Cinque poesie in anteprima dall’ultimo libro di Paolo Maccari, “Quaderno delle presenze”, uscito nella collana ‘novecento/duemila’ a cura di Raoul Bruni e Diego Bertelli, con introduzione di Gian Mario Villalta, per Le Lettere.
STRADE STERRATE
Ombre trafitte, alberi grandi
delle nostre colline,
foglie grigie dello sterro
smosso da biciclette o motorini…
Nessuno prenderà il posto di nessuno.
Tutta l’insopportabile serietà
dell’adolescenza
irrora il tormento
della nostra coscienza.
Lecci, capogiri, convinzioni, denso
sangue che affiora, improvvise
apparizioni di animali
provocate dalle nostre presenze.
La razionalità tremante
dell’adolescenza
ci vieta speranza
che non sia imprevisto a batticuore.
Con rughe, fiatoni, dissimulata vigilanza
eccoci ancora, se capita, nei boschi
a sfiorare a dita aperte le cortecce
rimuginando che sono pelle
di una cosa che sente,
una cosa che come noi dentro
curva in cerchi ciechi le ferite e le svolte
finché le radici sanno bere
e non scorda la pioggia di cadere.
QUALCOSA DI MALE
Si erano fermati a mezzacosta
del poggio di fronte alla collina
su cui siede il paese vecchio,
nascosti dietro giovani acacie,
solo parzialmente a riparo
dalla vista di chi percorreva la via
che si arrampica fino a Colle Alta.
Un uomo calvo risaliva la via.
Il padre di un loro amico.
Si fermò facendoli tremare.
La distanza non dava sicurezza
che guardasse proprio loro,
ma guardava nella loro direzione.
Li aveva scoperti, riconosciuti?
Stavano fermi. Cercavano di capire
se l’uomo li guardasse per davvero.
Ma cos’altro poteva guardare se non loro
sul poggio disabitato e monotono di bosco?
Non era più divertente, d’improvviso,
far qualcosa di male.
Tornava male soltanto, il proibito.
Stavano chini ormai dietro le acacie
non per nascondersi alla vista di quell’uomo
ma per meglio scoraggiarsi
e maledire per conto suo ognuno
la bella trovata di lasciare il campetto e la pace
dei coetanei meno svegli, del gioco
che avevano interrotto sogghignando
con fare strafottente e misterioso.
SEGRETI
A volte, da alcune minime vene
che crede addirittura di poter mappare
mentre improvvise incidono una ragnatela
tra lo sterno e la gola,
sale una forza che s’insedia nei pensieri
e dittatorialmente li colora:
un sapore debilitante
si mischia alla saliva degli impulsi.
Diventa la cosa più vulnerabile e insulsa
che si scorga nel paesaggio di cui fa parte.
Le linee del volto si distendono
dopo ogni ultimo respiro che esala
con la discrezione sapiente prescelta
da ogni animale quando si sente morire.
Ma non muore. Abbandono e terrore
si annullano piroettando nella ragnatela
come un vecchio ragno e una mosca intraprendente
che si scambino travestimenti e appetiti.
Nessuno nota in lui alcun fermento, niente
gli sembra preferibile al silenzio.
Attimi dilatati e gremiti di conoscenza
come quelli che attraversa
potrebbero servire a una teoria elastica del tempo.
Quando trascorrono via, se sta fumando
dà un tiro appena esitante alla sigaretta,
sorseggia, se sta bevendo, la bevanda,
si fa ripetere dal figlio l’ultima domanda.
SOGNO DI NOI
Il sogno, infantile e senile, che da sveglio
mi capita di sognare se avverto desolazione,
è la confluenza di tutte le persone che nel tempo
siamo state, io e chi ho amato, in una sola essenza
che abbia qualcosa di noi tutti e soprattutto
la coscienza di ognuno sciolta in una coscienza collettiva.
Un mostro, una creatura essenziale che ci racchiuda,
come la fusione di tutti i proiettili
di una battaglia senza superstiti
fusi insieme in un bizzarro
blocco senziente di metallo.
Lì dentro ci agitiamo ancora, spingiamo
di qua e di là le nostre volontà
ma incapaci, così fusi, di crearci vicendevole dolore.
Piuttosto, il movimento testimonia ancora vita,
è accolto dall’amalgama come un solletico
che ridice ciascun nome
e il sollievo di averlo stinto dentro
la fornace che ci ha indeterminato.
Appena nati, e adulti, vulnerati, e ragazzini
dal passo molleggiante, insieme, ognuno condiviso,
con i sé stessi che è stato, con le voci che ha avuto,
con i movimenti che lo hanno guidato,
con i pensieri, anche i più lievi, che lo hanno abitato:
uno strepito instancabile e inudibile
dentro il gomitolo compatto che siamo diventati
per non perdere nessun filo di noi.
E sogno che sia un’aggregazione quieta e lucida e costante,
e sogno che sia una repubblica eterna o almeno
perfettamente sorda alle notizie della morte.
NON SIETE ANDATI DA NESSUNA PARTE
Un uomo scalda l’enigma che lo lima,
una storia di passi e alzate all’alba e cene disertate.
Una neonata al nostro cospetto: una bambina: una ragazza.
Bagni nei fiumi freddi. Pelle eburnea. È sua figlia.
Strappi a sangue nel tessuto
fino a inondarne l’ordito.
Spazi stellari, praterie, boschi floridi di tronchi
giovani, piantati in festa, che vi circondano,
si sbracciano verso voi
in fuga di dimensione. Noi dietro. Costretti
a una corsa convulsa per lande impossibili.
Insostenibili, restate a strappi, uniti, ombre di folgori,
nella nostra mente invasa, mentre si capovolge.
Ma moniti no: non permettono i vostri
e nostri cenni di convertirvi, così attivi, in moniti.
Moniti, perdurando, no. Storie di passi.
Di orme smarrite e ricalcate. Monumenti no,
finché vi infiltrate nei nostri orditi,
li irrorate di sangue guizzante, li irradiate
di permanenza, di ancora vita senza oltraggi,
silenziosa, scorrevole, interna
come il segreto degli strappi e dei cenni e dei rammendi.
Storie di strade lunghe, di inseguimenti incerti,
orme per sempre fresche, passi delicatissimi
dietro le vostre chiare schiene
finalmente non più gravate,
ma sempre, per rimanere
riconoscibili, un po’ curve.
Le vostre schiene, la vostra andatura, i vostri passi.