Un lasso di oltre un decennio intecorre tra questa nuova raccolta di Stefano Dal Bianco, Prove di libertà (2013) e il precedente Ritorno a Planaval (2001). Tempi che chiedono rispetto alla poesia, sulla scia dei lunghi silenzi che hanno abitato alcuni tra i nostri poeti maggiori (Montale, Sereni) e in netta controtendenza rispetto alla fretta quasi compulsiva – e ai miei occhi un po’ sospetta – dell’uscita in volume annuale o biennale di poeti più giovani, forse conseguenza indiretta dell’illusione di presenza data da internet e dalle nuove tecnologie.
Queste di Dal Bianco sono, letteralmente, delle Prove di libertà: con tutto il carico di azzardo (libertà) e di incertezza (prove) assunta volontariamente che questa espressione comporta. Sono poesie che integrano narrazione e riflessione, che non temono l’autobiografismo aneddotico (15 aprile, Alchimia dei poveri), od omaggi tematici ai maestri, soprattutto Sereni e Zanzotto. Per esempio, «Chi parla in me con voce di contralto» in La conquista del futuro ricorda il dialogismo interiore di Sereni, mentre la tematizzazione del vuoto del poeta di Luino si ritrova nel «vuoto vissuto male» e nel «vuoto così intero» delle poesie in incipit al libro, per non dire della diretta citazione «musica d’angeli» e in altri punti del testo, come l’istanza metapoetica a p. 42; immagini e temi zanzottiani emergono soprattutto in Albori di io, pp. 29-30, e in Teoria della neve, p. 82.
Eppure, la sfida più grande per un poeta che è anche profondo conoscitore di Zanzotto (sua la curatela, insieme a G. M. Villalta, del Meridiano dedicato al poeta di Pieve di Soligo) è stata quella di cercare altrove, vale a dire dirigere la propria ricerca poetica su una strada tanto orizzontale quanto verticale è invece quella del maestro. Scelta, a livello di poetica, forte e debole al tempo stesso: forte perché coraggiosa nell’assunzione di una forma meno impattante ma probabilmente più adatta a esprimere la rinuncia e il ripiegamento di questi anni; debole perché, consapevolmente, si sceglie di de-monumentalizzare la letteratura, di non nasconderne la natura provvisoria di prova (parola che, tra l’altro, ha in sé anche la connotazione, più positiva, di presenza e indizio: «non sopporto / nessuna cosa che sia fuga» afferma Dal Bianco in Dislivello. Primo appello, p. 67).
Questa operazione e opzione di orizzontalità, concetto su cui il poeta si soffermò anni fa durante un illuminante, benché allora per me disturbante, incontro poetico al Collegio S. Caterina di Pavia, si realizza tramite l’adozione di un tono basso e un numero minore di modulazioni (ritmiche, ma soprattutto lessicali) che forse esprimono meglio la fase storica (e letteraria) di transizione o declino in cui ci troviamo ad agire: «resteremo una carezza congelata / in attesa di tempi migliori» (Per amore, p. 65).
La fiducia, messa a dura prova (Uno che non si fida, p. 37) sembra dunque possibile solo nella finzione, la suprema finzione di cui parlò Wallace Stevens: così l’esplicita invocazione alla poesia di Dal Bianco («Portami via, poesia […] Portami nell’unica suprema bugia», Portami via da qui, pp. 12-13) è tanto fuori tempo massimo da porsi come vera, stravolta alterità: sembra avverarsi qui un pronostico di Fortini, il quale alluse a una possibile futura riabilitazione dei modi lirici in paradossale funzione de-stabilizzante. Alla finzione esplicitamente invocata si oppone l’ingiunzione, appena venata di di rassegnazione, «che nessuno mi chieda di mentire più» (A uno dei tanti che rimarranno fermi, p. 41).
La responsabilità della scrittura non deve più annullare quella degli affetti, come si intuisce in questi bellissimi versi, scolpiti eppure molto umani al tempo stesso: «In questa nostra zona franca ma non senza memoria / siamo ancora nel momento in cui scrivo / e mi allontano, sì, da noi, da casa nostra ma per poco» (Ho toccato la felicità stasera…). E un affetto paterno quasi straniante, appena increspato dalla distanza dell’attenzione (e della potenzialità espressa dalla costruzione ipotetica) si ritrova in Faccia probabile di Arturo (p. 20), che riporto per intero:
E se dovessse guardare per aria
in un giorno che il sonno
non gli permettesse di sorridere continuamente
e rendesse l’espressione seriosa o meditata,
come farebbe un padre io di sicuro
mi innamorerei.
Il tema filosofico della nominazione e dell’esistenza è un altro fulcro del libro: «che cosa sarò stato io / prima-di-essere-stato-chiamato?» (Albori di io, p. 29) o anche, con gioco di parole sul nome dell’autore, «prima che torni a essere dal bianco» (Come ti chiami, p. 31). Dalla fiducia, nonostante tutto, nella nominazione, è solo naturale che si ribadisca, a fine volume, a metà tra appunto didattico e appello comune, l’importanza etica dell’interrogare: «Interrogare è importante qualora si preveda l’eventualità di dare ascolto ai barlumi intravisti» (Essere umani, p. 105). Chiude così il volume una nota di speranza, la Libertà affermativa del SI, dopo l’inizio basso del DO, in un gioco di note musicali che strutturano le sette sezioni di questo significativo libro.
Immagine: Henri Matisse, L’escargot, 1952-1953
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).