Rinascita

da | Feb 25, 2025

Cinque testi in anteprima da “Rinascita” di Claudio Damiani, appena uscito per Fazi. 

 

Non dire che la mia casa è triste,
non dire che la mia casa è sola.
Io l’ho lasciata, io non sono a lei più tornato
ed ecco lei è rimasta abbandonata.
Prima il tetto è caduto
poi anche i muri hanno incominciato a incrinarsi,
i mattoncini rossi del parapetto della scala
li hanno portati via,
hanno tolto le pietre ai gradini del patio.
Sono venuti i militari,
ne hanno fatto una piccola fortezza,
hanno messo del filo spinato, hanno sparato dei colpi,
tutto questo ha dovuto sopportare la mia casa.
Ma gli alberi intorno a lei sono cresciuti,
nel silenzio frusciavano le foglioline,
le ombre delle foglie accarezzavano i muri.
Ogni mattina l’alba, ogni sera il tramonto
sul patio la lonicera profumava,
i fiori ancora fiorivano.
Il tetto lentamente cadeva, ma quante cose d’intorno,
quanta vita segreta che nessuno vedeva,
che nessuno sapeva,
facevano lieta la mia casa, riempivano la sua vita.

 

*

Davanti alla facciata della casa c’era un orto. A sinistra dell’orto c’era un campo all’angolo esterno del quale c’era il pollaio. Il pollaio era una costruzione bassa con due ali e tetto in tegole belle ed era diviso in due parti, il pollaio propriamente detto e la piccionaia. Le galline uscivano il giorno – non saprei dire se già dalla mattina, o nel pomeriggio – e razzolavano in quel campo, poi la sera andavano ricoverate nel pollaio. Io le ricordo razzolanti, ma soprattutto ricordo questo loro dover esser ricondotte, al calar della sera, nel pollaio. Credo di ricordare di aver aiutato a svolgere questa operazione, forse Miucci, che era il nostro aiutante in casa, una specie di maggiordomo che sapeva far tutto, ogni genere di riparazione. Io ricordo soprattutto lui, poi la mia balia Irene, ci doveva essere anche una ragazza che faceva le pulizie, forse la figlia di Irene o qualcun’altra. Ma tornando alle galline, queste razzolavano forse il pomeriggio nel campo tra il pollaio e l’orto. Guardando dietro il pollaio vedevi il lungo Gargano, quel primo balzo dritto e lungo che sembrava una montagna e insieme un cielo, era una terra alta, una montagna spianata dal cielo. O forse un mare alto? No, direi che casomai era una terra alta, celeste. A destra del pollaio, guardando dove doveva esserci il mare, quella linea azzurra indistinguibile col cielo, c’era la siepe dei fichi d’India. Questi erano una barriera spinosa, una linea difensiva forse nella mia mente, come una fortificazione in direzione del mare. I fichi d’India dicevano: «Qui finisce la tua casa, dopo di qui ci sono altre terre che non sai, fino ad arrivare al mare». Quello delle galline invece era il territorio di casa, esse razzolavano solo nel campo e non si  avventuravano altrove? Ma, mi chiedo, nel loro vagabondare non potevano andare nell’orto? Mi sembra di ricordare che qualcuna andava inseguita o cercata, nella non facile operazione di ricoverarle la sera. Sento la sera fresca sulle mie guance e il farsi grigio dell’aria, sento la luce spengersi mentre le galline rientrano, esse sono docili e si lasciano guidare abbastanza, come se sentissero anche loro la sera, il buio imminente e la necessità di rientrare, i pericoli della notte, eppure si lamentano col loro coo-coo, e anche noi facciamo coo-coo, le spingiamo parlando la loro lingua. Qualche volta devo averle spaventate nell’inseguimento, devo essermi divertito a farle svolazzare eccitate, o al momento del ricovero, o mentre razzolavano tranquille nel giorno, sì un po’ di inseguimenti mi sembra d’averli fatti, ma non tanti, penso di averle anche molto osservate razzolare e beccare, emettere quel loro verso lamentoso, mi sembra di ricordare di averle osservate a lungo muovere la testa a scatti, e guardarmi con quegli occhi preoccupati, che a volte sembravano allarmati, a volte invece mi sembravano tranquilli. Del campo delle galline ricordo l’erba molto verde, e alcuni piccoli abeti in fondo, e poi c’era anche un campo di melograni, ma dalla parte opposta alla siepe dei fichi d’India, verso le casette basse degli operai che svolgevano i controlli sul minerale. Questi melograni li ricordo piccoli, disposti geometricamente in un quadrato, tipo quattro per quattro, e ricordo che mio padre li fece piantare perché amava questa pianta, forse più per la forma del frutto che per il suo sapore, mi sembra di ricordare che era affascinato dalla forma dei grani e dalla loro disposizione, che gli ricordava la geometria dei cristalli forse, che adorava, e dal loro colore rosso acceso e vivo. Forse anche la loro disposizione nel campo aveva a che fare con la struttura dei cristalli. Poi sul fianco destro della casa, guardando la facciata, c’era un giardino alquanto striminzito, fatto di una serie di aiuole delimitate da sassi tondeggianti bianchi di fiume o mare, che circondavano un abete centrale o pino, che cresceva in un’aiuola centrale tonda, delimitata anch’essa dagli stessi sassi. Nelle aiuole non mi ricordo se crescevano fiori, ma mentre l’orto era abbastanza ricco e interessante, questo giardino era piuttosto smorto e banale e non era tanto bello giocarci, sentivo che c’era poca vita, non so, l’albero era alto e lontano, le aiuole erano leccate, non so, forse non ci si poteva andare, mi avranno detto che non dovevamo camminare sulle aiuole, ma non mi ricordo per niente, se non ci si poteva andare io comunque non ero interessato. Adesso è completamente scomparso, tutto arato, anche l’albero è scomparso, è come se avessero raso al suolo qualcosa di già fragile in sé e un po’ triste, e non ci fosse più traccia, niente di niente. Quando tornerò lì voglio starci delle ore a vedere se davvero non c’è più traccia di niente del giardino, quelle pietre tonde ad esempio dove l’avranno messe? Erano così preziose da portarle via? Be’, sì, forse l’avranno usate in qualche altro giardino, e di questo non mi importa molto devo dire, e sono contento che in questo luogo c’è anche qualcosa di cui non mi importa più di tanto. Però adesso che ci penso, l’aiuola centrale era tonda, ma le laterali? Erano tonde anch’esse? Disposte a croce o a x? O invece erano triangolari, disposte a circoscrivere il cerchio centrale con un quadrato più grande? Mi sa che erano proprio così, in questa forma abbastanza banale, ma inevitabile. Ed ecco adesso mi manca che non me lo ricordo, adesso questo giardino ombroso lo vorrei rivedere, mi sembra di esser lì tra gli aghi di pino, tra le aiuole intorno e la centrale c’erano dei vialetti di ghiaino, qua non veniva mai nessuno, forse solo l’ortolano a innaffiare o curare un po’ le piante, ma poco. Che poi, perché tant’ombra doveva starci, che fosse orientato forse a nord? (A parte l’ombra del pino o dell’abete). Sì era a nord esatto, l’ho visto adesso sulla mappa. Come a est, esatto, era la mia stanza. 

 

*

Aria intorno alla mia casa,
cielo azzurro lucente,
eucalipti che frusciano nel vento,
contadini che camminano, poveri,
con i pantaloni larghi,
impiegati che aprono un fazzoletto
con pane, pecorino, cipolla,
persiane verniciate di verde,
ghiaino che scricchiola sotto i piedi,
capperi che fioriscono ai margini della strada,
fili della luce che emettono un ronzio,
galline che razzolano sparse,
cane che mi segue dovunque,
uccellini in cima ai rami degli alberi,
uccelli sui fili della luce,
piccioni sui pali,
siepi di fichi d’India, in fondo,
muretti di pietre a secco,
case appena costruite,
alberetti giovani,
orto pieno di cose,
pollaio e piccionaia grassi,
bicicletta appoggiata a un muro.

 

*

Ecco, sono tornato qua
dove tutto è cominciato.
La casa è rotta, non importa,
mi siedo qui sul muretto.
Come mi piace sentire quest’aria sulle mie guance,
l’aria di quand’ero bambino.
E questi cavalli che pascolano
mi piace guardarli.
Guarderei senza mai stancarmi il tempo
che trascorre senza fermarsi.
Del cielo ho una tale sete
e non smetto di berlo.
Perché stare qui non mi dà angoscia?
Vedi, non c’è ansia del tempo.
È come se il tempo si fosse fermato
e non ho desideri.
Ho dimenticato, come bagnato
mi fossi, nudo, in un Lete.
Sono tornato all’inizio
completamente rinnovato.

 

*

Le farfalle mi venivano incontro
erano quelle piccole azzurre
della mia infanzia che volevamo acchiappare
ma anche cavolaie che volavano a coppie tra i cespugli
e farfalle notturne che mi facevano paura
tra i gradini della scala di casa,
mi venivano incontro e io le accarezzavo
e le baciavo, era come se volassi
nello spazio e mi venivano incontro
corpi celesti, asteroidi, comete
e io li sfioravo e li accarezzavo
e in ognuno abitavo
per qualche tempo, poi ritornavano le farfalle azzurre
e tutte le altre e si diradavano,
si vedeva che andavano in un luogo
come un centro di raccolta
forse andavano a riposare, a mangiare, non so,
e io restavo solo
in un cielo completamente vuoto,
completamente solo.