di Marco Corsi
Il termine ‘plaquette’ è un termine non omogeneo che dentro di sé, nel corso della nostra letteratura, e in specie di quella novecentesca, rappresenta una gamma piuttosto indistinta di pubblicazioni: una delle plaquette più celebri è senza dubbio “Finisterre” di Montale stampata a Lugano nel 1943. Plaquette, in questo caso, si traduce come silloge poetica, di consistenza non sempre rilevante, ma centrale nell’individuare un movimento poietico, un laboratorio d’intenzioni e di scrittura. Il significato cambia radicalmente se, in maniera meno ambigua, al termina plaquette si accompagna la dicitura “d’arte”: in questo caso, infatti, ci troviamo di fronte ad un prodotto editoriale nel quale il testo interagisce a più livelli con la stratificazione delle immagini oppure con le intenzioni tipografiche dello stampatore, dell’incisore, dell’artista, che portano a compimento l’opera. Nonostante questa fondamentale distinzione, lo stesso termine di plaquette d’arte (una delle “forme espressive” più comuni delle edizioni di pregio) può individuare almeno due tipologie “testuali”: il libro illustrato e il libro di dialogo (a seconda della maggiore o minore interferenza delle immagini col testo). Tipologie dalle quali si distingue nettamente il libro d’artista (a volte indicato come libro-opera), realizzato nella sua complessità e completezza dall’artista, e privo di quella compagine testuale che caratterizza invece le interrelazioni tra forma e contenuto caratterizzanti un’edizione d’arte. Addirittura, questa classificazione risulta priva di stabilità se non suffragata da una casistica ben ordinata, che permetta di stabilire con certezza una tassonomia piuttosto attendibile, nonché accertabile. Cercando di non abbandonare il campo, e rinviando soprattutto agli studi bibliografici e ai contributi di uno studioso di rilievo nel settore come Michele Cometa per quanto riguarda, in maniera imprescindibile, il concetto di ekphrasis, credo che si possano scegliere alcuni esempi sintomatici rispetto a quanto si tentava di dire.
Nel 2005 Editalia e Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato hanno realizzato i multipli del volume Don Chisciotte di Mimmo Paladino, ispirati al grande romanzo di Cervantes, al cui interno si leggono quattordici componimenti di Giuseppe Conte: un volume raro, prezioso, complesso, che conta ben 60 opere e che s’impone per la fitta trama di acqueforti, acquetinte, collage, impressioni tipografiche, fustellature, rispetto alle quali le poesie di Conte intessono una specie di controcanto (Mimmo Paladino, Don Chisciotte – Libro d’artista).
Questo Don Chisciotte è da considerarsi certamente un libro d’artista: è dall’intenzione (e dall’inventio) di Paladino che è nata la disposizione delle carte, la fuga di certi colori, l’incastonatura di certi “leporelli” all’interno della rilegatura, col risultato di una multiforme leggibilità cui si offrono da guida i motivi poetici e le terzine di rincalzo di Conte, oltre al cunto di Mimmo Cuticchio dal titolo Sui sentieri di Don Chisciotte (inserto su CD di non trascurabile valore). Un’opera totale, dunque, sospesa tra letteratura arte e musica, nell’incontro di espressioni “sorelle” e indistintamente offerte al lettore/fruitore dell’opera, come se davanti gli si parasse uno schermo multi-sensoriale, capace di stimolare ciascuno dei suoi sensi, compreso il gusto di una stampa curata nei minimi dettagli. «A dar forza a questo libro – scrive Corrado Bologna nella prefazione critica di quest’edizione – convergono molti artisti-donchisciotte. Con Paladino dialoga in polifonia Giuseppe Conte, che, sensibile alla seduzione delle forme antiche (la rima baciata, il sonetto), colma di luce mediterranea e di miti europei i suoi versi teneri e ironici, capaci di coniugare l’incongruo (il testo di Yorick, i minareti e i mulini a vento, il corpo di Dulcinea bello da impazzire, le salsicce e la crostata alla pera di Sancio), quasi balenando in un display frantumato che scorre sopra, sotto, attraverso le figure di Paladino». Invero, convergono ancora diversi stimoli a partire da queste affermazioni, a partire da una certa comunanza di “tropoi” fra la “Transavanguardia” di Paladino e il “Mitomodernismo” di Conte (sintomaticamente concomitanti, almeno a partire dalla metà degli anni Ottanta), cui volutamente solo si accenna, per lasciare al lettore curioso lo spazio di una piccola ricerca.
Sulla stessa linea si inseriscono le collaborazioni di Anna Cascella Luciani e Ettore Spalletti: anche in questo caso, ne derivano vere e proprie opere d’arte, che portano stampati nel loro nome i segni e i caratteri strettamente legati alla rappresentazione visuale e scritturale di un concetto. Leggiamo dal prologo di un’intervista rilasciata a Claudia Quinteri: «Spalletti si pone sempre in maniera radicale e assoluta riuscendo però a imporsi in modo cosciente e delicato, come una musica dolce». L’intervista, consultabile in rete, e tratta dal n. 10 della rivista «Sofà» (dicembre 2009-febbraio 2010), sembra quasi parafrasare il senso di Colore per colore (2000), dove, con una certa tenuità e intensità, si confrontano nove poesie di Anna Cascella Luciani e nove colori di Ettore Spalletti.
Un’opera seriale, che prende le mosse dalla dimensione del monocromo per muoversi attraverso l’abrasione o la leggerezza della poesia, così da configurare un ambiente materico dove le forme si dischiudono a dispetto dello spettro cromatico, insistendo sul margine della percezione e, con essa, dell’esistenza. «Azzurro del cielo sereno/ scoperto motivo sicuro/ tranquillo certo dell’essere/ al mondo velato d’azzurro/ che ancora domanda l’origine/ e l’urlo»: è questo lo spazio della reazione dettato dalle parole della Cascella, in un dialogo apparentemente muto, ma che agisce secondo l’esempio dei lieviti. Le parole montano sulle cose al modo delle immagini (o della loro negazione figurata dall’uso del colore “unico”), individuano una fessura nella trama e poi propagano l’eco dell’elemento perturbante, fino a modificare il senso originario, aumentandolo.
Sono solo alcuni motivi, questi, per i quali si rende necessario un esame autoptico, tale da legare insieme tutti i fili del discorso. Qui il carattere della rassegna prevede una certa brevitas, comunque motivabile attraverso la funzionalità e il principio dell’intenzione. Ripartiamo, allora, con in mano un ipotetico fil rouge, dai libretti della collana «Isola» di Mariagiorgia Ulbar (Collana «Isola»), senza disturbare più di tanto quel principio di “riproducibilità meccanica” tanto discusso, ormai, dagli studiosi di estetica. Entriamo nel campo dei libri illustrati, per intenderci, quelli che siamo abituati a vedere nelle librerie: quei libri dove l’elemento figurativo solo in apparenza asseconda lo stimolo della percezione poetica (penso, ad esempio, alle Poesie di ghiaccio di Vivian Lamarque illustrate da Alessandro Sanna tra i «Pesci d’Argento» di Einaudi nel 2004) e contribuisce alla sintesi interpretativa da parte dell’osservatore/lettore, almeno quanto sviluppa le altre possibili interpretazioni sottese all’indagine stilistico-retorica. I libretti realizzati e prodotti dalla Ulbar, con la preziosa collaborazione di Andrea Bruno, hanno un formato ridotto (A6) e prevedono, dopo una prima selezione dei testi da parte della curatrice in accordo col poeta, la scelta dell’illustratore sulla base del principio di affinità o di contrasto tra la partitura verbale e la sensibilità grafica di quest’ultimo. Un principio forse indeterminabilmente euristico, sul quale agisce l’occhio esterno di chi con passione cura ciascuna edizione in carta e inchiostro: un principio, in fondo, che ci permette di aprire le porte alle ultime generazioni di poeti e di artisti.
A questo proposito, parlando di segni in concreto e in astratto, di astrazione della concretezza, dei processi di sottrazione del noto alla logica dell’espressione tradizionale e di una sua transcodificazione emotiva, un esempio di vivacità e d’interesse si legge e si scruta nel libro scritto a quattro mani da Maria Zanolli e Laura Veronesi, intitolato Dopo le parole (Campanotto 2011).
Si tratta stavolta di un libro a stampa, ma solo all’apparenza ci troviamo lontani dal discorso intrapreso, se si guarda davvero all’effettiva congruenza con cui vengono costruite le geometrie verbali della Veronesi e le brevi liriche della Zanolli. Sono i segni a contenere il massimo potenziale espressivo e narrativo, prima ancora delle parole, disposte comunque a cedere di fronte all’immersione nel canto, per recuperare una dimensione più prossima all’ironia costitutiva dell’ordine simbolico. Sia ben chiaro che qui l’aggettivo simbolico non ha niente da dividere con l’ambito metaforico: i simboli sono i caratteri usati dalla Veronesi – effettivamente non infiniti e quindi soggetti ad una riduzione inevitabile –, che rappresentano la sintassi poetica svolta in esercizio di scrittura dalla Zanolli. «è solo un po’/ di poesia/ e la poesia/ non finisce mai/ dopo le parole»: alle parole segue, fisiologicamente, lo spazio bianco. È nel bianco, comunque, che prendono forma e ordine i segni, le ulteriori possibilità della parola, sia pure con l’intempestività degli atomi lucreziani che piovono di traverso sulla pagina, oppure in composizioni armoniche che riprendono i motivi della vita naturale (come se esistesse un ordinamento naturale anche per i segni, una pianta dei segni – ad esempio, un albero delle parole).
Diverso, e forse meno suscettibile di fraintendimenti, è il caso che riguarda Lunga un anno di Francesco Accattoli. Questa cartella, a tiratura limitata e numerata a mano dall’autore per cento copie su carta cotonata, edita da Sigismundus nel 2013, oltre a diciannove poesie di Accattoli e alla nota introduttiva di Tommaso Di Dio, contiene sei opere pittoriche di Linda Carrara. Non c’è numerazione di pagina, eccetto la numerazione progressiva che precede il titolo di ciascun testo poetico: le immagini sembrano perdersi nel tessuto della lingua, nelle sue inflessioni persino dialettali, per disegnare una vera e propria contropartita, per attuare una sorta di bilancio di ciò che si deposita a partire dalla pronuncia. Anzitutto l’oscurità del nero che campisce e solleva tutte le figure, e che tiene addirittura sospeso quel tuffatore lanciato incontro alla morte, che campeggia sulla copertina. Lo scritto di Tommaso Di Dio ci rivela fin da principio quanto la scelta non risulti infine decorativa e anzi testimonia di qualcosa che giunge a compimento come in un’immagine centrale, ovvero la presa di coscienza di un’identità, più o meno coincidente con quella del soggetto. Manca un vera e propria gerarchia degli oggetti in queste poesie di Accattoli (ma non è agli oggetti che si guarda, se non nel caso dell’oggetto d’amore), così come nelle rappresentazioni mute della Carrara, con i loro baricentri mobili e piuttosto catafratti. Anche la scrittura di Accattoli, del resto, se almeno si legge l’attacco di Perdiamo consistenza (detto in dialetto Scialìmo), ha qualcosa che ricorda il gesto dell’artista: «Vorrei avere il cuore come il tuo/ sbiadire i volti, scolorirli/ a furia di sfregarci i polpastrelli». Così, nel rapporto tra pieno e vuoto nella consistenza dello sfumato e dell’irrappresentabile («la muta dei contorni», cito da Maroso, undicesimo componimento), si definisce il confronto con le placide manie e con le ossessioni quotidiane che vivono nelle tele riprodotte come punti nevralgici nella costellazione di questi solidi versi che ripercorrono la storia privata di un anno, il consolidarsi inespresso di un individuo, nella convinzione non più sottaciuta verso il finale che «È tutto una menzogna» (Punti di vista), anche la realtà.
Benché risultino da un impegno diverso, insomma, anche le esperienze di Zanolli e Accattoli testimoniano di un sempre vivo interesse editoriale e di una sempre partecipe comunanza d’intenzioni tra esperienza verbale e visiva.
[Per quanto riguarda E. Spalletti – A. Cascella Luciani, Colore per colore, 2000, i crediti fotografici sono di: Patrizia Leonelli]
*Il presente saggio si inserisce nell’ambito del progetto “FIRB-Futuro in Ricerca 2010”, dal titolo Verba Picta. Interrelazione tra testo e immagine nel patrimonio artistico e letterario della seconda metà del Novecento, che ha sede presso il Dipartimento di Lingue, Letterature e Studi Interculturali dell’Università di Firenze.