di Giovanna Frene
Ho impiegato tre giorni per rileggere l’opera completa di Gabriele Galloni, come ho impiegato tre giorni per trovare la forza di mettermi di fronte a questo poeta ragazzo e amico, morto improvvisamente, e scrivere qualche parola in ricordo, pervasa dallo sgomento per la sua perdita inaspettata e insieme accompagnata dalla luce ctonia della sua parola poetica, che nella mia mente andava continuamente a illuminare il suo corpo, tanto che a un certo punto la sua poesia e il suo corpo si andavano presentificando a vicenda, creando una corrente energetica spesso eccedente. Ho anche pensato che solo un poeta come Gabriele Galloni avrebbe potuto sostenere questo dolore senza abbassare lo sguardo, solo lui avrebbe saputo parlare bene con i morti, quell’ultima sponda prima dell’informità definitiva, e oltrepassarla. Perché non vi è dubbio che abbiamo perduto un vero poeta – ma prima di tutto è morto un ragazzo, e i ragazzi non dovrebbero mai morire. Il corpus già consistente della sua produzione, dalle raccolte Slittamenti (2017), In che luce cadranno (2018), Creatura breve (2018) e L’estate del mondo (2019), fino al libro di racconti Sonno giapponese (2019), va a configurarsi come un unico libro, certo con un progresso stilistico interno, ma con una coesione simbolica che solo una costante tensione dell’ispirazione può dare. E sono presenti, squadernati con impressionante naturalezza, tutti i segni della poesia: la commistione tra vita e arte, la visionarietà dello sguardo, la perfetta fusione di classicità e manierismo, l’elemento selenitico e il suo rovescio solare, la morte come extrema ratio della vita, lo sgretolamento di ogni certezza percettiva della realtà, la dimensione elegiaca filtrata da quella vitalistica, il portato onirico-ipnotico, il tema dell’infanzia e quello amoroso, l’assoluta giustezza e necessità del verso, un impressionante e già digerito retroterra di riferimenti letterari; e in più, il dialogo costante con le immagini riprodotte tecnologicamente, specialmente quelle cinematografiche. La poesia di Gabriele Galloni si pone come vera e propria porta a metà tra il mondo superno e quello infero, tra la terra dove Persefone torna portando l’estate (parola di Galloni per eccellenza) e l’Ade dove essa risiede durante l’inverno; e in quanto tale, questa poesia mantiene costantemente un doppio sguardo, la memoria o sovrimpressione di un mondo nell’altro, e viceversa, spesso con l’effetto di spaesamento tipico della diplopia. È lo stesso modo obliquo che aveva Leopardi di guardare la morte, solo che mentre in Leopardi di essa si coglievano i riverberi come in uno specchio, in Galloni c’è l’inaudito tentativo di incarnarla nella presenza, percepita, dei morti, quella soglia formale bifronte che guarda assieme alla vita e alla morte, appunto: “E saremo l’Immagine dell’uomo. / Non la creatura breve, ma la traccia.” (Pro verbis #4, da Creatura breve). In questo senso, tutta la poesia di Gabriele Galloni è “pornografica”, completamente patente, nel senso che mette sotto una luce accecante la realtà, e insieme completamente ctonia, sepolta, inconscia, perché di questa realtà non può che rivelare la superficie e far solo percepire la profondità nera, proprio come si legge in un passo del quinto racconto di Sonno giapponese: “Però la casa è di vetro. Sarà sempre di vetro. Domani la luce potrebbe essere più forte; domani è il primo giorno d’estate. E la notte sarà più luminosa. (…) Una estate di terrore. Stringiamoci. Resta così.” Fermati ora, poeta ragazzo, resta così, con noi.
Da “Creatura Breve“
Fabula
Volle provare la dissoluzione
della carne. Provarla con coscienza.
Rendersi terra fertile, ma senza
morire; vivo senza soluzione.
*
Pro Verbis #2
Su questa terra secca che si sbriciola
a ogni minima impronta di passaggio
vivente; a dirci che un nuovo passaggio
(sia pure lontanissimo) è possibile.
*
Pro Verbis #3
Rompi la roccia e ne uscirà dell’acqua.
Potrai berla, pensare un ritorno
alla materia dell’ultimo giorno.
La cosa che ti anticipa e ti chiude.
*
Fabula
Sognò intera la Rosa dei Beati.
Era l’insieme di tutti gli oggetti
(lampade, guanti, lame, scendiletti)
che ci portiamo dietro da una vita
e che dimentichiamo puntualmente
lungo la strada; in discesa o in salita.
*
Pro Verbis #5
È questo:
che il mondo
diventa le cose.
Le tante perdute.
*
Fabula
Solo la terra deve farsi terra –
così spogliamo il corpo di ogni cosa.
Cuciamo i tagli, ripuliamo il viso
dal seme. Raccogliamo i pezzi sparsi
per il salone; li bruciamo insieme
tutti per il falò di fine maggio.
**
Da “In che luce cadranno”
I morti tentano di consolarci
ma il loro tentativo è incomprensibile:
sono i lapsus, gli inciampi, l’indicibile
della conversazione. Sanno amarci
con una mano – e l’altra all’Invisibile.
*
Ho conosciuto un uomo che leggeva
la mano ai morti. Preferiva quelli
sotto i vent’anni; tutte le domeniche
nell’obitorio prediceva loro
le coordinate per un’altra vita.
*
Ai morti si assottiglia il naso.
Quando li sogni se lo coprono. È normale
vederli a volto coperto passare
dal corridoio al bagno alla cucina.
*
I morti – loro, l’ultima
didascalia del mondo
conosciuto – in colloquio
fitto tra un buio di falò e la resina
delle pinete a mare.
*
I morti cagano, pisciano come
i vivi. Solamente che faticano
a rispondere a tutte le domande
che gli vengono fatte. Preferiscono
ricordarsi di un nome,
scomporlo in sillabe, accorgersi che è il loro.
*
Lecito chiedersi come resuscitino
i morti e quale voce verrà data loro in dono.
E quale lingua e che corpo.
I morti hanno la febbre. Non è tempo.
*
Ci basterebbe credere a una riva;
a una luce che vada scomparendo
dietro gli scogli; o che un morto riviva,
che si perda tornando.
*
La pornografia dei morti
è un vuoto di finestra, un passo
tra la veranda e il giardino.
È quello che noi sogniamo tutto il pomeriggio.
*
La musica dei morti è il contrappunto
dei passi sulla terra.
**
Da “L’estate del mondo”
Arrivasti alla storia della Luna:
di come capitò che la scoprissi
nella sua casa una notte di eclissi;
nella sua casa dove mai a nessuna
viva persona era dato di accedere.
La descrivesti nuda, la tua Luna;
la descrivesti coperta di cenere
dal capo ai piedi; Luna che più Venere
sembrava e penitente. Non avresti
potuto dirmi certa la paura;
né sotto i piedi l’umido e le tenere
felci; solo che ai giorni del Miracolo
è bello correre, andarsene via
da ogni luce che sia
troppo grande per queste nostre mani.
*
Me ne vado; ma tu sei lontananza
che ritorna. L’eternità felice
del tuo viso indagato controluce –
dalla Magliana vecchia alla mia stanza.
*
È stato questo: svegliarsi da un sogno
e realizzarne attonito la luce.
I bambini, giù in strada, a fare il bagno
nelle pozzanghere come piscine.
Un sogno dell’estate; delle
stanze serene dove, perdonato
finalmente da te, assolvo le stelle.
*
Ma l’ultima parola sulla Luna
spettò al più piccolo di noi, che disse:
la Luna è questa duna senza attesa
di mare; è l’autostrada che da Piana
del Sole porta fuori le città
di tutto il mondo.
*
Era in sogno una porta che si apriva
sul mare; e tu dicevi “vieni, è sera.”
*
Di nuovo è questo, l’estate. Trovarsi
in case grandi come il nostro sonno.
Radunare ogni notte i sassi sparsi
per il giardino; disporli in tre file
mimando i pini la spiaggia la Luna.
*
Ricordaci – come ricordi l’ultima
…..stanza della tua casa al mare, in fondo
…..al corridoio e piccola così
…..da contenere a malapena un letto.
…..Sarà il tempo per noi sempre più stretto
…..rifugio.
*
Noi dormiamo raccolti nell’estate.
Ha smesso già di svegliarci il rumore
del mondo. I nostri piedi sono nudi,
scoperti, ché il lenzuolo è troppo corto.
Il nostro sonno è come una corrente
di risacca; per ore non riusciamo
a svegliarci. Trascorre la mattina
in una luce, una luce che è febbre
da fondale marino; sia destino
guardare tutta la vita da qui.
Sia destino arrivare al pomeriggio
sul filo che divide e l’acqua e l’aria;
e insieme farli in due passi questi anni.
*
Non sai più dire quando torneremo.
Noi siamo adesso le ultime creature,
siamo cresciuti – e in fondo è stata breve
questa vacanza al di là della terra.
*
È in questa vita un’altra vita nuova
e in questo corpo un altro corpo ancora.
Mi segui fino al bagnasciuga e indietro; affiora
a pelo d’acqua una bottiglia vuota.
È notte, ma la spiaggia è affollatissima;
così che mi è difficile ascoltarti.
Raggiungiamo le dune. C’è un sentiero
dietro il canneto; porta
alla vecchia fabbrica di sapone.
La luce dei falò qui non arriva –
e nemmeno una voce.
Ho tredici anni. E della voce adesso
saprò tutto quello che c’è da sapere; da fare.
Ché in questa vita è un’altra vita nuova
e in ogni corpo un altro corpo ancora.
Gabriele Galloni, poeta, nato a Roma il 9/6/1995, è morto improvvisamente il 6/9/2020. Ha pubblicato quattro libri di poesia: Slittamenti (Augh! 2017, con nota introduttiva di Antonio Veneziani), In che luce cadranno (RP 2018, con una nota introduttiva di Antonio Bux), Creatura breve (Ensemble, 2018) e L’estate del mondo (Marco Saya 2019); ha pubblicato la raccolta di racconti Sonno giapponese (Italic Pequod 2019). È stato co-direttore di «Inverso – Giornale di poesia» e autore e ideatore, per la rivista «Pangea», della rubrica “Cronache dalla Fine”.
Immagine: Foto di Dino Ignani.