1. In un’intervista radiofonica del 1964[1], Bartolo Cattafi risponde a una domanda sul diritto di cittadinanza del poeta, affermandone l’importanza al pari de «l’idraulico, l’avvitatore di viti, il meccanico, l’artigiano, il grande romanziere, il pittore…». L’ordine dei mestieri citati non svela certamente una presa di posizione ideologica né una critica del ruolo dell’artista; assente è inoltre qualsiasi tipo di anticonformismo compiaciuto. Si tratta piuttosto di un’affermazione sincera, che riflette le priorità di Cattafi: in primis, quella di un approccio pratico e non affettato alla poesia. Ecco perché egli fa istintivamente il nome dell’idraulico e non quello del grande romanziere, la cui importanza non è certo messa in dubbio né diminuita dai mestieri che lo precedono.
Sempre durante quest’intervista, solo qualche secondo prima, Cattafi afferma anche che l’essenza del poeta è quella del pazzo, ricollegandosi a una lunga tradizione che mette in primo piano il concetto di entusiasmo e il ruolo dell’ispirazione[2]. Senza dubbio per Cattafi, la puntuale tendenza alla precisione, da una parte, e l’assoluta obbedienza all’ispirazione, dall’altra, sintetizzano in maniera pertinente le due anime caratterizzanti la sua poesia, che egli stesso considerava «un altro modo di essere uomini»[3]. Di vocazione ed esistenza si tratta, nel suo caso, nel modo più assoluto e a un tempo più intimo biologicamente: al punto da stupire chi, meno pazzo di lui almeno nella vita di tutti i giorni, coltivava tale “follia” insieme a un impiego aziendale. Forse ingeneroso, ma certamente indicativo, è un ricordo di Giovanni Giudici, il quale non nasconde la propria meraviglia di fronte a quest’uomo, nato soltanto due anni prima di lui in provincia di Messina e salito a Milano “a fare il poeta”:
La sua persona quotidiana era peraltro quella di un piccolo rentier siciliano trasmigrato al Nord e calato nell’avventura di un modestissimo appartamento della periferia milanese, a fare il poeta travestito da poeta, con tutto ciò che di pittoresco e di precario, di anacronistico e di lacerante, può accompagnarsi a una siffatta maschera. […] Pensavo alla sua vita impulsivamente disimpegnata in tempi che erano, per altri, di grigio e testardo impegno[4].
È senz’altro singolare che Cattafi, col tono impulsivo che ricorda Giudici, parli in termini ispirati e concreti del poeta e della poesia, specie all’indomani di un silenzio che durerà ben quasi otto anni e che di fatto era cominciato già all’inizio del 1963. Nelle parole di Cattafi nulla fa presupporre quello che sta per accadere. Dopo l’uscita de L’Osso, l’anima, raccolta che sancisce Cattafi tra le voci più significative della cosiddetta “quarta generazione”, il poeta non scriverà più niente fino al marzo del 1971[5].
Dell’ispirazione e della ricerca di esattezza, che vedremo farsi decisive anche nel momento in cui Cattafi ritorna alla scrittura, dà sincera testimonianza la sua prima fase creativa; un percorso che si snoda dal 1951 al 1964 attraverso una serie di titoli eloquenti: Nel centro della mano (1951), Partenza da Greenwich (1955), Le mosche del meriggio (1958), Qualcosa di Preciso (1961), L’osso, l’anima (1964). Questo approccio alla poesia è da inserire, linguisticamente, all’interno di un registro metaforico amplissimo, che Cattafi gesta e attua in seno all’esperienza novecentista[6], ma i cui esisti estremi sono, per il poeta, figuralità e analogia spinta (di cui la precisione rappresenta l’elemento distintivo). Come ha sintetizzato Luigi Baldacci: «Non c’è cosa nella sua poesia […] che non nasca dalla parola: dalla parola fatta arma impropria, oggetto contundente, non conseguenza logica»[7]. L’istanza di definizione si spiega allora perché la vita, per Cattafi, «si sottrae ad ogni tipo di razionalizzazione»[8] e sembra, dunque, aver bisogno di un contrafforte il più possibile concreto e ben centrato a terra:
Con un forte profilo,
secco, bello, scattante,
qualcosa di preciso
fatto d’acciaio o d’altro
che abbia fredde luci.
E là, sul filo della macchina, l’oltraggio
d’una minima stella rugginosa
che più corrode e corrompe più s’oscura.
Un punto da chiarire, sangue
d’uomo, briciola
vile oppure grumo
perenne, blocco di coraggio[9].
Così recita il testo omonimo di Qualcosa di preciso (1961), «l’unico, vero punto di rottura», come scrive Paolo Maccari[10], della poesia di Cattafi. Il rapporto che sin dall’inizio va sempre più delineandosi, ossia quello che regge il “punto da chiarire” sul filo sospeso tra un reale irriducibile e un umano non razionabile, Cattafi se lo porta dentro fino alla fine («Tirate le somme fare / i conti con lunghe colonne / uno sull’altro cadono gli addendi / ribolle e trabocca il totale […]», Addizione)[11] e resta uno degli elementi essenziali della sua seconda stagione creativa. Si tratta di una questione che il poeta conduce alle estreme conseguenze gnoseologiche e spirituali proprio nella sua ultima raccolta, L’allodola ottobrina, come dimostra Cammino, il testo di apertura:
Tu che mi scorri accanto
come un’acqua fedele nel cammino
di volta in volta raddrizzi paesaggi
storte visioni alle cose imponi
una dolce chiarezza e l’enigma è sciolto
tutto in un filo
il cammino allungato[12].
Di questo «tu», al quale possiamo dare parimenti il nome di ispirazione poetica ed esperienza di vita (arricchita da ultimo da una profonda crisi religiosa che risolve nella fede la coincidenza degli opposti), importa soprattutto l’allineamento che esso determina tra il riducibile e l’irriducibile dell’esistenza. La «dolce chiarezza» dà allora valore retrospettivo anche a un silenzio in cui la poesia era riuscita “reagita” e inaspettata, assieme a un nuovo esercizio, quello della scrittura diaristica.
2. Nel gennaio 1971 Cattafi decide di riportare, per la prima volta, appuntamenti e momenti della propria giornata su un’agenda di colore verde scuro stampata dal Banco di Sicilia. Inizialmente, il poeta usa quelle pagine come un semplice memorandum, ma nel giro di appena un anno, esse assumono i tratti più riconoscibili di un diario. Cattafi giungerà a compilare, con estrema coerenza, otto intere agende — più una nona interrotta a ridosso del 13 marzo 1979, giorno della sua morte — dando l’avvio a un’esperienza di scrittura decisiva per la comprensione della sua opera e lasciando un documento di enorme interesse, specie sotto il profilo del linguaggio. Quella dei diari è una proliferazione d’appunti che fa del proprio carattere “antiletterario” la cifra stilistica più evidente, divenendo nel tempo sempre più connotata e, in un certo qual senso, godibile.
Il contenuto di ogni pagina di diario è vario ma riconoscibile; Cattafi scrive segnandosi quotidianamente avvenimenti e vicende vissute: spostamenti, incontri, visite, telefonate private e di lavoro, questioni finanziarie, film visti, libri letti, il numero delle poesie scritte e riviste, i loro titoli eventuali. Al mero elenco dei fatti, che include anche malesseri fisici, nascite e morti, si alternano descrizioni ispirate della natura e del cielo: «Mi alzo per chiudere le imposte e il cielo è bordato deliziosamente di rosa, carico all’orizzonte mentre è incupito in tutta la sua dimensione di notte. Ma è un sereno fresco, è cristallino (9 dicembre 1973)»; oppure: «Alle 15.10 mi metto a scrivere il diario fuori, sui pieni-e-vuoti della pagina creati dal sole e dalle foglie di rosa rampicante di luce e d’ombra (27 settembre 1974)». Per ognuna di queste possibili categorie, oltre che un ordine e una successione precisi, anche lo stile sembra rispondere puntualmente, denotandosi in modo esplicito e contestuale.
Dalla ripresa della scrittura e ben oltre l’accertamento medico della malattia, la compilazione dei diari diviene, al pari della poesia, un vero e proprio impegno quotidiano. Vittorio Sereni ha definito l’intenso lavoro cattafiano dopo la conferma della neoplasia polmonare come il fatto più stupefacente: «tenace, strenua prosecuzione del proprio lavoro in una “graduale, quotidiana aspettazione della morte”»[13]. Anche per questo, a proposito della poesia di Cattafi, Giovanni Raboni ha parlato non tanto di «una vicenda di “avanzamenti” e “indietreggiamenti” […] la vicenda è molto semplicemente la vita del poeta»[14]. Questione imprescindibile nel caso di Cattafi, che ha ripercussioni importanti sul modo di intendere, se non addirittura su quello di vivere, il momento della scrittura.
3. Per un confronto in senso lato tra produzione poetica ed esperienza diaristica che prende il via nel 1971, Segni è senza dubbio la raccolta cattafiana che meglio si presta a dialogare con la parabola quasi decennale dei diari, in quanto le poesie qui contenute sono composte e sistemate in concomitanza con la stesura delle agende. Delle raccolte che Cattafi ordina e pubblica tra 1972 e 1979, con passaggi continui di testi dentro e fuori i domini strutturali dell’una e dell’altra silloge — il flusso creativo di quegli anni pone il poeta di fronte a un assiduo lavoro di inserimenti, esclusioni e ripensamenti — Segni è quella che conosce il minor di grado di stabilità. Uno dei motivi principali è probabilmente legato al suo contenuto: la riflessione sul rapporto tra segno e inchiostro si configura come un tema dominante della seconda fase creativa di Cattafi e si ritrova, a distanza di tempo, in molti luoghi della sua poesia. Per questa ragione, l’opera che per antonomasia lo contiene non trova fino alla fine il suo punto d’arrivo.
Dalla lettura dei diari si coglie ben presto la consapevolezza del valore a se stante di un nucleo di testi che il poeta andava allora componendo, tanto che già nel 1973 egli pensa di raccoglierli separatamente, col titolo provvisorio di Con l’inchiostro e i caratteri[15]. Anche se la «vocazione segnica», come l’ha definita Stafano Prandi[16], trova libero corso quasi subito dopo la lunga parentesi di silenzio tra 1964 e 1971, vicissitudini legate alla produzione ipertrofica di questo “secondo tempo” cattafiano porteranno a posticipare l’uscita del volume, che nel frattempo acquista forme ulteriori, trasformandosi anno dopo anno. In virtù di questa sua continua estensione, sembra plausibile sostenere che le liriche di Segni rappresentano, sul piano poetico, il recto della scrittura di Cattafi a partire dal 1972, laddove i diari ne sono più compiutamente il verso: «[…] e quando / chino sulla mia vita scrivo / l’atto di presenza / mi effondo mi circondo di parole / copro colmo comando / parole / l’assenza certifico / attesto la finzione» (Nero su bianco)[17].
Va notato certamente un fatto: se i diari svolgono l’esistenza attraverso una scrittura fitta, che sembra addirittura voler fagocitare gli spazi vuoti, le poesie segniche non lasciano dubbi sul cammino percorso dalla parola poetica: sottile e vacua, appena percepibile, se non addirittura invisibile agli occhi. Segni sviluppa in questo senso una serie di immagini essenziali: da traccia scritturale e geometrica («linea», «filo», «striscia», «riga», «retta») a utensìle («corda», «nastro»), a essere della scrittura in carne e ossa — zoo- e antropomorfa — («zampa», «gamba di pi e qu», «dito», «osso»), a secrezione organica («scia», «bava», «filamento»), a cellula agamica («spora»). I segni descritti si fissano nell’immagine finale di morte di un testo che s’intitola, non a caso, Linea:
Potessimo dirci tutto
dalla testa ai piedi
vertebra per vertebra
osso dopo osso
con una sola linea d’inchiostro
tirata lunga
diritta
sazi d’un solo frutto
spenta ogni voce
filare
sopra la nostra scritta
supini scorrevoli alla foce[18].
L’aderenza tra il tipografico e il fisiologico, tra carta e carne, è della stessa natura di quella che il poeta constata il 12 marzo 1972 sul diario, quando a distanza di un anno esatto dal ritorno alla scrittura egli inizia a comporre le poesie segniche: «Scrivo membra e parole». Si determina così un rapporto di complementarietà. La questione per Cattafi è una, ossia che le parole proliferano mentre dovrebbero essere un esercizio esiguo, di frugalità, specie in poesia. Il diario sembra essere la camera di decompressione di questa spinta delle parole che «[…] nascono e crescono in lungo e largo / forza unione violenza / si propagano fitte / a tappeto» (Parole)[19]. Non è un caso che la riflessione sulla presenza della scrittura caratterizzante Segni coinvolga anche una definizione dei suoi rapporti con lo spazio: le «distanze convenienze» (Indirizzi)[20]; il «problema del piano» (Il problema)[21]; il «contendersi / lo spazio» (Impronte)[22] del «biancocarta» e del «neroparola» (Attrito)[23]. E non è neppure un caso che la scrittura diaristica rifletta palesemente sulla pagina la questione dei margini e dell’esatta ubicazione, perché questo è, di fatto, un problema poetico.
4. Abbiamo detto che in quello che è stato definito un «accumulo di scrittura davvero impressionante che supera, certamente, quello di una poesia al giorno…»[24] neppure la scrittura concomitante delle agende cattafiane conosce sosta. Anch’essa “giornaliera”, quella del diario si fa una pratica sempre più necessaria e legata al rito[25].
Se si eccettua la primissima fase della scrittura, dove l’indicazione delle ore sul fianco sinistro dell’agenda del Banco di Sicilia può aver spinto Cattafi a riportare ad intervalli più o meno regolari gli eventi accaduti nell’arco di una stessa giornata, la stesura dei diari segue ben presto un metodo rigoroso. Specie a partire dal 1972, quando la penna scorre fitta e continua sulla pagina, si assiste a una solida coerenza compositiva, la quale coincide spesso con le fasi di maggiore creatività poetica. Cattafi dedica alla pratica diaristica le prime ore della sua routine giornaliera, concentrando la redazione delle agende in quella che lui chiamava “meditazione”, un lasso di tempo variabile, che poteva durare anche più di un paio d’ore: il giorno precedente era trascorso e la mattina successiva egli poteva finalmente stenderlo sulla pagina, “scriverlo”, ormai chiarito, concluso, senza dover ritornare sopra al proprio vissuto per correggerlo. Anche nei casi di recuperi dei giorni arretrati — i diari attraversano alcune fasi di discontinuità: interruzioni o compilazioni pomeridiane e serali — ciò che colpisce è il bisogno di precisione nel ricordare. Se in poesia il « […] disagio compare / quando l’intero bianco scompare / a frotte ti entrano le pecore nere» (Disagio)[26], nel diario sembra invece necessario un inverso movimento, quello della completezza.
Nelle ore di meditazione, passate quasi sempre chiuso nel bagno, mentre scrive il suo diario Cattafi fa conti precisi con le parole («le parole dei cessi», Nesso)[27], risolve le sue poesie e poi le scrive. Alle volte possono servire anche giorni (23 ottobre 1978: «ore 10.30: entro nel bagno, risolvo una poesia da “salvare” che mi tiene in ballo da 3 giorni») oppure solo alcuni minuti, ma tutti sempre scanditi, sempre segnati. Si veda la pagina datata 9 ottobre 1978, dove Cattafi riporta, inserendo il “fatto poetico” tra gli altri di quelle ore (tra le 9 e le 12): «Passeggio al sole, pensando alle poesie aggiustate e da aggiustare per venti minuti».
Se la poesia attraversa vuoti temporali più o meno ampi, il diario sembra altresì far capo a quella legge che, secondo Maurice Blanchot, dovrebbe governare la composizione del journal intime:
Le journal intime qui paraît si dégagé des formes, si docile aux mouvements de la vie et capable de toutes les libertés, puisque pensées, rêves, fictions, commentaires de soi-même, événements importants, insignifiants, tout y convient, dans l’ordre et le désordre qu’on veut, est soumis à une clause d’apparence légère, mais redoutable: il doit respecter le calendrier[28].
Naturalmente ogni esperienza diaristica oscilla tra senso etimologico del termine e ipertrofia della scrittura: gli avvenimenti riportati secondo la successione dei giorni possono esprimersi in un tempo e in uno spazio che trascendono i limiti della pagina. In questo senso, il ciclo solare e lo svolgersi del giornata hanno spesso ben poco a che fare col flusso della scrittura. Al dovuto rispetto del calendario, che Blanchot considera la qualità intrinseca del diario, si affianca il suo contrario; così, all’istanza di una scrittura quotidiana e costante corrispondono mancati compimenti temporali. Nel caso di Cattafi sorprende invece la ricorrente coincidenza tra lo spazio occupato dal racconto del giorno solare e quello tipografico messo a disposizione dalla pagina. Entro lo svolgersi coerente e ben preciso di eventi quotidiani, a destare interesse è inoltre la comprensione del limite che separa l’evidenza della cronaca e una certa qualità della scrittura, specie perché i diari, a un primo sguado, sembrerebbero evitarla apertamente. Ciononostante, anche per Cattafi la scrittura diaristica si fa espressione di uno stile, il cui grado di letterarietà riverbera in modo tutt’altro che ovvio. Se Blanchot ha affermato che uno scrittore può tenere soltanto il diario dell’opera che non scrive[29], nel caso di Cattafi l’oscillazione tra la cronaca puntuale e la creazione letteraria è dunque ancor più significativa.
Dalla lettura delle agende traspare da subito la presenza di quello che può ben definirsi uno stile, nonostante esso si formi come anti-stile in ragione del suo “aspetto” privato. Uno dei meccanismi comunemente riconoscibili è l’interferenza provocata dall’elemento emotivo sul dato reale, esaltato stilisticamente attraverso un’aggettivazione a volte sentita al pari di quella usata in poesia. Essa agisce in modo esemplare sulla componente privata della scrittura. Pur essendo il diario uno dei generi letterari più eterogenei — laboratorio, officina, opera a venire, luogo di sfogo, cronaca di vicende — anche nel caso limite di Cattafi possiamo parlare di un’esperienza in cui la scrittura, come afferma Marthe Robert a proposito dei diari di Franz Kafka, si compone «entre le faits vécue et l’art»[30]. Ci sono, in questo senso, cifre stilistiche palesemente indicative tra le svariate pagine in cui sono riportati i movimenti da un capo all’altro della penisola (dalla Sicilia a Milano, a Cimbro), il ricordato memorandum delle attività quotidiane (dall’innesto dei pini alle partite di poker), gli incontri quotidiani o gli elenchi delle spese. Un caso esemplare è senz’altro quello dai pranzi e dalle cene, in cui sono ricorrenti sia la lista delle portate sia i relativi giudizi culinari. Basta prendere qualsiasi delle pagine dei diari per rendersi conto di un incontro dello stile con la cronaca. Cattafi scrive il 20 giugno 1973: «ore 13.20 Colazione […] forchettata di spaghettini con pommarola nature squisita senza cipolla, comprata tutta da Leoni […] petto di pollo fritto allo spiedo, dentro involucro coriaceo […] roast-beaf segoso […] Caprice des dieux». Oppure nell’aprile del 1978 leggiamo: «ore 12.30 a tavola. Pasta (lasagne con bordi arricciati) con salsa bolognese troppo unta e poco aromatica, una fettina invisibile di cattiva pizzaiola, camembert, biscottini gertiani».
La profusione dei dettagli e il tipo d’uso fatto del linguaggio affiancano al dato reale una notevole stilizzazione della lingua, ossia un compiacimento estetico: dai vezzeggiativi-diminutivi, ai termini stranieri veri e propri, a neoformazioni come l’aggettivo «gertiano», (riferito al nome della suocera, Gerta), all’attenzione per i prodotti usati. Sempre dal diario del 1973, pochi giorni dopo la pomarola squisita e il roastbeaf segoso, Cattafi parlerà addirittura di un «lesso durigno che sa d’età vetusta», (24 giugno 1973) o, più avanti nel tempo, di un vino siciliano «perfettamente svanito, snervato» (15 maggio 1978). Tale stilizzazione si può cogliere anche soffermando l’analisi sulla grande attenzione per le marche, dai vini ai formaggi, alle penne e matite usate per scrivere o disegnare; prima su tutte l’amatissima Shaeffer, di cui Cattafi ha una cura speciale[31], insieme ai più episodici lapis Caran d’Ache, fino a comprendere nella lista oggetti di svariata natura, come le saponette Atkinson o un «parapioggia marrone Citroën» (5 aprile 1978)[32].
Insistere su questi aspetti è essenziale per l’analisi del lessico poetico di Cattafi, anche perché le sue parole dimostrano prima di tutto un interesse oggettivo per le cose; così è la sua scrittura, che non ricerca mai sostituti lessicali più vaghi e altisonanti per gli oggetti, tanto che il sapone di Marsiglia e la carne Simmenthal finiscono nella suggestione analogica della sua poesia:
Amavo da ragazzo per il nome
il sapone di marsiglia
(porto pernod puttane)
aspiravo all’alcali
di purificazione (Marsiglia)[33].
Con dolcezza impazzire al declino
di nostra vita
su questa proda di sopravvivenza
attingo al tascapane
……………………………e posso
dare i nomi più belli al bovino
muscolo rosso cotto nel suo brodo (Simmenthal)[34].
Passando invece alle notazioni fatte nei diari a proposito del lavoro poetico, assistiamo a un doppio movimento della scrittura: da un lato, le parole e i verbi usati, se si esclude l’origine poeticamente nobile di “limare”, si distaccano da quelli riservati al cibo per minor pregio, un linguaggio piuttosto chirurgico e da officina; dall’altro, questa precisione, una «esigenza di sincerità e di pulizia interiore»[35], come sottolinea Ada De Alessandri, si avvicina al carattere primario della versificazione del poeta. Così, ricordando le parole di Cattafi sul diritto di cittadinanza del poeta e il paragone con «l’idraulico, l’avvitatore di viti, il meccanico, l’artigiano», la presenza di verbi come «risolvere», «sistemare», «aggiustare», che ricorrono puntualmente nei diari, danno un’immagine tutt’altro che trascurata della convivenza giornaliera di Cattafi con la poesia. Essa rientra all’interno del giorno solare, senza che sia distinta né da giudizi specifici né da colori particolari della penna, presenti invece nei diari iniziali a denotare alcune attività, come le sigarette fumate o le cure mediche, segnate colla penna rossa[36]. Lo stesso vale anche per nomi di piante, specifici orari e accenni meteorologici relativi alla pioggia, cerchiati invece di verde. In un certo qual senso, sembra quasi che sia il quotidiano a fare da eccezione nella vita del poeta, richiedendo un certo grado di definizione “semiologica”.
5. Indugiamo ancora un momento sull’esperienza della scrittura diaristica e sul suo flusso continuo in relazione ai segni contenuti all’interno. La cosa che colpisce di più è che essi iniziano rispettando prima di tutto certe costanti specifiche: la temperatura da segnare (Cattafi aveva una vera e propria stazione meteorologica con igrometro, barometro ecc.) e l’ora. Quest’ultima sembra imporre al poeta la scrittura, specie in forma di cronaca, nelle pagine iniziali del 1971. Cattafi ricorre inoltre all’uso di frecce che mettono in relazione scrittura e specifici momenti del giorno; si tratta di “segni” sulla pagina, molto simili a curve isometriche e a isobare presenti sulle carte delle previsioni meteorologiche, che delimitano aree specifiche. I diari, specie nella prima fase, sono infatti una “mappatura” senza cancellature[37] del percorso giornaliero: le note si fanno da brevi a più lunghe, poi di nuovo brevissime, e gli spazi bianchi collegati dalle frecce sono numerosi. Già a questa altezza, pur nella diversa disposizione della scrittura sulla pagina, la cronaca dei fatti esprime in ogni caso, la ricerca di una misura, rifiutando il superfluo, «[…] l’incalcolabile resto / al margine di pagina / bordo ed abisso di tavolino» (Il resto)[38].
Gli inserti sul lavoro poetico non compaiono invece da subito, come fanno gli innesti dei pini, i poker e i pranzi. C’è una sorta di anticamera, che inizia col semplice accenno alla lettura, quella dei giornali, fatto che Cattafi segnerà invece quotidianamente, nella fase più tarda. Dopo un mese e mezzo, il 17 febbraio 1971, in corrispondenza di un gran temporale pomeridiano, egli riporta: «Lettura giornali arretrati». È un’operazione che in quei giorni accompagna spesso Cattafi, specie davanti al caminetto acceso: «Lettura giornali caminetto dependance».
Prima di dedicarsi nuovamente alla scrittura poetica, per di più, Cattafi disegna e segna l’inizio di quell’attività il primo giorno del mese di marzo: «Faccio i miei primi disegni a penna (2 penne zia Viola e Pelikan stilografica)». A cominciare da gennaio, ci sono anche frequenti acquisti di china, penne e fogli, ma è a partire da marzo che le indicazioni si fanno precise e permettono connessioni. In questo periodo, Cattafi è in contatto telefonico con Vittorio Sereni e insieme stanno definendo la possibilità di realizzare un volume fuori commercio che uscirà, nel 1973, per l’editore Renzo Sommaruga. È il 12 marzo 1971 e Cattafi riporta sul diario:
11: Tel. a Sereni e la conversazione sul libro per amatori e sua relativa illustrazione rimane a metà: se ne va la comunicazione. Vengono Franz & Brita. Arriva il pacco di carte di V. Venini. […] 17: apro il pacco di Via Venini nella dependance e brucio nel camino un sacco di vecchi e vecchissimi appunti di poesie, minute, copie dattilo e manoscritte, elenchi di titoli di poesie, vecchi quaderni e quadernetti e qualche inedito da distruggere. Brucio anche per errore e con grande dolore un sacchetto di plastica contenente la mia ultima posta di Milano.
Cattafi, come indica la parentesi graffa fatta a fianco del resoconto riportato sopra, impiega moltissimo tempo, dalle 17 (ora cerchiata, secondo la sua abitudine, specie se data significativa) fino alle 22.15, quando segue la cena. Il giorno successivo si apre con la solita segnalazione meteorologica di minima e massima giornaliera, la sottolineatura di «cirrostrati molto diffusi, sole», e un intenso lavoro di revisione: ma nessun cenno, di rimpianto o di giustificazione a se stesso, al giorno precedente e al rogo compiuto. Alle 10.30 sappiamo che sta vedendo nuovamente il suo materiale: «Rivedo le poesie giuntemi da Milano, caminetto acceso». L’attività, interrotta alle 13.30, riprende alle 15: «Ritorno a lavorare alle poesie». C’è un’altra parentesi graffa che congiunge le 15 alle 20 e l’unica cosa riportata all’interno è l’accenno al «caminetto acceso». Nei giorni seguenti, disegno, lettura e lavoro di revisione avverranno sempre davanti al fuoco e il poeta non mancherà di segnarlo.
Parte dell’attività grafica di questo periodo non subirà un trattamento diverso da quello del materiale che Cattafi aveva ricevuto per posta da Milano. Saranno invece le chine salvate a uscire, in forma di acqueforti, nell’edizione Sommaruga del 1973 intitolata Lame, e in un’altra successiva, Quattro poesie e quattro acqueforti, del 1974[39]. Il legame tra inchiostro e scrittura è tale in questo frangente che alla prima proposta di Sommaruga di far uscire un volume fuori stampa di sole 50 copie con chine e poesie, riportata in data 22 ottobre 1973, Cattafi comincia a scrivere testi che possano fare da pendant alle chine, arrivando a usare la locuzione «poesia-disegno»[40]. Proprio le tracce d’inchiostro di questi disegni, in cui il rapporto tra nero e bianco, tra riga e spazio, è inequivocabile, rappresentano un nesso evidente tra la scrittura diaristica e quella poetica. I segni delle chine scampati al fuoco impressionano perché la loro linea esile e nera lega in modo profondo la scrittura dei diari all’avverarsi prossimo di quella poesia che sorge dal rogo delle carte spedite da via Venini. Se la distruzione del testo rappresenta per Cattafi un approccio radicale al “segreto” del momento creativo, è senz’altro indicativo che le agende, a differenza delle poesie e dei disegni, siano le sole a essere conservate integralmente; anche per questo, esse hanno un ruolo tutt’altro che marginale nella sua esperienza poetica, facendosi carico di un precipitato necessario e divenendo, in sostanza, il luogo di riposo di una catarsi rigenerante.
6. Nella Nota ai testi dell’edizione Mondadori delle Poesie 1943-1979 Vincenzo Leotta spiega così i roghi di Cattafi:
C[attafi] sottoponeva a continue e severe verifiche il suo lavoro di poeta, prima, durante e talvolta anche dopo la pubblicazione, dando alle fiamme, insieme con le testimonianze della loro storia segreta, i testi non consegnati alle stampe. Queste operazioni, se da un lato erano dettate da una coscienza critica vigile sin dagli esordi, dall’altro esplicavano una funzione, per così dire, terapeutica, liberatoria, ricorrendo puntualmente alla fine di ogni stagione poetica[41].
Si può cominciare col dire che queste verifiche sono altrettanti segni di un distacco necessario, sentito come vitale e trasmesso da incisi puntuali. Neppure nella pratica del rogo è presente in Cattafi un compiacimento autoreferenziale; vige anche qui la solita, stringente necessità di definizione, «la sconcertante chiarezza»[42] di cui parla Baldacci. Una ricerca del centro, dunque, se non addirittura del punto, in cui stavolta si concentra la traccia residua di ciò che è stato necessario e sufficiente “a dire”. Così, la storia poetica di Cattafi assume il «senso di una nuova nascita, di un ripartire da zero»[43], in cui i roghi poetici, se messi in relazione ai tempi della sua poesia, hanno una collocazione, oltre che un’importanza, strategica:
Ci sono, nella storia della poesia di Cattafi, due momenti cruciali che si contrappongono quasi simmetricamente fra loro […]. Depositi testuali di questi due momenti sono la plaquette Qualcosa di preciso (1961), primo nucleo o campionatura della raccolta L’osso, l’anima (1964), e – a distanza approssimativa d’un decennio – le “Sedici poesie dallo stretto” apparse nell’«Almanacco dello Specchio» (1, 1972) e quasi contemporaneamente confluite in L’aria secca del fuoco[44].
È stato Maccari a sottolineare, giustamente, la continuità sostanziale tra l’ultima raccolta del 1964 e la prima del 1972, nonostante così non appaia:
Quando uscì L’aria secca del fuoco […] si aspettava il poeta là dove lo avevamo lasciato, alle spaventose allegorie dell’Osso, l’anima, e invece lo ritroviamo in un clima incredibilmente mutato. La sua attitudine figurale pare essersi esaurita […] a dominare sono ora un rispecchiamento della realtà tutto di primo grado, una vena narrativa che si sofferma con insospettabile minuzia intorno a dati sociologici e politici della Sicilia. Si deve gridare a un’altra rivoluzione? Non proprio. […] Basta […] scorrere le pagine fino alla parte finale del volume per rendersi conto che le cose stanno altrimenti. In particolar modo nell’ultima sezione, Tenebra e azzurro[45].
La conclusione diventa, allora, il punto di inizio di una congiunzione col passato: esattamente come in Lame, la fatidica raccolta che riporta Cattafi alla poesia, in cui il solo nuovo testo, Fecondità, è posto di seguito a dodici poesie tratte, non a caso, da L’Osso, l’anima. E Lame così si apre: «Se non ci fosse il fuoco / […] / nessun nodo né nolo / niente mare». Ecco dunque il valore di ciò che è taciuto in relazione al verbo, della fine e dell’inizio della scrittura, del «lungo periodo bianco»[46]. Il silenzio, come anche il rogo, «è la prova a rovescio, in negativo, che il fare (e dunque anche il non fare) poesia è, per Cattafi, qualcosa che risponde e obbedisce a regole oscuramente naturali, organiche, biologiche»[47].
7. Il primo rogo di Cattafi, si è visto, ha una durata estesa. Il poeta vi dedica i giorni subito a ridosso del mese di marzo. Il 31 egli indica di aver disegnato col camino spento: è questo uno dei pochi casi in cui egli non rispetta lo spazio dell’agenda a disposizione, che alla fine del mese possiede una pagina di note solitamente lasciate in bianco. Ed è perfino un caso abbastanza raro in cui il poeta riporta considerazioni e giudizi estetici sul suo lavoro, scelta di «5 disegni + 1 da mandare a Vittorio [Sereni, n.d.a.]» compresa.
Nella storia poetica di Cattafi ci sono altri due roghi certi, oltre a tutte le possibili e incalcolabili cestinature, stracciature e ulteriori distruzioni di testi cui si fa di tanto in tanto riferimento nei diari. L’ultimo[48] ha inizio il 30 settembre, pochi mesi prima della morte del poeta:
Prima delle 10 sono fuori a lavorare, passo in rassegna tutte le poesie segniche provenienti da Raboni e le raffronto con quelle che erano in mia mano. Finito il lavoro e viste quali sono da eliminare, prendo tutta la roba, rilegata e no, e con l’aiuto di Gerta, andiamo nell’orto. Lei cosparge tutto d’alcol denaturato e appicca il fuoco. I volumi e i fogli cominciano a bruciare lentamente.
La durata complessiva del rogo è di due giorni. Sulla pagina del 1° ottobre Cattafi scrive:
ore 11.35 a casa. Mi metto fuori a controllare le poesie scartate di “L’allodola ottobrina” e le scarto quasi tutte, ne lascio fuori qualcuna che andrà anch’essa stracciata in seguito. Straccio in cucina dunque le scarto. Gerta intanto mi distrugge col fuoco le poesie non bruciate dell’incendio di ieri. Mi sento più leggero.
A differenza dei molti riferimenti fatti in precedenza alla poesia, traspare qui una partecipazione emotiva: il gesto in qualche modo demandato, nonostante la presenza di Cattafi, l’osservare il fuoco che brucia lentamente la carta, il sentirsi più leggero[49]. Questo perché l’ultimo rogo del poeta ha a che fare con un’altra e ancor più estrema definizione, in cui la certezza della morte gioca un ruolo determinante. A quel rogo segue un lavoro di scrittura e di revisione che terminerà il 6 marzo 1979 a Cimbro. Le ore di questa nota sono comprese tra le 12 e le 23: «[…] arriva imprevisto e graditissimo Giovanni [Raboni, n.d.a.]. Parliamo del più e del meno e introduco il discorso sulle poesie segniche […] e gli lascio comunque le mie ultime precise volontà poetiche». Dopodiché nei diari non si fa più cenno alla poesia, ma soltanto agli eventi del giorno e al decorso della malattia. Cattafi si spegnerà esattamente la settimana seguente.
I due roghi discussi rappresentano una vicenda conosciuta dalla critica; vi fanno riferimento Leotta e Raboni, i quali, assieme a Sereni e altri, erano al corrente di questa pratica. Sono i roghi ricordati, nello specifico, da Prandi nella sua attenta ricostruzione della vicenda poetica di Cattafi. Ritrovato nelle pagine dell’agenda del 1977 è invece un rogo accaduto in data 4 maggio. Tra il due e il tre di quel mese siamo in una specifica fase di ricapitolazione, in cui il poeta sistema le sue cose di allora. Dopo il rogo, segue un lungo lavoro di copiatura che finisce il giorno 21 maggio di fronte a Sereni, che lo risente a breve distanza per esprimere il proprio giudizio positivo. Se la necessità di una definizione ha una sua specifica collocazione nel 1971 e nel 1978, anni segnati da una evidente coincidenza tra inizio e fine, va certamente sottolineato che il 1977, con l’uscita di Marzo e le sue idi, segna anch’esso un altro momento determinante di fronte all’incessante ressa dell’anima che dall’alfa e dal beta «va oltre / troppo oltre l’omega» (Oltre)[50]. Era stato Cattafi a volere che questa raccolta uscisse proprio nel mese di marzo[51]. La coincidenza tra l’edizione del libro e il titolo apre all’ipotesi di un doppio parallelismo, tanto involontario quanto suggestivo: il primo riguarda il momento in cui Cattafi ritorna alla poesia dopo otto anni di silenzio, alla metà di marzo del 1971; il secondo, invece, si ricollega direttamente all’inizio della stesura delle poesie segniche che avviene l’anno successivo, sempre intorno alla metà di quel mese. Prandi constata inoltre che all’altezza di questa raccolta Cattafi ha compiuto uno scarto innegabile:
È un percorso che si lascia alle spalle come tappe evolutive quei fulcri d’invenzione poetica che avevano permesso un’eccezionale spinta verticale, come il tema dell’autodafè de L’osso, l’anima, quello del “minimalismo materico” de L’aria secca del fuoco, infine quello dell’evocazione del lato oscuro del reale ne La discesa al trono[52].
In più, nel biennio 1974-1975, avviene nuovamente qualcosa a livello creativo, un ennesimo ma ben più celato silenzio. Come riportato nel diario di 1976, in data 25 gennaio, Cattafi scrive: «Compongo dopo più di due anni una poesia». Sebbene la poesia di Cattafi conosca momenti più o meno brevi di quiescenza, si tratta in questo caso di un tempo significativo, «una pausa, un vuoto»[53] che si cela facilmente tra l’alternanza serrata di scrittura e di pubblicazioni successiva a L’aria secca del fuoco. Il silenzio di questi due anni si riverbera inevitabilmente anche sui volumi posteriori alla Discesa al trono; bisogna infatti attendere il 1977 per l’uscita della plaquette Nel rettangolo dei teoremi e la pubblicazione di Marzo e le sue idi. A partire da quel momento si verifica un passaggio ulteriore, e i quasi due anni di sedimentazione creativa non sono certamente estranei alla novità del risultato.
La produzione di Cattafi trova, all’altezza del 1977, una nuova concentrazione, con una raccolta e un riordino compiuti a fronte di un lavoro di revisione che comprende nello stesso momento poesie segniche, Marzo e le sue idi, L’allodola ottobrina e Chiromanzia d’inverno. La catabasi de La discesa al trono[54] ha così la sua proiezione epicentrica ne L’allodola ottobrina, definito da Baldacci «un commentario delle estreme stazioni di appressamento alla morte con, in prospettiva, il punto cruciale»[55]. Quel punto sarà, non a caso, al centro delle liriche di Chiromanzia d’inverno, che usciranno postume nel 1983: «[…] ritornare indietro tra le cose / punto per punto sbriciolarne il lato / terrestre» (Misurare)[56]. Alquanto interessante è che nel frattempo la scrittura diaristica non s’interrompa mai, costituendo «il denso sostrato sul quale si staglierà il lampeggiare di una creatività frenetica»[57]. Specie in quel momento di vuoto, il diario svolge il medesimo ruolo di commentario di cui parla Baldacci a proposito de L’allodola ottobrina. Il libro, di cui Cattafi fa in tempo a vedere le prime stampe, esce in seguito all’ultima sistemazione da parte del poeta delle proprie carte e dopo l’ultimo rogo, tra 30 settembre e 1° ottobre 1978. In uno dei testi della raccolta, dal titolo Nei cerchi[58], il fuoco evocato sembra addirittura ingerire l’intera realtà in un ultimo rituale concentrico, che trova compimento in un’idea di fine che può ripetersi ad libitum: «Prendono fuoco in cerchio / gli astanti gli addobbi gli arredi / e quando è tutto tiepida cenere / altro compare già disposto in cerchio / nei cerchi concentrici abbi fede […]»[59]. Proprio il riferimento al fuoco e alla circolarità ridanno la cifra esatta del ruolo di questa perfezione in cui avere fede, perché a essa ne corrisponde una ulteriore, quella della vita, la cui pur frammentaria pienezza si prepara a divenire cenere, a chiudere il cerchio: «Pochi sparsi frammenti / […] frammenti staccatisi da un arco / un cerchio […]» (Frammenti)[60].
La vita o l’arco della vita, in senso eracliteo, fanno dunque da contrappunto finale alla trama del fare poetico di Cattafi. In questo senso, l’uomo assume, al pari della poesia, il valore di un conglomerato di segni vitali e forieri della morte, perfetti, allo stesso tempo «“corpo scrivente” e agente, “corpo scritto” e agito: un creatore detronizzato»[61]. Così la penna si fa un prolungamento del corpo e il segno può allora aspirare al silenzio umano; quel silenzio definitivo che fa brillare la parola, come in Grafite, una poesia appartenente a Segni:
La grafite che ha scritto
per tutta la vita
ora tace la parola più bella
il granello di brace
sepolto nel suo buio[62].
Il simbolo del fuoco sembra anche qui rimandare all’esperienza del rogo. Il «granello di brace» rappresenta poeticamente il compimento di quella perfezione che Cattafi aveva cercato nei roghi dei suoi testi tanto quanto nella sua scrittura. Si tratta del gesto che la vita concede alla creazione e alla distruzione, alla memoria e alla dimenticanza, e che si pone in contatto fisico e sensoriale con essa:
O apatiche scritture
membra ammansite
materie inerti
ammucchiate in fondo all’anno
scritte luminose di novembre (I segni e il senso)[63].
La ricorrenza del simbolo del fuoco, specie in Segni, arriva addirittura a confrontarsi con l’evento reale, come in Scritte di fuoco:
Nelle scritte di fuoco
da te fatte
non v’è traccia di lettere
vanno le informi per proprio conto
crepitano s’alzano s’allargano
ti prendono la mano
ti bruciano il braccio[64].
Difficile non vedere in quest’ultimo testo un concreto riferimento all’ultimo rogo, quello di Cimbro, che segna una separazione tra la scrittura e il compiuto ottobre della poesia di Cattafi; così come è difficile non riconoscere nel braccio che rischia di essere bruciato quello della suocera Gerta, la quale lascia cadere i testi del poeta nel fuoco. Cattafi ne riporta la cronaca esplicita in un altro testo datato 8 febbraio 1979 dal titolo Fuoco, che uscirà postumo in Chiromanzia d’inverno:
Labile vuoto
non posso darti altro
nel bene e nel male
– e qui scorre vicino alla mia mano –
che il fuoco fatuo lungo il filo del sogno
pensa invece se a notte ti scontrassi
con tronchi paglia carbone taniche di benzina
tutte le glorie accese
nel lungo ululato di sirena[65].
È fuor di dubbio che la poesia, al pari della scrittura diaristica, ha rappresentato per Cattafi un momento essenziale di definizione della propria esperienza umana. Si è trattato in entrambi i casi della rielaborazione estetica di un certo quantitativo del proprio vissuto (e in questa considerazione si deve comprendere anche l’idea di un rifiuto dell’estetica come rielaborazione artistica del reale). Il delicato rapporto tra l’artistico e l’umano, l’accordo che dir si voglia tra l’uomo e l’espressione artistica, in questo caso manifestato dalla scrittura, conduce alla constatazione di un progresso che può essere tanto quello del testo quanto quello della vita. Bachelard vedeva già, in questa progressione, la forma di un’opera: «Quand une activité psychique se constitue de façon ordonnée et se développe comme un progrès, il semble que cette activité prenne la signification d’une oeuvre, la signification d’une esthétique de l’humain»[66].
Questo saggio è apparso in «Otto/Novecento», 2, 2014, pp. 113-129.
Immagine: Cattafi in un disegno di Luca Crippa per la prima edizione di Nel centro della mano, 1951 Bartolo Cattafi Official Website
[1] Intervista a Bartolo Cattafi [ = B], a c. di Benito Gaglio, ottobre 1964, parte dell’archivio privato del poeta.
[2] Cfr. Raoul Bruni, Il divino entusiasmo dei poeti, Torino, Aragno, 2011.
[3] Giacinto Spagnoletti, Poesia italiana contemporanea, Parma, Guanda, 1959, p. 741.
[4] Giovanni Giudici, Un poeta alla Hemingway, in AA.VV., Per Bartolo Cattafi. Atti del convegno di studi su Bartolo Cattafi organizzato dal gruppo Ciclope, Acireale 6-8 dicembre 1979, intr. di Giovanni Raboni, n. di Leonardo Sciascia, in “Lunarionuovo”, 6/7, 1980, p. 50. Per una ricognizione critica su Cattafi, si vedano gli interventi in volume di Silvio Ramat, Bartolo Cattafi: Qualcosa di preciso?, in I passi della poesia. Argomenti da un secolo finito, Novara: Interlinea 2002, pp. 195-201; Andrea Cortellessa, Bartolo Cattafi, poesia all’osso, in La fisica del senso. Saggi e interventi su poeti italiani dal 1940 a oggi, Roma: Fazi Editore 2006, pp. 190-97; Andrea Inglese, Intorno a Cattafi, in La scoperta della poesia, a c. di Massimo Rizzante e Carla Gubert, Pesaro: Metauro Edizioni 2008, pp. 103-17, e Luca Lenzini, Bassani, Parronchi e Cattafi, in Stile tardo. Poeti del Novecento italiano, Macerata: Quodlibet 2008, pp. 185-93. Su rivista, si vedano i saggi di Massimo Gezzi, La prigione e la dimora: il percorso poetico di Bartolo Cattafi, in “Atelier”, VII, 26, giugno 2002, pp. 34-56, e Andrea Genovese, Bartolo Cattafi, poeta nell’anima, in “Centonove”, XVIII, 3, gennaio 2011, pp. 38-39.
[4] Cfr. Raoul Bruni, Il divino entusiasmo dei poeti, Torino, Aragno, 2011
[5] Di un altro, meno ampio e netto silenzio poetico che avviene tra 1974 e 1975 faremo menzione successivamente.
[6] Cfr. Giovanni Raboni, Introduzione, in Bartolo Cattafi, Poesie 1943-1979, Milano: Mondadori 1990 (20011), pp. XI-XVII e Paolo Maccari, Introduzione, in Spalle al muro. La poesia di Bartolo Cattafi, Firenze: SEF 2003, pp. 11-23.
[7] L. Baldacci, Premessa, in B. Cattafi, Ultime, Palermo, Idola-Novecento 2001, pp. 10-1.
[8] Antonio Spadaro, L’altro fuoco. L’esperienza della letteratura, II, Milano: Jacabook 2009, p. 148.
[9] B, Qualcosa di preciso, in Cattafi (20011), p. 42.
[10] Maccari (2003), p. 19.
[11] B. Cattafi, L’allodola ottobrina, Milano: Mondadori 1979, p. 127.
[12] Ibidem, p. 13.
[13] Stefano Prandi, Da un intervallo del buio. L’esperienza poetica di Bartolo Cattafi, Lecce: Manni 2007, p. 180.
[14] Raboni, in Cattafi (20011), p. XIII.
[15] L’informazione è ricavata dalla pagina di diario datata 27 giugno 1973. L’anno successivo, nel marzo del 1974, Cattafi parlerà nei diari di «poesie sui Segni», con la lettera maiuscola.
[16] Prandi (2007), p. 164.
[17] Cattafi (1986), p. 94. Lo stesso tema e la stessa cifra stilistica ritornano anche in La linea il filo, testo appartenente a L’allodola ottobrina.
[18] Ibidem, p. 87.
[19] Ibid., p. 60.
[20] Ibid., p. 25.
[21] Ibid., p. 28.
[22] Ibid., p. 29.
[23] Ibid., p. 21.
[24] G. Raboni, Introduzione, in B. Cattafi, Poesie scelte (1946-1973), Milano: Mondadori 1978, p. 23.
[25] Significativa in questo senso è l’agenda del 1973, in cui Cattafi ricopia esattamente quanto scritto in precedenza su un’altra agenda, forse troppo piccola per lo scopo e da cui strappa la prima pagina. Gli eventi dei primi due giorni di gennaio sono riportati parola per parola, la pagina strappata conservata, lo spazio avanzato «obliterato», per così dire, da una scrittura in diagonale: una dedica di buon auspicio per la moglie Ada.
[26] Cattafi (1986), p. 31.
[27] Ibidem, p. 97.
[28] Blanchot (1959), p. 271.
[29] Ibidem, p. 277.
[30] Ibid.
[31] Se per Raboni la Parker «è la penna» (17 gennaio 1977), Cattafi riserva alla Scheaffer aggettivazioni così sentite da rivelarne appunto «l’osso» e «l’anima».
[32] Interessante per evidenziare ulteriori rapporti tra scrittura diaristia e poetica il lavoro di Silvia Frailes, Bartolo Cattafi e la “mercanzia sterminata”: il lessico commerciale nella poesia cattafiana da «L’osso, l’anima» a «La discesa al trono» , in «Otto/Novecento», 1, gennaio/aprile 2008, pp. 95-104.
[33] B. Cattafi, Chiromazia d’inverno, Milano: Mondadori 1983, p. 54.
[34] Cattafi (1979), p. 101.
[35] Ada De Alessandri Cattafi, La spiritualità di Bartolo Cattafi, Milano: Libri Scheiwiller 1989, p. 43.
[36] La prima, del 6 gennaio 1971, ha un sapore del tutto sveviano: «Ultima sigaretta», con l’aggettivo «ultimo» che si ripete in più luoghi.
[37] Cattafi ammetterà, più tardi, un fatto significativo: «mi secca di cancellare, di correggere» (20 novembre 1978).
[38] Cattafi (1986), p. 79.
[39] Il titolo originale dell’edizione Sommaruga è Arnesi. Rosso di Sera. Nidi. Ombre Statue Presenze & Quattro Acqueforti.
[40] Cfr. S. Freiles, I segni di Bartolo Cattafi tra parola e immagine, in «Otto/Novecento», 3, settembre/dicembre 2012, pp.141-60; ID., Ut pictura poësis: figurativo e informale nell’opera pittorica e poetica di Bartolo Cattafi, in «Plumelia». Almanacco di cultura-e, a c. di Aldo Gerbino, Bagheria-Palermo: Officine tipografiche Aiello e Provengano 2010, pp. 259-82.
[41] Vincenzo Leotta, Nota ai testi, in Cattafi (20011), p. 321.
[42] L. Baldacci, La discesa al trono, in «Il Giornale Nuovo», 25 marzo 1975.
[43] Raboni, in Cattafi (1978), p. 23.
[44] Raboni, in Cattafi (20011), p. XI.
[45] Maccari (2003), pp. 19-20.
[46] Raboni, in Cattafi (1978), p. 23.
[47] Ibidem, p. 21.
[48] Leotta definisce questa verifica finale: «l’ultima, la più deprecabile per noi», in Cattafi (20011), p. 321.
[49] L’aggettivo tanto ricorda l’erleitet di Roberto Bazlen rivolto a Foà dopo aver ridotto drasticamente il proprio romanzo, distruggendone almeno tre quarti. Vedi R. Bazlen, Scritti, Milano: Adelphi 1984, p. 278.
[50] Cattafi (1986), p. 65.
[51] Cfr. l’intervista di Vittorio Sereni a Cattafi per la Televisione Svizzera Italiana del marzo 1977, in cui Sereni ricorda il rapporto «superstizioso, scaramantico» di Cattafi con la poesia e la volontà precisa di far uscire a marzo il volume di Marzo e le sue idi, in www.bartolocattafi.it, sez. Mediateca, Video, cons. 13/12/2011.
[52] Prandi (2007), p. 155.
[53] Baldacci, in Cattafi (2001), p. 7.
[54] Cfr. S. Freiles, La discesa al trono come storia di una catabasi: il dantismo di Bartolo Cattafi, in «Critica letteraria», III, 148, 2010, pp. 574-91.
[55] Baldacci, in Cattafi (2001), p. 9.
[56] Cattafi (1983), p. 58.
[57] Prandi (2007), p. 98.
[58] L’importanza di questo simboli geometrico è stato sottolineato da V. Leotta, in Il cerchio e la linea: lo spazio e il tempo ne L’allodola ottobrina, in L’inverno di Bartolo Cattafi e altri studi, Caltanissetta-Roma: Salvatore Sciascia Editore 1999, pp. 13-27.
[59] Cattafi (1979), p. 28.
[60] Ibidem, p. 30.
[61] Prandi (2007), p. 167.
[62] Cattafi (1986), p. 32.
[63] Ibidem, p. 131.
[64] Ibid., p. 45.
[65] Cattafi (1983), p. 95.
[66] Gastone Bachelard, Fragments d’une poétique du feu, Paris: PUF 1988, p. 115.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).