Sweeney astray è una rielaborazione, in poesia e in prosa narrativa di una leggenda irlandese medievale, Buile Suibhne, che Seamus Heaney pubblica nel 1983. La traduzione italiana, Sweeney smarrito, a cura di Marco Sonzogni, è uscita da poco per Archinto (2019). Ripportiamo un estratto.
La stagione del raccolto volgeva alla fine e Sweeney udì un richiamo di caccia da una brigata ai margini del bosco.
– Deve essere il clamore degli Ui Faolain che vengono ad ammazzarmi, disse. Ho ucciso il loro re a Moira e questa schiera è in cerca di vendetta.
Udì bramire il cervo e compose una poesia in cui lodava ad alta voce tutti gli alberi d’Irlanda, e ripercorreva alcune delle sue avversità e dei suoi dolori, dicendo:
D’un tratto un belare
e un bramire nella valle!
Il cerbiatto timoroso
come un musico impaurito
fa vibrare le corde del mio cuore
con acuti ritornelli nostalgici –
cervi sui miei monti perduti
si riversano sulla pianura.
La quercia folta e frondosa
è l’albero più alto del bosco,
i getti biforcuti del nocciòlo
nascondono dolci nocciole.
L’ontano è il mio tesoro,
tutto senza spine nella forra,
un po’ di latte di umana dolcezza
scorre nella sua linfa.
Il pruno è un cesto frastagliato
punteggiato di prugnole nere;
il verde crescione fa da tetto alle sorgenti
dove va a bere il merlo.
Dolcissime tra gli steli frondosi,
le vecce si spargono lungo il sentiero;
la spartina è la mia gioia,
e anche la fragola selvatica.
Bassi folti di meli
fanno cadere frutti scuotendoli;
bacche scarlatte coagulano come sangue
sul sorbo selvatico.
I rovi s’arricciano di lato,
inarcano una schiena spinosa,
fanno sanguinare e s’incurvano innocenti
per tendere un nuovo agguato.
L’albero del tasso in ogni cimitero
avvolge la notte nel suo scuro cappuccio.
L’edera è un ombroso
genio del bosco.
L’agrifoglio alza il suo frangivento,
una porta in faccia all’inverno;
sangue vitale su un’asta di lancia
scurisce la venatura del frassino.
La betulla, liscia e benedetta,
deliziosa nella brezza,
alti rami la intrecciano e incoronano
regina degli alberi.
Il pioppo impallidisce
e sussurra, esita:
migliaia di codini spaventati
corrono tra le sue foglie.
Ma ciò che m’inquieta di più
nel bosco frondoso
è il continuo avanti e indietro
di un pollone di quercia.
Ronan fu disonorato,
suonò la sua campana di chierico:
il mio impeto e il mio oltraggio
causarono maledizione e miracolo.
E la corazza del nobile Congal,
la sua tunica orlata d’oro,
mi avvolsero di tragica gloria:
un presagio in ogni piega.
La sua bella tunica mi marchiò
nel mezzo della disfatta,
l’armata inseguiva e gridava:
– Quello con la veste dorata!
Addosso! Prendetelo vivo o morto,
ogni uomo lo attacchi!
Sventratelo e squartatelo, infilzatelo
e impalatelo: nessuno vi biasimerà.
Gli uomini a cavallo continuarono
a seguire per tutto il Nord del Down,
la mia schiena schivava agilmente
ogni sibilante giavellotto.
Quasi che un lanciere
m’avesse scagliato, volavo alto:
il mio volo un sussurro nell’aria,
brezza che sfiora l’edera.
Raggiunsi il cerbiatto sgomento,
tenni il suo passo lesto,
l’abbrancai, lo cavalcai leggero –
da vetta a vetta saltammo,
monte dopo monte,
aerea forsennata baldoria
da Inishowen verso sud,
più a sud, fino a Galtee.
Da Galtee a Liffey
fui trascinato via e poi guidato
nella fredda luce del crepuscolo
sino ai pendii di Benn Bulben.
Fu quella la prima notte
della mia lunga veglia inquieta:
l’ultima notte di riposo
alla vigilia del certame di Congal.
Poi Glen Bolcain diventò il mio covo,
la mia patria e la mia tana;
ho scalato quelle falde fino a consumarle
sotto la luna e le stelle.
Non cambierei un rifugio solitario
in quella valle amica
con un regno di brughiera
su un monte color ruggine.
Il baleno dell’acqua com’erba fradicia,
il vento così penetrante,
l’alta veronica, il crescione
del verde più verde.
Amo il fusto antico dell’edera,
il salice dalle pallide fronde
il sibilo melodico della betulla,
il tasso solenne.
E tu, Lynchseachan, travestiti
pure, ricorri all’inganno;
vieni mascherato, avvolto nel mantello
della notte: non mi catturerai.
Ci hai provato la prima volta
con la lunga litania dei morti:
padre, madre, figlia, figlio,
moglie e fratello – mentivi,
ma se ancora vuoi dire la tua
stai bene all’erta,
preparati ai picchi e ai dirupi
del Mourne se vuoi seguirmi.
Vivrei felice
in un cespuglio d’edera
alto dentro un albero contorto
e mai uscirei.
Ma le allodole levandosi
nel loro alto spazio
mi fan precipitare
e saltellare sui ceppi di brughiera
e la mia foga
snida la tortora.
La supero,
sfreccia il mio piumaggio,
mi sorprende poi
la beccaccia sorpresa
o un merlo all’improvviso
garrulo.
Pensa ai miei timori,
al mio atterraggio
dove la volpe ancora
rode le ossa,
la mia folle corsa
mentre il lupo dal bosco
carica famelico
e io mi arrampico sulla montagna,
eco di volpi che guaiolano
giù nella valle
e lupi alle mie spalle
che ululano e sbranano –
le lingue emanano vapore,
il passo controllato
si dilegua come un incubo
ai piedi del pendio.
Se me la do a gambe
mi azzoppa il rimorso.
Sono una pecora
senza ovile,
che dorme il suo sonno profondo
nel vecchio albero a Kilnoo
e torna in sogno ai bei giorni
con Congal ad Antrim.
Un ghiaccio stellato scenderà
gocciolando sugli specchi d’acqua
e io sarò smarrito
su alture senza riparo:
il richiamo degli aironi
nella fredda Glenelly,
stormi d’uccelli che vanno
e vengono veloci.
Preferisco la rapsodia
sfuggente dei merli
al ciarlare garrulo
di uomini e donne.
Preferisco lo squittio dei tassi
nella loro tana
al dàlli dàlli
nella caccia mattutina.
Preferisco il riecheggiante
bramire di un cervo
tra i picchi
a quel corno arrogante.
Quei liberi corridori
di valle in valle!
Nessuno doma
quel sangue reale,
ciascuno appartato
sulla propria legittima vetta,
con corna ramificate, vigile.
Immaginali,
il cervo dell’alta Slieve Felim,
il cervo delle scoscese Fews,
il cervo di Duhallow, il cervo di Orrery,
il fiero cervo di Killarney.
Il cervo di Islandmagee, il cervo di Larne,
il cervo di Moylinny,
il cervo di Cooley, il cervo di Cunghill,
il cervo del Burren dai due picchi.
La madre di questo branco
è vecchia e grigia,
i cervi che la seguono
sono ramosi e forcuti.
Sarei al riparo nel grigio
rifugio della sua testa,
mi poserei tra i suoi
palchi intricati
e mi adagerei in
questa selva di corna
sul cervo che mi lancia
un verso sopra la forra.
Io sono Sweeney, il piagnone,
fuggiasco nella valle.
Ma chiamami, invece,
Cranio a punta, Testa di cervo.
Le fonti che sempre ho amato
erano quella di Dunmall
e la polla di Knocklayde,
che sapeva di puro e fresco.
Per sempre mendicante,
logoro, gramo, cencioso;
issato sulle montagne,
sentinella rugosa e intirizzita,
non ho giaciglio né rifugio
né un posto al sole –
neanche in questo riparo
rosseggiante di alte felci.
Il mio unico riposo: eterno
sonno su suolo consacrato
quando la terra di Moling verserà
un balsamo scuro sulla mia ferita.
Ma ora quel brusco belare,
quel bramire nella valle!
Sono un cervo pauroso
bersagliato da Ronan Finn.
“Questo lavoro di lettura, traduzione e riscrittura – condotto sulle tre edizioni principali della versione di Heaney (1983, 1984, 1992) e sull’edizione bilingue della versione di O’Keeffe (1913) – è il frutto di una folle e felice collaborazione, favorita dall’alternarsi di parti e personaggi che scandiscono la storia di Buile Suibhne e da testi ad essa direttamente o indirettamente legati e tradotti in inglese da Heaney. Come in un film, do quindi conto del contributo di coloro che hanno trovato tempo e spazio per accogliere il mio invito in ordine di apparizione: Albino Zanacco (The First Gloss); Maria Grazia Calandrone (Clocán binn); Alessandro Fo (Fil duine); Teresa Travaglia (Is aire charaim Doire); Fabiano Alborghetti (Int én gaires asin tshail); Andrea De Alberti (Dom-fharcai fidbaide fál); Viola Di Grado (Messe ocus Pangur bán); Maddalena Lotter (Fil súil nglais); Flavio Santi (Int én bec); Valentina Gambioli (Is aicher in gaeth in-nocht, Note e ringraziamenti); Enrico Terrinoni (An Lon Dubh Báite); Fabrizio Ferreri (Int én bec); Lucia Brandoli (Introduzione, 43); Giovanna Iorio (1-5, 12-13,15, 17-18, 20, 22); Claudio Pasi (6-11); Maria Borio (16,38-39); Mariadonata Villa (24, 26, 28, 35-37, 41, 44, 46-50); Antiniska Pozzi (30-33, 55); Angela Teatino (51, 53, 57, 59-60, 62-66); Domenico Iannaco (68, 70, 74, 76-81); Alberto Fraccacreta (71, 75, 85); Marcella Zanetti (84; 86-87); Leonardo Guzzo, che dopo avere prestato la propria voce all’Enea di Heaney (Eneide, libro VI, Il Ponte del Sale, 2018) si è fatto interprete anche del suo Sweeney, tenendo un occhio all’uomo-uccello in aria e l’altro alle persone a terra (1-87); Tiziana Cera Rosco (Sweeney Redivivus).” Marco Sonzogni