è passato di tempo per te
e ce n’è stato di tempo che passa … per me …
Anche a me, senti, una volta: era dicembre
di tre secoli fa e c’era la pioggia che gela e un amico
proprio qui mi ha lasciata sola.
Guido, ti amo un po’ anch’io
(ma sono già vecchia, già molto
e ho vent’anni del milleseicento)
ti amo ed è strano ben strano c’è freddo
c’è freddo su via Garigliano c’è freddo c’è pioggia c’è [freddo
andiamo allo Zara.
Poesia composta tra il 1969 e il 1970 (quest’ultima data è segnata su un primo testimone dattiloscritto) che trae ispirazione dalla lettura scolastica de I Colloqui di Guido Gozzano. I due personaggi coinvolti nella scena sono infatti identificabili nelle figure del celebre poeta (Guido) e della misteriosa risorta («la tua ritrovata») protagonista delle poesie Una risorta e Un’altra risorta. Di queste poesie dialogate di Gozzano De Angelis ripropone la situazione (l’incontro tra il poeta, rassegnato a una vita squallida e dimessa, e il fantasma di una vecchia e immaginaria compagna con cui sembra rinnovarsi l’amore), aggiungendo particolari che la rendono più surreale e metafisica e inserendola in un contesto urbano ben definito: di fronte al vecchio cinema Zara, in via Garigliano a Milano.
Diversamente da quanto accade nelle due poesie di riferimento, la voce dell’io lirico coincide qui totalmente con quella della «ritrovata», che si rivolge al poeta chiamandolo Guido (come accade in Una risolta) e che, dopo avergli dichiarato il suo amore (vv. 10 e 13), lo invita al cinema. Ma De Angelis provvede anche, sviluppando uno spunto presente in Un’altra risolta (in cui si dice che la figura femminile aveva quarant’anni ma «ella appariva giovenile e fresca ǀ come una deità settecentesca») a creare un cortocircuito temporale tra il XVII secolo e il tempo presente: la durata dei secoli e gli avvenimenti del passato si collocano simultaneamente in un ‘qui e ora’ che li riassume e li ripropone. Già dai primi versi (vv. 1-2, 7-9) si capisce infatti come ciò che viene raccontato, l’incontro e poi il congedo dei due personaggi, appartenga già al vissuto e alla memoria di entrambi. Quella che si svolge sulla scena è quindi la ripetizione di un evento già accaduto che si ripresenta continuamente, a partire da quell’età barocca da cui proviene la ragazza. Ma la sovrapposizione tra passato e presente è evidente soprattutto dalla coincidenza del dettaglio ambientale della pioggia e del freddo: «c’era la pioggia che gela» (v. 8), «c’è freddo c’è pioggia c’è freddo» (v. 14).
Se questo testo molto giovanile, per la sua atmosfera surreale e fantastica, debitrice del realismo magico d’inizio novecento, rimane un unicum nella produzione poetica dell’autore (a parte qualche passo de La corsa dei mantelli che lo riprende), già anticipa l’idea di un tempo circolare, di un’eterna ripetizione degli eventi, dell’incontro continuo con ciò che è accaduto e continuamente riaccade che caratterizzerà una raccolta molto più tarda come Biografia Sommaria (1999).
[1] Somiglianze, Guanda, Parma 1990 (2° edizione riveduta); Poesie, Mondadori, Milano 2008.
[2] “Somiglianze” di Milo De Angelis. Edizione critica e commentata.
[3] J. KRISHNAMURTI, La sola rivoluzione, Astrolabio-Ubaldini, Roma 1973, p. 17.
[4] J. Krishnamurti, ibi, p. 31.
[5] M. DE ANGELIS, La gioia di Hegel, «Altri termini», n.s., nn. 9/10, febbraio 1976, p. 29.
[6] E. AFFINATI, Patto giurato: la poesia di Milo De Angelis, Tracce, Pescara 1996, p. 50.
[7] C.PAVESE, Il mestiere di vivere, Einaudi, Torino 1952, ora Ibi, edizione condotta sull’autografo, Einaudi, Torino 2000, p. 257.
[8] Attestata dai due testimoni: «Almanacco dello Specchio», n. 4, Mondadori, Milano 1975; Il pubblico della poesia, a c. di A. Berardinelli e F. Cordelli, Lerici, Cosenza 1975.
[9] G. BÀRBERI SQUAROTTI, Introduzione a L’idea centrale, in «Almanacco dello Specchio», n. 4, Mondadori, Milano 1975, p. 375.