Rimi

da | Gen 13, 2014

Quattro poesie di Gabriele Frasca, con una recensione di Davide Castiglione, da Rimi (Einaudi, 2013).

(dalla sezione Quevedo)

sì solo un sogno e ci si sveglia in preda
di un duro sonno senza soglie dove
non ci sei più né un solo suono smuove
la muta faglia che ogni smania seda
se l’ombra che ci sogna è un sogno e se da
un altro sogno replica le povere
immagini da addurre come prove
che si contorna il vuoto che ci assedia
cos’è lo sai congiungersi un momento
in questa sera rossa che s’è spenta
se non il segno che si snoda infinto
persino l’infinito che ci tenta
con ogni piega in cui ritorce a stento
il futile futuro con l’estinto

*

t’hanno lasciata al sogno senza sbocchi
che se protegge il sonno dal risveglio
allora neanche sai se non sia meglio
dormire ancora o non riaprire gli occhi
t’hanno lasciata andare dove imbocchi
il sogno di qualcuno appena sveglio
che non sei tu e che non sa che sbaglio
commesso altrove adesso qui gli tocchi
t’hanno lasciata andare via nel sogno
che se ti desta con le larve oscure
è per tenerti ancora coricata
a sonnecchiare senza alcun bisogno
di rivelarti che t’hanno lasciata
andare via da me le tue paure

*

(dalla sezione Dopo l’incursione. Da Dylan Thomas)

Dove m’hanno condotto le vecchie parole
(Where Have the Old Words Got Me)

Ciò che hanno fatto di me le vecchie parole,
Spiccare il sole via dal midollo dell’osso
Come s’essicca un frutto del proprio liquore,
Spargere il senso assoluto d’un sasso
Al debole grido che ha scosso
Questo ordigno di sensi che è tutto un motore
Muto e cocciuto in attesa d’un suono;

Dove m’hanno condotto col loro fracasso,
Lavorando d’intarsio lungo l’abbandono
Che ho visto crescere mentre affrettavo il passo
Per tener dietro a chi restò lontano,
Ma sempre con l’eco del tuono
Per dettare nel buio che resta qui in basso
L’ombra che s’allucina il cielo al lampo;

Ciò che hanno fatto di me malgrado sapessi
Che con gli echi dispersi si forgia lo stampo
Che mantiene compatto fra sessi e decessi
Almeno un fine alla miccia del tempo,
Sebbene non resti mai scampo
Alla lenta erosione che intacca gli stessi
Semplici lacci che annodano il senso;

Dove m’hanno condotto malgrado lo scempio
Che fecero di me quando col loro incenso
Affumicarono l’unico vuoto tempio
Dove, dimesso il verbo, si fa a stento
La carne che chiede il suo censo,
Non c’è verso nemmeno per trarne un esempio
Di provare a ripeterlo in un verso.

Eppure quanta giusta inconsistenza resta
Mentre la testa impasta da ciò che s’è perso
Quel tanto di sostanza come cartapesta.
Vi si tenne la vita in quel rimorso
Andarsene via di traverso
Alla vegeta morte che ancora protesta
S’aprì una ferita che duole,
Cui non rimane chi rimi in soccorso,
Dove m’hanno condotto le vecchie parole.

*

(dalla sezione Rimi)

avvolto il corpo amato nello sguardo s’accorse non l’avrebbe contenuto. se non allontanandosi quel tanto che vale un colpo d’occhio non l’amore. possibile dovesse come sempre godere solo d’un particolare. di sé di certo e del suo stesso sesso da sbirciare confuso con quell’altro. a questo con il tempo e con la pratica aveva bene o male fatto il callo. ma non riuscire a scorgere che un lembo di quanto congiungeva era una beffa. cui non riusciva proprio a rassegnarsi se mai coi buoni offici delle palpebre. abbassate quel giusto da disperdere il prossimo nell’ombra che gli spetta. certo l’amore è cieco ma non sordo e quei sospiri li riconosceva. fossero estorti oppure di maniera solo a volerlo vi agganciava un nome. l’olfatto poi non sbaglia mica un colpo se quanto c’individua infine è chimica. eppure che dovesse rinunciare al senso dell’insieme l’intontiva. e non per dire s’era poi da stupidi avvilupparsi in verità alla cieca. significava perdere il contatto con quanto succedeva o l’affezione. rinunciare all’amore per compirlo o all’atto stesso pur di preservarlo. su questo non poteva avere dubbi viste le volte risolte in un fiasco. bastava intenerirsi un po’ a sproposito e si precipitava nel disastro. abbiamo solo un fuoco d’attenzione e alle brutte non resta che la scelta. si prova amore in propria compagnia con l’agio e il tempo di pensarci sopra. ma ciò che mette in moto verso l’altro vuole la quiete non l’identità. da conquistare sia pure con fatica e quel dilazionare che dà gusto. finché non s’impossessa del congegno una ben nota furia solitaria. si giunge presto al punto che si perde la cognizione di chi abbiamo accanto. non che temesse chissà cosa o chi se non si dànno cambi in corso d’opera. era piuttosto al proprio divagare che imputava l’attesa metamorfosi. aveva voglia al dunque d’impetrarsi di restare sul posto e con quel corpo. se rimaneva lì sbiadiva l’altro che trattenuto l’instradava altrove. nemmeno col riflesso di uno specchio riusciva a ritardare quello stacco. si resta innanzi tutto sullo scorcio e guai ad incontrare il proprio sguardo. tirato il viso pure in tante smorfie si scopre così assente che raggela. scorgere poi la propria iperidrosi piuttosto che patirla un po’ imbarazza. e poi sia pure avvezzi alla vergogna restare in scena ostacola la macchina. al punto che volendo proseguire meglio guardare altrove o non riprendere. altro che un periferico dettaglio come una spalla o un ciuffo di capelli. da cui sarebbe poi scomparso l’altro nel giusto anonimato del piacere. c’era da rassegnarsi insomma al fatto che sul più bello si sottrae l’oggetto. il tempo di godere senza chiedersi a chi si deve tale godimento. su questo manco a dirlo non voleva passarci sopra come fanno in tanti. bell’idiozia direte eppure càpita addirittura a chi parrebbe esente. da quel rimuginio che ci contiene la pelle stessa con la sua pellicola. averla indosso è un bene e ci risalta nel mondo dei tropismi eppure soffoca. e finiva così col non decidersi in quale delle trappole cadere. nel freddo dell’amore che preserva l’identità dell’altro che ci agghiaccia. o nel calore invece che riscioglie il faticato nome nella specie. e quando poi toccò si rialzasse su da quel letto mica più sapeva. se avesse dato séguito a un volere proprio o subito oppure a una funzione. precisamente d’organo sebbene quale poi fosse non pareva chiaro. non era certo il sesso né il cervello il cuore poi sta bene dove sta. magari la laringe sussurrò che ha fatto tanto per scolpire il fiato. l’aria è per questo che ci tiene in vita perché di noi si parli ancora il vento.

***

Un celebre luogo derridiano vuole che sia il linguaggio a servirsi di noi per parlare, anziché il contrario. La nozione dell’essere parlati è stata variamente intesa e declinata, nelle poetiche italiane, in pratiche a prima vista incompatibili, quali quella dell’orfismo lirico (la vulgata del poeta come medium di un demone che lo trascende) e quella di un criticamente perseguito annullamento dell’io poetico (inteso come ego espressivo prima che come pronome grammaticale), come nella Neoavanguardia e, più di recente, nei cosiddetti Nuovi oggettivismi. In realtà, chi opera questa distinzione sembra fingere di ignorare che sono stati proprio i grandi lirici (Mallarmé, Celan) ad aver interessato Derrida (si veda Acts of Literature, 1992), le cui idee sono spesso chiamate a difendere pratiche d’avanguardia suppostamente anti-liriche (si veda il volume di Marjorie Perloff Radical Artifice: Writing Poetry in the Age of Media, 1994).

La questione è complessa, ed esula dagli scopi di una semplice recensione come questa; tuttavia, se ho indugiato in un nodo teorico, è perché di questa nozione Gabriele Frasca ha fatto il motore generativo del proprio fare poetico. Nelle parole dell’autore (dalla sezione eponima Rimi, XII):

non c’è vita in noi che non sia dirsela. è come se a giocare una partita non ci volesse che la radiocronaca. il gioco è quello ed è quello per tutti ma cambia e come a starsene all’ascolto.

Questo estratto vale già come dichiarazione di poetica. E, coerentemente, “Chi parla qui?” è una delle ricorrenti domande che viene di porsi leggendo l’imponente e inusuale raccolta di Frasca: equidistante da entrambi i fronti prima delineati proprio perché li sa portare a una naturale sintesi tra scrittura di ricerca e lampi gnomico-lirici che di frequente costellano il dettato, imperniato su temi che più assoluti non si può, come la morte, il disfacimento e il trascorrere del tempo.

Corresponsabile di questo effetto – quello di una voce “disincarnata” – è senz’altro il riuso delle forme metriche (i venticinque sonetti barocchi della prima sezione, Quevedo), l’insistita serialità compositiva (le quaranta prose della seconda sezione, Rimi, tutte della stessa lunghezza e scandite in unità frasali di due endecasillabi ciascuna) e la traduzione (le versioni da Dylan Thomas di Dopo l’incursione). Eppure questo non basta. Leggendo la sezione Quevedo, per esempio, mi sono chiesto quale differenza ci fosse rispetto ad altri celebri recuperi neo-metrici, da Zanzotto a Valduga. Si prenda, a titolo di esempio, il sesto sonetto, sì solo un sogno e ci si sveglia in preda:

sì solo un sogno e ci si sveglia in preda
di un duro sonno senza soglie dove
non ci sei più né un solo suono smuove
la muta faglia che ogni smania seda
se l’ombra che ci sogna è un sogno e se da
un altro sogno replica le povere
immagini da addurre come prove
che si contorna il vuoto che ci assedia
cos’è lo sai congiungersi un momento
in questa sera rossa che s’è spenta
se non il segno che si snoda infinto
persino l’infinito che ci tenta
con ogni piega in cui ritorce a stento
il futile futuro con l’estinto

Il testo, un momento sintattico unico e privo di interpunzione, parla da sé. Se nel lirico Zanzotto il recupero metrico è sul filo di un disincanto nostalgico, e in Valduga un richiamo sanguigno alla tradizione trobadorica che permette l’esprimersi di una individualità, in Frasca si ha subito il dubbio che le composizioni siano dello stesso Frasca: il manierismo è talmente compiuto che, come in un gioco di maschere, questi sonetti potrebbero davvero appartenere a Quevedo. In altre parole, Frasca è parlato da Quevedo, e l’idea strutturalista che i testi sono comprensibili solo alla luce di altri testi è qui portata all’estremo. Non c’è, tuttavia, arbitrarietà nella scelta: il vuoto corteggiato dai sonetti barocchi secenteschi non è poi troppo distante dalla tradizione irrazionalista a cui Frasca si richiama (non a caso Deleuze e Guattari sono citati nel libro). Il «vuoto che ci assedia» del sonetto è il termometro di una temperie condivisa da autori coevi sia pure in tutt’altro solco (vedi il «vuoto così intero» nell’ultimo libro di Dal Bianco, recensito in questo sito leggi qui).

Certo, a ricordare che l’operazione è comunque postmodernista non mancano nei sonetti inserti colloquiali (per es. nell’ottavo sonetto leggiamo «persevero e mi chiamano cocciuto») che Quevedo non poteva utilizzare nella sua epoca. E però, queste inserzioni sono discrete e come prudenti, fanno leva su un recupero (per quanto straniato) di una comunicatività fàtica (c’è spesso un “tu” nei sonetti). Sembrano insomma dovute più a una volontà di avvicinare a noi la tradizione che di smascherarla: è anzi la tradizione che esce vittoriosa sul presente, e qui forse sta la lezione di Rimi.

Se espandiamo ancora un po’ il campo intertestuale, possiamo pensare al diverso recupero del barocco da parte dei poeti surrealisti spagnoli del ’27 (Lorca, Alberti, Salinas, Guillén…), e quindi – per chiudere il cerchio – all’influsso del surrealismo sul visionario Dylan Thomas, a cui è dedicata la terza sezione. Le intricate strutture metriche del poeta gallese, la sua ossessione per la morte e il connubio di corporeo e cosmico sembrano più che mai congeniali ai temi e alle strutture dell’intera raccolta.

Un discorso un po’ diverso merita la sezione eponima e centrale, Rimi, composta – come si è detto – di prose. Applicato com’è a testi che non rimano (diversamente dai sonetti della sezione precedente) questo titolo potrebbe quasi suonare ironico. L’ironia è però un errore valutativo del lettore: queste prose sono in realtà poesie che scelgono di rinunciare alla marca formale più ovvia (il verso come unità grafica) alla ricerca del “ritmo senza misura” invocato da Deleuze e Guattari citati in epigrafe. È difficile dare un resoconto di lettura di queste composizioni, data la loro densità e anche varietà figurale, sempre all’interno di una griglia già data (i doppi endecasillabi di ogni unità frasale, l’assenza di interpunzione dentro ogni unità). In generale, si può dire che prevale un tono riflessivo dove i dati della realtà (situazioni, oggetti) sono riconfigurati come appigli conoscitivi, come in IV:

era una vita che girava in tondo con poche diversioni nei paraggi. per orientarsi nel suo territorio bastava una panchina o un pioppo tremulo. e fu senza incertezze che distinse scrosciando scivolare le vetture. non le vedeva ma sentiva l’acqua schizzare fra selciato e copertoni.

Una presenza fortissima è quella del corpo, accennato metonimicamente, per dettagli, con una presa talmente diretta e ravvicinata da risultare straniante, come se il corpo appartenesse a tutti e a nessuno allo stesso tempo, come in VIII:

solo sagome sciolte nella luce che avrebbe a breve incenerito il cielo. ciascuna a malapena dondolando in cerca dello spazio in cui prostrarsi. sospese sulle carni dei distesi ficcavano la faccia contro il giorno. col peso di quel nome che sfiatava dal sale del sudore della bocca. giù sulle cosce e poi sul petto curvo su cui tornava ad ergersi la testa.

Come questi brevi estratti illustrano, si tratta di una scrittura ardua, calibratissima, che richiede picchi d’attenzione e mal si presta a una lettura continuata. Scrittura che si spiega solo nel suo farsi, come ogni autentico atto conoscitivo, magistralmente gestita da un coltissimo, giocoso e provocatorio cantore dei nostri tempi.

Davide Castiglione
www.castiglionedav.altervista.org

Immagine: Ritratto di Francisco de Quevedo, illustrazione dal Parnaso spagnolo © Biblioteca Nacional de España

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).