Quattro poesie da Sasso, carta e forbici di Antonio Bux (Avagliano editore, 2018).
Cose di mare
I
Il mare, vedi com’è calmo,
com’è vasto nel suo finire altrove.
È un’onda che si perseguita e che resiste.
Esiste ben due volte. Ora vedi senza calma,
ora vedi senza fine, le sue dimensioni
sono ciò che è tuo per sempre.
Ma tutta questa calma, dove lo porterà,
dove la sua risacca sconfina e avviene?
Forse nella profondità di un’anima
che è sola e irraggiungibile, ed è dovunque.
Sì, c’è un’anima sola per sempre ma che è di tutti.
E da sola spegne il mare, è da sola che lo avvera,
sempre da sola poi lo muove e ce lo mostra vivo.
Ma sarebbe l’anima, o del reale, il reale dell’invisibile
che è stare qui, a disegnare il mare, anche se dorme?
Dorme qui da sempre un mare che si dice d’anima.
Dorme profondamente e si risveglia solo se scrive
con la mano calma, profonda come ad essere da sola,
quando da sola se ne osserva il mare, senza futuro.
E tu lo vedi il futuro, come un mare asciutto dentro.
Lo vedi visitare in sogno, una marea che si protegge
arrivando, una marea che è più grande in cielo.
Perciò il cielo sta osservando, se scrivi e sogni ora,
come nelle acque, chissà eterne, e questo mare
di profilo che si illude d’acqua.
Ma tu vedi com’è calmo stare qui, da soli e eterni
ad inventare altrove un mare vissuto interno.
Vedi anche com’è invisibile, com’è che forma ossa
carne e mente o, a volte, anche un pensiero.
Vedi come visibile respinge e chiama
il pensiero che si è anima da sempre, questo pensare
che si è qui come sta qui il mare; per pensare
due volte di esistere noi uguale, come parti insieme
ad osservare il cielo com’è che si avvicina al vero.
Ma è solo solitudine, è solo un mare bagnato
che non bagna, se non la sua metà di vita.
È la solitudine di come un’anima si attracchi
alla sua riva e non protegga che un pensiero
sopravvissuto al vento e alla mano arresa.
Così ora senza calma, e domani con la calma,
si distenderà qui l’acqua, come anche di vita
forse, e un cielo a metà diviso farà
respirare bene, farà stare il sottosuolo in pace.
*
La neve e lo yeti
In questa casa, neve che sarà sempre,
e sarà solo amore, i volti coperti,
la brina sottile quando si prepara
da mangiare, e al tavolo siamo candele
un po’ luce e un po’ spente,
io sono l’unico che parla, il freddo
mio iberna la voce dalla televisione;
è un’eco questa famiglia, si resta
tutti intorno allo yeti, negli echi,
col solo rumore dei piatti, domani
cosa mangiamo? Neve che sarà
sempre, morbida sottile bianca,
anche quando fa estate, e le zanzare
succhiano il sangue dello yeti,
restiamo in casa, vediamo se muore.
Potremmo tornare a guardarci
come palle di fuoco potremmo chiarire
le ombre di nostro padre o le buche
che la mamma ha scavato;
prenderemmo per davvero le foto,
stropicciandole tra le mani
vedremmo sparire lo yeti alle spalle,
e dentro i diari le sue impronte
non più neve, ma fiore invernale.
Neve che non saremo a Settembre,
né a Maggio; ed io guarderò
lo scrivere di mio fratello a tre anni,
questa volta giocherò con lui,
e vedrò mia sorella come una culla,
o mia madre sfiorata dal vetro;
oggi non me ne starò dietro
lo yeti, dentro la sua neve; aspetto
così primavera la casa, e l’orma,
la pioggia sana che ci ricrea.
*
In due
Siamo in due a conoscere il sole
qui, in due ad avere coscienza.
E ci splende dietro, ci ridisegna
di nuovo, avanti un tempo
tutto intero – ma per essere soli –
per dire di noi ancora la terra,
(questa terra che siamo in due,
così come la notte implora,
di essere due anche nel buio;
perché è sempre più buio
pure di giorno, quando il sole
ci divide a metà, è notte sempre
e non siamo più due, io e dio,
ma un bimbo che guarda lo specchio).
Ed è in questo specchio
che io sono due, io che di dio
ho il ricordo, qui splendo per intero
e scorro come il buio il giorno
dentro una realtà, di nuovo,
come stare per sempre dall’altra
parte dei vivi, e lo specchio invisibile.
(Ma anche così siamo due, anche dio
è così che ha creato, non il mondo
ma l’esistenza, e che sia chiara
e profonda, e più buia di parole,
ha creato così uno il due, e la vita,
qui dove siamo in due e nessuno
più visibile mentre scrive l’amore).
*
Forbici
I
Il gioco era chiedere, dire montagne,
fare onde coi passi, chiari sulle acque
– e le onde respingevano future –
ma fate disegni calmi, diceva la scuola,
più calmi disegnate le onde: così uno
diventava bambino, con l’acqua
sporca, come il corpo addosso,
con la poca acqua caduta dai sogni
che ora è corpo e cenere, o fuoco,
o è corpo che si chiede esistere,
o resistere se è gioco quel sasso
a tirare, o a esser tirato, e creare
un disegno per bucare e dire carta,
o per tagliare con le forbici
a mani piene, pietre immaginarie.
(E questo gioco era montagne
alte, immaginarie erano vite
così piene che si era bambini
da soli, a disegnare le onde).
Non che sia abitare questo
prima di vivere, non che sia
più gioco o vanità la foresta
che si placa con gli anni, o uno
a sé davanti che gioca, e perde,
o solo si trova schierato.
Immagine: Maurizio Russo, La porta del mare, 1993.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).