Sei poesie in anteprima da “Prima di nascere” di Claudio Damiani in uscita oggi per Fazi.
«Quando tu lasci, ti lasci portare via
come ti lasciasti portare
quando nascesti, senti che continua la vita,
per questo l’appartenenza è importante
a una terra a una famiglia a una lingua
perché sentiamo che la nostra gente
continuerà la sua storia».
«Sì ma anche se l’appartenenza non ci fosse,
se fossimo degli apolidi, degli eremiti,
dei mendicanti vaganti, senza memoria e storia
lo stesso apparterremmo alla specie,
alla comunità degli uomini e dei viventi.
Anche quando ci allontaneremo dalla terra
anche quando convivremo con le macchine
e le macchine diventeranno vive
come vivi siamo noi, forse macchine
di qualcun altro che ci ha fatto,
anche allora morire vorrà dire
fare un salto nella comunità
lasciare quel corpo a cui ci eravamo attaccati
e quel tempo, e saltare nella vastità
del futuro, e vedere forse anche il passato
caro, di cui soltanto avevamo veduto i resti
e vaghe tracce, ma che ora vediamo
tutto intero, come veramente è stato».
*
Femio e Demodoco, i due cipressi in fondo al giardino
al limite della discesa del colle
che ora, nella memoria, mi figuro un dirupo
ma non mi ricordo veramente com’era.
Il cielo azzurro dietro di loro incorona
le loro chiome oscure, un maschio
e una femmina forse, ma io gli detti i nomi
dei due poeti omerici. Il più magro
– forse il maschio – era piegato
fortemente da un lato, l’altro più cicciottello
era venuto su dritto, e davanti
i monti azzurri, a pochi passi la casa
dove io e Beata dormivamo. Fuori
il tempo girava come un orologio
sopra le nostre teste posate sui cuscini
mostrando tutte le sue forme, e note
sì che io mi accorsi che la natura ogni giorno
era diversa, e non la storia.
Era quello un piccolo osservatorio
e io e Beata tutto il giorno studiavamo.
E poi la lunga camminata a Fraturno
quotidiana ci aveva reso asciutti
e magri. Ed ecco, anche la via a Fraturno
era maestra, e il lago era la scienza
e l’universo, il mondo
in un piccolo tondo, e su le nubi aeree
lente posavano e tutto misuravano
tutto vedevano, tutto ricordavano.
(Fraturno è un piccolo lago sabino nei pressi della villa di Orazio a Licenza, protagonista del primo libro di Claudio Damiani: “Fraturno”, Roma, Il Melograno – Edizioni Abete, 1987, con due disegni di Beate von Essen).
*
La mente la devi spingere, è questo quello
che devi fare, la devi spingere avanti
fino a coprire tutte le galassie
tutta la materia oscura e l’energia oscura,
devi spingerla e spingerla, sempre più lontano
fino all’ultimo atomo della totalità dell’essere,
non devi lasciare niente, neanche un atomo, ricordati,
anche le cose che non sappiamo, che non conosciamo
anche quelle che non ci immaginiamo, anche quelle devi metterle
(lo so che è strano, ma devi fare così)
ed ecco comincerai a sentire una forza,
un’energia che penetra nel tuo corpo
da dentro. Questo è lo strano,
che non viene da fuori, come ci si aspetterebbe,
ma viene da dentro
come se – capisco che ti puoi stupire –
l’intero universo fosse dentro di te
ma tu non ci pensare, lasciala venire
e spandersi per bene in tutto il tuo corpo,
e poi goditi la sorpresa
di essere sfuggito (lo so che è strano) alla morte.
*
Cari umani, io da questa vostra corsa tecnica
mi dissocio
capisco che è il nostro destino, il nostro compito
e vi lascio fare, non dico niente
solo che io mi dissocio, sono qui tra gli alberi
in questo bosco sto seduto in silenzio, non faccio niente
soltanto prego, e aspetto.
Il fuoco del tempo lo sento come brucia
lo sento sfrigolare, è un rumore debolissimo
ma lo sento, è come una forza che ci tira via,
io mi scrollo da lui e mi scaldo le mani
al suo calore debole,
sento una forza entrare dentro di me
e vedo che tutti salutano e si incamminano
verso un luogo lontano.
*
In fondo noi galleggiamo in un abisso
che è come un fuoco che ci tiene sospesi
e stranamente non ci brucia,
quel fuoco ci ha fatto nascere e ci farà morire,
noi non dobbiamo mai allontanarci da lui
anche se ci fa paura, anche se ci divora
ma al tempo stesso ci ama,
ci crea e ci distrugge come cera duttile,
noi crediamo di essere noi, di essere diversi
ma in realtà siamo lui,
siamo le punte delle sue fiamme invisibili.
*
Se il primo trapezio, che abbiamo lasciato,
era la grande parola delle religioni,
era la filosofia, era la scienza fino a noi,
cosa sarà il nuovo trapezio?
Forse una parola scritta dentro la natura,
un messaggio segreto che ancora non abbiamo trovato
che sta lì e che ci aspetta,
come quando stai cercando qualcosa
e ci stai vicinissimo,
solo una sottile parete ci separa da lui
o forse è già sotto i nostri occhi
e ancora non lo vediamo.
Non è una formula, non è un’equazione
per quanto semplice e meravigliosa,
è qualcosa che risponde alla nostra angoscia
insopportabile, e ci calma, ci acquieta
e ci fa continuare il nostro viaggio.