Pubblichiamo in anteprima l’apertura del volume “Ritorno” di Milo De Angelis, da poco uscito per Vallecchi.
Qualcosa è già accaduto, in un tempo e in un luogo precedenti, e noi dobbiamo tornare perché lì è iniziato il nostro cammino. Ma a che punto siamo di questo cammino? Quale distanza abbiamo percorso? E soprattutto: che cosa abbiamo visto davvero e cosa ci è sfuggito? E ancora: cosa ha spinto anticamente i nostri passi fino al punto in cui adesso ci troviamo?
Per saperlo dobbiamo ritornare. Non abbiamo altro modo, non abbiamo altra bussola, altra mappa, altra lanterna per questo viaggio, che è un viaggio notturno tra le ombre e la memoria. Il ritorno è una forma estrema di conoscenza e di riconoscenza verso i luoghi che abbiamo abitato e che abbiamo amato e dove è stata scritta la profezia che ci riguarda e che troverà il suo compimento attraverso la nostra vita.
Solo nel il ritorno si attua la nostra attesa più urgente: sapere cosa ci è veramente accaduto, cosa è accaduto dietro le quinte, nel fondo assoluto e misterioso che sostiene la nostra esperienza.
Cercherò di dirvi qualche parola sul tema del ritorno. E scusate se sono parole inadeguate a un tema così grande, un tema che ha percorso l’intera storia della letteratura e dell’anima umana.
C’è un porto in fondo al nostro essere e noi, scendendo a picco, liberandoci dai passatempi della vita quotidiana, concentrandoci interamente sull’essenziale, possiamo indirizzare il cammino verso questo porto, che è la meta ultima della nostra vita. Ma perché ciò avvenga, dobbiamo capire dove siamo. E per capirlo dobbiamo ritornare.
Per questo il viaggio in avanti verso il nostro porto è nel medesimo tempo un viaggio all’indietro verso ciò che siamo stati, verso i luoghi che abbiamo amato.
I luoghi amati ci parlano, si rivolgono a noi, proprio a noi, solo a noi, fanno cenni, sorridono come delle donne, sono donne. E ci chiamano, ci chiamano a sé, ci chiamano a giudizio. E noi, là, dove ci viene indicato, andiamo. Seguiamo una traccia, uno slargo, una vetrina, il muro identico di un palazzo, un citofono, il rumore di un camion: tutto, nella commozione assoluta del ritorno, si deposita in noi, attende di essere nominato.
I luoghi che abbiamo amato sono lì, a portata di sguardo e a perdita d’occhio. Più noi li guardiamo da vicino e più loro ci guardano da lontano. All’inizio, di fronte a loro, sentiamo un abbraccio acceso e brancolante, che cerca ancora la sua precisione. Poi una messa a fuoco dello sguardo, un avvicinamento più nitido del luogo al suo aggettivo, portano vicino al compimento, alla pienezza dell’udito.
Sì, in questo ritorno c’è un luccichio di tutto l’essere, un risveglio che sta per avverarsi, il senso di una rivelazione imminente. E noi iniziamo ad ascoltare. Una volta i luoghi ci avevano detto qualcosa che non siamo riusciti ad afferrare, qualcosa che non abbiamo udito fino in fondo e che poi è andato perso, qualcosa che ora dobbiamo, a ogni costo dobbiamo sapere.
Nei luoghi amati – e nel ritorno che li accende – c’è qualcosa di improsciugabile: più li nomini e più ti parlano, più li saccheggi e più si arricchiscono di nuovi significati, ombre, chiaroscuri, dettagli, toni e semitoni. Il ritorno nei luoghi sfugge alle leggi consuete della fisica: più attingi a loro e più li alimenti.
Non a tutti è dato ritornare. Non sempre è dato ritornare. Ci sono giorni e luoghi che non ammettono repliche, sono incomparabili, letteralmente, si rifiutano al paragone, chiedono di restare nel loro atto unico. Altri invece ci chiamano, perché lì è avvenuto qualcosa di essenziale, ed è una convocazione perentoria, una chiamata a giudizio.
Il poeta del ritorno, più di ogni altro, ha orecchio per ascoltare questo richiamo, per tornare proprio lì, per dare volto e parola a ciò che prima era solo una presenza muta. Ha saputo ascoltare la voce dei luoghi amati, le loro uniche voci. Ha saputo decifrare questo alfabeto che era lì, in attesa che un poeta lo traducesse. Ed è allora che noi conosciamo, nella seconda volta, nel ritorno, quando le cose che rimanevano in fondo a noi assumono il loro vero nome. Perché non si tratta tanto di esprimere qualcosa, ma di chiamarla con il suo giusto nome, con il nome sepolto dai nomi convenzionali.
Ho composto una breve antologia sul tema del ritorno. È un’antologia che parte necessariamente da Omero e dall’Odissea, capostipite di tutte le opere intrecciate al ritorno, per poi fare un lungo salto temporale e riprendere dall’Ottocento di Foscolo e Leopardi per arrivare fino all’autore novecentesco più fedele a questo tema e a questo richiamo: Cesare Pavese.
Dopo Omero il nostos sembra uscire di scena o comunque non assumere più un peso centrale nella letteratura greco-latina e successivamente in quella del Medioevo e del Rinascimento. Appare qua e là in Eschilo (I Persiani e Le coefore), in Apollonio Rodio sulla scia del capolavoro omerico e in qualche passo di Catullo dedicato alla sua amata Sirmione, per poi scomparire del tutto e trovare un surrogato orale e popolare nel vasto patrimonio di fiabe legate al motivo del ritorno e raccolte da Vladimir Propp nel capitolo della sua ricerca dedicato a questo tema. Poi nulla per secoli e secoli. Ecco però che in epoca moderna – da Foscolo in poi – si riaffaccia con prepotenza la dimensione del nostos.
Si tratta dunque di un’antologia moderna (dopo la premessa omerica), una breve scelta di poeti che negli ultimi due secoli hanno percorso e approfondito il motivo del ritorno. Un motivo che talvolta è connesso a quello dell’esilio e della nostalgia e talvolta invece a un’esigenza conoscitiva che trova nel ritorno e nella “seconda volta” la via più profonda per vedere dentro se stessi, per conoscere davvero quello che abbiamo già conosciuto e per conoscere nello stesso tempo quello che ci ha già conosciuti, quello che ci scrutava attento e concentrato mentre noi camminavamo per le vie del mondo, giovani e distratti.
Come sapete, il tema del ritorno nella poesia occidentale viene fondato dal grande poema omerico, Odissea che narra le avventure del guerriero greco Ulisse, in greco Odusséus. Ulisse torna a Itaca dopo la guerra di Troia e fin dal nome porta con sé l’idea del viaggio (odòs) che è in Omero un viaggio di ritorno, con digressioni, avventure, sorprese ma sempre teso alla meta, ossia ad Itaca, dove lo aspettano la moglie Penelope e il figlio Telemaco, nonché il cane Argo, il più fedele di tutti. In altre tradizioni – per esempio in Ovidio e poi in Dante – Ulisse non è solo l’uomo del ritorno ma è soprattutto l’uomo assetato di conoscenza – anzi di “canoscenza”, come scrive Dante nel XXVI dell’Inferno, mescolando il canto al desiderio di conoscere – ed è l’uomo che sfida gli dei varcando le colonne d’Ercole, l’uomo che osa là dove nessun altro ha mai osato tanto.
Ma qui noi ci occupiamo dell’Ulisse omerico e di tutti i suoi eredi nella poesia occidentale, perché il nostro tema è il ritorno – il nostos, come lo chiamavano i greci – in tutte le sue forme e le sue dimensioni, a partire da quella che contiene il nostos nel suo stesso nome, ossia la nostalgia…e poi ancora l’esilio, la malinconia, la rimembranza, l’elegia, il ritrovamento di se stessi, il richiamo dei luoghi amati, la seconda volta come esperienza conoscitiva più vera e profonda, lo svelamento di qualcosa di antico che noi scopriamo ritornando. E la poesia del ritorno è spesso una poesia dello svelamento. Non è legata tanto a una fondazione e a un viaggio in avanti, quanto allo svelamento di qualcosa che esisteva prima di noi e che attende di essere scoperto e nominato.
Ho preparato una piccola antologia del ritorno, cercando di rintracciare tutte queste forme del
ritorno attraverso i secoli e soprattutto attraverso gli ultimi due secoli, quando l’Ulisse omerico ritorna alla ribalta, dopo essere quasi scomparso nel medioevo e nel rinascimento, oscurato dall’altro Ulisse eroico e avventuriero. E il ritorno di Ulisse è incarnato da un poeta italiano, Ugo Foscolo, che nel 1802 pubblica A Zacinto, forse la più celebre delle sue poesie. Ma questa è la seconda tappa del nostro viaggio. Partiamo ora dall’inizio, partiamo dall’Odissea, di cui ho tradotto alcuni episodi, tra cui quello di Argo, nel diciassettesimo canto, un episodio che rappresenta questo tema in maniera magistrale.
Immagine: Foto di Viviana Nicodemo.