A quasi vent’anni dalla prima edizione (Mondadori, Milano 2001), la Lietocolle pubblica nella collana Gialla Oro “Ritorno a Planaval” di Stefano Dal Bianco, con una postfazione di Raffaella Scarpa, uno scritto di poetica dell’autore e un saggio di Fernando Marchiori. Presentiamo un estratto dalla postfazione e una selezione di poesie.
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Se quando si sente ripetere una cosa troppe volte “viene voglia di mettersi da un altro punto di osservazione” (Due generi della rappresentazione, 1986) e se l’intenzione di questo scritto è ridiscutere i cliché e le espressioni rituali, presento a seguire i cardini concettuali sui quali poggia l’interpretazione di Ritorno a Planaval provando se non una confutazione almeno altre congetture:
RIDUZIONISMO AUTOBIOGRAFICO. A partire dalla definizione di Pier Vincenzo Mengaldo di “diario o diario spezzato” presente nel risvolto a sua firma del volume e, congiuntamente, per la quota di referenzialità dei testi della raccolta quanto a nomi, toponimi, scenari, ambienti, oggetti, fatti e accadimenti palesemente appartenenti alla vita dell’autore, Planaval viene ragionevolmente letto come un testo dalla fortissima matrice autobiografica, una sorta di cronaca intima ristrutturata in versi (lo stesso autore usa il termine “diario” in alcuni testi per definire il libro). La relazione complessa che lega biografia e poesia non viene però mai decriptata dagli esegeti, tanto da lasciar implicitamente intendere: 1) che esista un rapporto lineare e naturale tra vita e scrittura: 2) che tra esperienza vissuta e trascrizione poetica non sussistano trasmutazioni, camere di decompressione, passaggi di stato se non quello generato dallo stile; 3) che si debba dare per non problematica la relazione di identità tra io biografico e io lirico. Se soltanto ci si ponesse la candida quanto necessaria domanda “che cos’è la poesia?” – seppur rispondendo nel solo modo possibile, ovvero per “fantasie di avvicinamento”, come ebbe a dire Zanzotto – nessuna di queste tre condizioni apparirebbe neppure lontanamente plausibile.
Quella di Ritorno a Planaval – e più in generale tutta l’opera di Stefano Dal Bianco – è invece una poesia che intrattiene con l’esperienza biografica uno dei rapporti più complessi e meno pacificati che la letteratura contemporanea possa annoverare, e questo per questioni che hanno a che fare proprio con quelle tre condizioni sulle quali la critica ha negligentemente planato, contribuendo a un equivoco che pesa su un’intera ‘famiglia’ di poeti più o meno accomunati da una sorta di inverosimile autobiografismo naïf.
In primo luogo da considerare è l’atteggiamento nei riguardi dell’esistenza, sintetizzabile nel rapporto tra vita e scrittura. Come è piuttosto evidente, buona parte della poesia lirica italiana, sino ai suoi apici novecenteschi che corrispondono al nome di Eugenio Montale, ha ratificato e nobilitato un rapporto con la vita che potremmo definire deviato, dimidiato e parassitario: vivo quel tanto che basta per poterne scrivere (la celebre percentuale espressa nel “vissi al 5 per cento” in Per finire del Diario del ‘71 e del ‘72); vivo alle spalle della vita in contumacia, usandola – approfittandomene – per derivarne, come personale tornaconto, la scrittura, l’opera (esemplare la descrizione del processo nell’ultima parte del Sonetto dell’amoroso e del parassita di Andrea Zanzotto). Tradizionalmente quindi esiste una postura poetica per la quale l’esperienza va attraversata senza compromissioni e soltanto ‘a scopo di lucro’ alla quale Dal Bianco fermamente si oppone: se riconosce che “la scrittura poetica nasce sempre e solo da una disposizione o proiezione interiore, da una postura interna che fa sì che tutto ciò che viviamo venga filtrato da una intenzione trasfigurante” (così in un suo saggio su Leopardi), se ammette che “la vita è il serbatoio della scrittura” (in Lo stile classico, 1993), a sé stesso chiede un atteggiamento per così dire ‘anticapitalistico’: un rapporto con la vita che saboti quella regola del ‘profitto perpetuo’ così consustanziata all’essere poeta. La chiave operativa di questo impegno – che è appunto un impegno, non una disposizione congenita – sta tutto nella fatica (che diventerà non a caso una delle parole-totem di Prove di libertà) di istituire tra vita e poesia un rapporto contronatura, in virtù del quale l’una sappia dimenticarsi dell’altra e viceversa mettendo in scacco le protettive e produttive logiche di interesse che generalmente subordinano la prima alla seconda, i cordoni sanitari difensivi ed escludenti del ‘noli me tangere’, le paratie di una esposizione personale sempre parziale, a responsabilità limitata, e tutta quella serie di salvaguardie che di massima fanno parte dello statuto ontologico, psichico ed esistenziale dell’essere poeta. Questa la condotta per guadagnarsi quella libertà “sgarantita e insicuribile” (ancora Zanzotto) posta alla base di un integralismo etico – di vita come di scrittura – che in Dal Bianco può arrivare consapevolmente a rasentare l’autolesione (“Allora l’imperativo può essere questo: rinunciare alla poesia in quanto riparo. Rifiutare di adagiarsi nella culla della scrittura, che non è e non sarà mai l’esperienza più importante da vivere” è una delle tante dichiarazioni in questo senso, questa contenuta nel pezzo dal titolo Cinque pensieri, 1998).
La seconda questione è invece relativa al tipo di mediazione che sostanzia il rapporto tra esperienza biografica e poesia. Dal suo autore Planaval viene definito, in una videointervista del 2017, come il risultato della “volontà di racconto da parte di uno che proprio non è in grado di raccontare”, mettendo in evidenza il fraintendimento rispetto alla presunta serena vocazione alla narrazione diaristica che starebbe all’origine dell’opera. Nel finto racconto di Planaval infatti gli assi della diegesi (tipicamente lo spazio e il tempo) sono sopravanzati da connessioni di tipo percettivo-visivo, come si dirà più avanti, poiché lo scopo non è sviluppare una cronaca intima a puntate che porti fuori, per ragioni ascrivibili magari a processi di autolegittimazione anche narcisistica, quello che c’è dentro – il vissuto, il ricordo – ma piuttosto di permettere al soggetto di “uscire fuori da sé stesso” (si veda a riguardo la riflessione sviluppata ne Il suono della lingua, il suono delle cose), attraverso un canale sensoriale che lo estrofletta in una dimensione extrapsicologica e superindividuale conformemente a quella ferma volontà di spersonalizzazione della poesia che in Dal Bianco è un imperativo di lunga durata, dalle prime elaborazioni teoriche su “Scarto minimo” nella seconda metà degli anni Ottanta sino a oggi. Tale atto di desoggettivizzazione corrisponde alla trasposizione dell’io biografico in io lirico (e siamo alla terza questione) poiché Ritorno a Planaval non ha a che fare, diciamolo una volta per tutte, con i significati privati, contingenti, relativi, ma con quello che li trasvaluta e li comprende tutti e che Dal Bianco definisce il “significato antropologico dello stare al mondo”. Il diario intimo, i contenuti autobiografici – che pure sono innegabili – non avranno quindi valore di per sé ma andranno considerati piuttosto come il materiale conduttore di quella tensione, onda o corrente che fa essere la poesia poesia: “Ciò che si dice in una poesia non è affatto importante, conta ciò che riesci a far passare dentro a quello che dici […] e l’intenzione è di far passare delle cose che non sono significati, che sono stati, autoriflessività, che sono ascolto o al limite una corrente […]. Qualsiasi cosa si voglia dire, qualsiasi significato, tu li puoi dire non in poesia” (così nella videointervista del 2017, a cura di Francesca Ippoliti).
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Da così tanto tempo ero pieno di senso che tutte le frasi mi prendevano in testa, lasciandomi più solo, non dico tramortito ma piuttosto perplesso. Non avevo alla fine che sonno, e voglia di sognare.
Ora che non c’è più la guerra intorno a questo posto astratto, e quelle stesse frasi senza sfiorarmi cadono spuntandosi, ora riprende ardire una pioggia di morti nel giardino, e una voce di casa, che è una voce di vivi ed è perplessa, stupida, immortale, come un pensiero animale.
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E mai non fosse l’alba
Io sono il frutto che il tuo stare ha generato.
Non mi ribello e ti resto vicino
perché la nostra fame
come una morte ci trascina in alto,
oltre la nostra casa trilocale
al di là delle persiane
che come fanno i maschi, a tua difesa,
per la notte abbasso.
Ma qualche volta ti abbandono e aspetto l’alba
quando effettivamente un’allodola canta
nel giardino, e mette pace,
e noi non siamo più due poli che si attraggono
ma solo questa pace
e questo cielo finalmente chiaro
perduto dietro le finestre estive.
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Il piano
Quando mi stendo sul tappeto del salotto e guardo in alto, a volte c’è una mosca a volte un moscerino che volando descrive traiettorie stranamente geometriche, di colpo e di continuo svoltando con un angolo di solito acuto, e quello che è più strano è che tutto
si compie sullo stesso piano ideale: quello parallelo al soffitto e al pavimento dove sono io.
Non so perché lo faccia. Forse perché così trova il suo cibo, come le rondini, ma perché sempre solo su due dimensioni, senza usare lo spazio?
Veramente gli basta,
e anch’io sono su un piano, il quarto,
vivo nella mia fetta d’aria,
sopravvivo e quando voglio
guardo e respiro dalla finestra.
Anzi, ho comprato un tappeto
e qualche volta mi ci devo stendere,
altrimenti mi sfugge il mio orizzonte.
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Il vetrino
Una sera, ero in ritardo, con un asciugamano, inavvertitamente, ho urtato una preziosa bottiglietta di profumo, che è caduta. I pezzi sono stati raccolti, quasi tutti in un primo momento, altri nel corso del tempo, a mano a mano diminuendo le proporzioni dei reperti. Dopo un mese in un anfratto del pavimento è comparso un vetrino trasparente, ma nessuno l’ha raccolto.
È passato altro tempo, ogni volta che entravo nel bagno
lo vedevo e mi ripromettevo: «Prima di uscire
lo raccolgo e lo butto»,
e nelle mie faccende lo tenevo d’occhio
perché non se ne andasse o scomparisse
tra le frange del tappeto o altro.
Ma il bagno libera i pensieri e al momento
di uscire dalla stanza un’altra
memoria ne prendeva il posto,
e il vetrino è rimasto e negli ultimi giorni
è diventato un’ossessione, un’ossessione
all’ultimo secondo regolarmente rimossa.
E oggi mi sono impuntato,
mi sono concentrato più di ieri
e più dell’altro ieri e ce l’ho fatta:
è stata una vittoria graduale
di una memoria su altre memorie.
Ho allungato la mano e con sorpresa
il vetro non ha opposto resistenza:
è stato docile, si è fatto raccogliere
come se per tutto questo tempo
avesse atteso me, il mio intervento.
Adesso non so se per pietà, per un senso del dovere
per rispetto o per amore l’ho posato
sul nero della scrivania, davanti a me,
e scrivendo lo contemplo e raccolgo
la sua storia di cosa legata alla mia,
e uno stesso appartamento ci contiene.
Sono orgoglioso di averlo salvato
e lui risponde alla luce e manda timidi bagliori.
Ma io ci vedo dentro il firmamento e questa notte
lo metto all’aperto e me lo guardo
perché c’è la luna, perché ritorni,
nella chiara altezza di cobalto, il cielo.
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Resistenza
Oggi il vento è cattivo, per questo mi piace.
Per due volte è caduta la pianta che amo. Io però mi sono rifiutato di portarla dentro. Ho preferito bagnare la terra, aumentando il contrappeso del vaso sulle foglie.
Chiudendo gli occhi sembra di essere in montagna perché il rumore delle raffiche sugli alberi vicini è più forte delle finestre che sbattono negli altri appartamenti.
Sto solo chiuso nella mia casa come un tagliaboschi, o un marinaio, o un soldato di una guerra, tremando a ogni colpo.
Ma il cielo è sgombro, il sole entra dai vetri e tutti i movimenti del vento sono sotto controllo.
Sto in bilico tra paura e sicurezza. Sto nella situazione in cui si sogna.
Allora scrivo e ogni tanto mi avventuro in terrazza e sollevo l’oleandro e il gelsomino. Mi ostino a non proteggerli, a rimetterli in piedi.
Mi hanno detto che il vento rinforza le piante.
Io come un padre in lotta con se stesso mi apposto dietro il vetro, noto il ramo spezzato del rosaio, guardo l’oleandro e il gelsomino inclinare e traballando farsi forti.
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Il sogno della madre
Se state guardando una madre che dorme in poltrona
in un qualsiasi dopopranzo invernale
con il televisore temporaneamente spento
e con in casa l’imperiosa pace
di una raggiunta storia di famiglia,
restate lì, non ve ne andate
e copritela con uno scialle.
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a Egle e Seba
Quando c’erano Lanta e Lahón, Gino non era solo e parlava ancora con le mucche.
Ogni mattina ci passavano davanti e ogni sera tornavano con Gino che noi non ci guardava e loro, sì, anche se stanche salutavano.
Senza guardarci né parlarci, Gino era molto gentile, ma come attraverso di loro.
Solo una volta, qualche anno dopo, quand’ero solo, mi ha rivolto la parola.
Se volevo del latte.
Ricordo l’attimo di mancamento, e la riconoscenza, che dura ancora.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).