di Marco Corsi
Dalle carte al libro, passando per poesie e immagini: è questo un percorso, forse ancora non troppo esplorato, che spesso connota in maniera sotterranea e rilevante la stratificazione del senso all’interno di un’opera. Ci sono casi piuttosto recenti le cui notizie trapelano in ambienti ristretti di bibliofili e mercanti d’arte, costretti ad un circuito limitato dalla stessa tiratura delle copie, ma indiscutibilmente rilevanti per una lettura alla quale il critico non dovrebbe sottrarsi, confidando nella ricerca della molteplicità di valori strutturali all’interno del libro di poesia. Basta aprire Vite pulviscolari (Mondadori 2009) di Maurizio Cucchi e scorrere l’indice dei testi e delle sezioni, per leggere come due delle sette parti che lo compongono già erano uscite in veste autonoma in edizioni di pregio: L’orizzonte degli eventi, con sette xilografie di Emanuele Becheri, stampato a Prato da Canopo nel 2006, e Il denaro e gli oggetti, accompagnato da otto collage di William Xerra e realizzato a Milano dalle edizioni Il Faggio nel 2006; mentre ancora un Vite pulviscolari compare nel 2008 con disegni di Turrìa, quasi ad annunciare l’imminenza della nuova raccolta. Non diversamente si possono citare casi ancora diversissimi che riguardano l’opera di Milo De Angelis, Biancamaria Frabotta, Anna Cascella Luciani, Giuseppe Conte, e, tornando indietro tra le generazioni di poeti, Andrea Zanzotto, Giovanni Giudici e Giovanni Raboni. Quest’ultimo, in particolare, ci ha consegnato parte dell’ultimissima produzione proprio nella cartella (possiamo chiamarla così) intitolata Sull’acqua (Edizioni Colophon 2003), realizzata insieme ad Enrico Baj in seguito alla mostra personale tenuta dall’artista presso la Galleria Giò Marconi di Milano: mostra documentata dal catalogo di Enrico Baj, Idraulica, Milano, Skira 2003, corredato da uno scritto di Gillo Dorfles e da un intervento dello stesso Raboni. Quanto brevemente accennato risulta indicativo rispetto ad una pratica, ad una consuetudine della poesia che rimane tutt’ora viva anche tra i “nuovissimi”, come ad esempio Giulia Rusconi (recentemente entrata a far parte della fitta e seletta schiera degli autori della Pulcinoelefante di Alberto Casiraghy); o Simone Zafferani, che prima di pubblicare Da un mare incontenibile interno (Ladolfi 2011) ha affidato la poesia a volte sembra che un pensiero astrale alla collana “I libretti del mattino” a cura dell’incisore André Beuchat. Tante, ancora, e variegate, potrebbero essere le note e le chiose da porre a questo discorso, ma non vogliamo qui rimandare oltre i motivi dell’omaggio e seguire il filo di un discorso che muove solo apparentemente a latere di quanto appena affermato.
Una possibile traccia allinea nel tempo (dagli anni Trenta fino ai Settanta) i nomi di Vittorio Sereni, Mario Marcucci e Alessandro Parronchi, intersecando uno dei momenti più accorati contenuti nella trama emotiva di Stella variabile. Raccolta ultimativa, questo si sa, della lirica sereniana, pubblicata nel 1982 per i tipi di Garzanti, eppure già abbondantemente depositata negli anni precedenti in plaquette e – per frammenti – in cataloghi d’arte, almeno fino alla realizzazione del preziosissimo volume per i Cento Amici del Libro nel 1980, illustrato da Ruggero Savinio, già configurato come Stella variabile, a partire dal titolo. Sereni, Marcucci, Parronchi, si diceva: nomi che si intrecciano nel carteggio pubblicato a cura di Barbara Colli e Giulia Raboni da Feltrinelli nel 2004, debitamente siglato come Un tacito mistero. Nell’arco di un tempo piuttosto lungo, che va dal 1941 al 1982, la corrispondenza tra Sereni e Parronchi spesso nomina quel giovane artista viareggino che rappresenta una delle scommesse di Parronchi, qui richiamato per le doti di critico d’arte. Mario Marcucci, infatti, fa la sua prima comparsa nelle lettere all’altezza del 20 gennaio 1943, mentre ancora la guerra infuria e la vita di Sereni comincia ad essere piegata da quelle vicende che segneranno – in maniera irrimediabile – soprattutto il Diario d’Algeria (Vallecchi 1947). Parronchi scrive all’amico: «È qui aperta al “Fiore” una mostra di Marcucci, e si chiuderà alla fine della settimana prossima. Guarda se hai occasione di venire; anche se fosse per poche ore, se tu mi avverti, guarderò di fare in modo di ritrovarci subito». Qui sta per Firenze, luogo da dove parte nuovamente una missiva del 20 giugno 1945 in cui Parronchi rendiconta la mostra di Marcucci, presentata da Mario Luzi, tenutasi ancora alla Galleria Il Fiore dal 5 al 24 maggio, lamentandosi in qualche modo – tuttavia – della stroncatura stampata da Manlio Cancogni su «La Nazione del Popolo» in quegli stessi giorni. Per non perdere ora il filo, e riunire subito le questioni che ci interessano diremo di quanto traspare da Un tacito mistero, per collegarlo al saggio su Marcucci pubblicato da Parronchi nel suo Nomi della poesia italiana contemporanea (Arnaud 1944), e quindi ricondurlo all’occasione di un libretto non direttamente ascrivibile tra i “libri d’arte” di Sereni (tanto da essere escluso dalla conta che ne hanno fatto Dante Isella e Barbara Colli in Amici pittori, Luino 2002), eppure sintomatico relativamente a certe questioni che diremo schiettamente di poetica e utili altresì a inferire certe interferenze tra poesia e pittura nel caso specifico di: V. Sereni, Tre poesie per Niccolò Gallo – M. Marcucci, Nove cartegialle, Edizioni Galleria Pananti, Firenze 1977.
Partiamo con ordine. Il ritratto più sintomatico di Mario emerge dalla lettera che Sandro invia a Vittorio in data 25 novembre 1946, dove si dice: «Di Marcucci ti dirò che vive chiuso irreparabilmente a Viareggio e produce assai. I tempi attuali, che a tanti anni fanno frullare per il capo ideologie e fisime avveniriste, non gli consentono che il genere della pittura “eterna”, quella cioè che è stata e sempre sarà, e tu devi capire bene che razza di condanna sia». Un bozzetto senza il minimo intento caricaturale, in cui si riconoscono i tratti dei due poeti riuniti nella costanza e nell’attenzione alla figura che caratterizza i passaggi emotivi dell’arte di Marcucci, sintomaticamente scelta – in prima battuta – dallo stesso Sereni per un progetto (mai andato in porto) di riedizione di Frontiera presso l’editore Mancinelli, che richiedeva «dieci disegni intercalati» alle poesie (si veda la lettera del 15 gennaio 1946). I brani che tuttavia illuminano con più decisione i tratti di consonanza tra Sereni e Marcucci, si trovano in realtà nello scritto già citato di Parronchi incluso tra i Nomi della pittura italiana contemporanea. Tre, in particolare, i passaggi cui si vuol fare riferimento, di seguito allacciati per asindeto: «Un’arte che non descrive e però non si serve di passaggi logici, ma evoca»; «Le forme sono perfettamente finite, ma l’artista ha inteso che il loro aspetto, in natura, è sempre variabile»; «L’emozione esiste, non la cosa, e l’artista non è che il mezzo attraverso cui si libera la materia figurata». Con un minimo di forzatura possiamo constatare quanto tali aspetti costituiscano il centro della riflessione sull’arte di Sereni, come testimoniato dallo scritto che lo stesso poeta dedica a Carlo Mattioli, ora incluso in appendice al volume di Poesie e prose stampato da Mondadori nella collana degli “Oscar” (2013). Riflessioni che, per quanto conclusive e in sé definite rispetto al loro carattere esegetico, si fanno realtà della poesia, tanto che, adottando alcuni sistemi di transcodifica piuttosto immediati, alle parole di Parronchi su Marcucci e a quelle qui appena suggerite di Sereni su Mattioli è impossibile non accostare alcuni dei versi più emblematici di Sereni, che stanno nel mezzo di Stella variabile, tra le pieghe di Un posto di vacanza: «A quegli esperti avrei voluto dire delle altre ombre e colori/ di certi attimi in noi, di come ci attraversano nel sonno/ per sprofondarci in altri sonni senza tempo,/ per quali secche e fondali tra riaccensioni e amnesie,/ di quanti vi spende l’occhio intento/ all’attraversamento e allo sprofondo prima che aggallino/ freddati nel nome che non è/ la cosa ma la imita soltanto». Impossibile tentare un confronto puntuale, assecondando lo spazio a disposizione entro cui si cerca di delimitare il discorso: rimane quella specificità che è propria sia della poesia che dell’arte, ovvero la capacità di suggerire, attraverso la suggestione di una certa fissità e di una certa perentorietà, quel significato continuamente turbato, continuamente in essere e in divenire che costituisce il vero e ultimo tramite della nostra vita e della nostra comunicazione umana.
A queste note vuole solo seguire, un’altra esemplificazione minima, dettata appunto dall’occasione che ha riunito le Tre poesie per Niccolò Gallo di Vittorio Sereni alle cartegialle di Mario Marcucci, mettendo ancora in risalto come le qualità di poesia e pittura in fondo condividono un terreno comune nei percorsi della rappresentazione e dell’emozione. Scrive ancora Parronchi di Marcucci nel saggio già citato: «Paesaggi, figure, su cui la mano si è indefinitamente attardata a ritrarre le superfici, e altre figure, dove è passata soltanto per fermare quel poco che non fu bruciato dall’emozione: qui l’intensità occorsa praticamente all’esecuzione è dato intuirla dal modo come, più che travestirsi, essa si nasconde e scompare addirittura. L’emozione esiste, non la cosa, e l’artista non è che il mezzo attraverso cui si libera la materia figurata». E questa materia figurata, questa emozione che riesce a bucare la presenza delle cose, a farsi ancora più concreta ed esigente di esse, si rivela appieno nella sostanziale “illocality” che domina Toronto sabato sera; in quella tragica e serena immagine degli oleandri che «dicono no dicono no […]/ mossi dal venticello» di Niccolò; nella «mortale calcinazione» che affligge Roma in Verano e solstizio. Un suggerimento arriva ancora dalle paginette che Francesco Donfrancesco ha composto in un catalogo tardo dell’opera di Marcucci, nelle quali risuona piena la voce del Sereni qui non citato, ma altrove ravvisabile: «una luce – sono parole di Donfrancesco –, che non è quella naturale né la sua evocazione, ma che scava le forme dal loro interno, le rende lievi, come veli che svelano mentre rivestono; quella luce dell’invisibile vuoto è l’irriducibile sostanza» (cfr. Mario Marcucci, Moretti & Vitali 2005). E questi sono solo alcuni dei motivi che investono in pieno la strutturazione semantica di Stella variabile, se almeno si tiene presente che molte delle sue parti hanno sostenuto il primo confronto con diversi artisti in altrettante esperienze di collaborazione: Addio Lugano bella raffigurata da Ernesto Treccani, che nel 1972 realizza due litografie per il VI e suggestivo movimento di Un posto di vacanza (Edizioni della Galleria “L’Incontro” di Milano); Gianni Dova di nuovo all’opera su uno stralcio del poemetto sereniano; l’incontro con l’espressività tremenda di Franco Francese, al quale si legano le ansie di Quei tuoi pensieri di calamità, oltre a Paura prima e Paura seconda, nonché Madrigale a Nefertiti e Autostrada della Cisa; arrivando fino a Biasion, Kodra, Silvano Scheiwiller e tanti altri rimasti inevitabilmente fuori dal conto.
Le interazioni, quindi, si fanno inevitabili, necessarie e si completano a vicenda. I codici trovano un punto di scambio, un potenziale ulteriore di significazione, dato dal più o meno occasionale accostamento. Non rimane che seguirne le tracce, attraverso edizioni centrali ed altre piuttosto periferiche, quasi sempre difficilmente reperibili, ma necessariamente ineludibili.
*Il presente saggio si inserisce nell’ambito del progetto “FIRB-Futuro in Ricerca 2010”, dal titolo Verba Picta. Interrelazione tra testo e immagine nel patrimonio artistico e letterario della seconda metà del Novecento, che ha sede presso il Dipartimento di Lingue, Letterature e Studi Interculturali dell’Università di Firenze.