Se si confronta la resa luziana de La vie antérieure di Baudelaire (2), del 1948, con quella di Parronchi del 1955, si aprono interessanti prospettive, specie tenendo conto del fatto che Luzi, a quell’altezza, si sta ponendo definitivamente oltre la soglia che separa l’eredità ermetica — processo che per sintetizzare avviene prima con la varietà del Quaderno gotico (1946; poi 1947) e dopo con le liriche che confluiranno in Primizie del deserto (1952) — dal nuovo corso espressivo di Onore del vero (1957). La quartina baudelairiana si apre così:
J’ai longtemps habité sous de vastes portiques
Que les soleils marins teignaient de mille feux,
Et que leurs grands piliers, droits et majestueux,
Rendaient pareils, le soir, aux grottes basaltiques.(3)
In Luzi essa diviene la prima strofe di un sonetto sapientemente ordito:
Dimorai sotto portici spaziosi
che la marina empiva di faville
e la sera i pilastri maestosi
tramutavano in grotte di basalto.(4)
Per tutto lo svolgimento del testo, i tratti stilistici e lessicali, pur carichi di una profonda evocazione, rimandano a una disposizione stavolta più neoclassica della lingua (direi foscoliana); ciò rappresenta in questo caso un elemento sintomatico (ancor più perché avviene in traduzione) per comprendere la transizione delle raccolte poetiche coeve rispetto alla prima parte della produzione di Luzi. Parte dell’esperienza di traduzione di Baudelaire, quasi a fare da snodo, riverbera in modo evidente in certi testi luziani: «ad evidenziare l’impatto dell’esperienza simbolista sul Luzi ‘ermetico’, ci sono di esempio due componimenti, Periodo e Patio, tratti da Avvento notturno; qui si rilevano, pur nello scarto stilistico (giacché Luzi ci sembra molto più prossimo a Mallarmé) […]». Si vede accadere lo stesso in Marina, una lirica(5) di Luzi che segue di un anno la data della versione: «Cha acque affaticate contro la fioca riva, / che flutti grigi contro i pali. […]»(6). Si tratta di una poesia strettamente legata a un ricordo, la cui lontananza non si fa immagine esotica come ne La vie antérieure, ma si nutre del medesimo stato di beatitudine che alla realtà non è concesso di provare: «Onde volgendo immagini […] / Là vissi a lungo di voluttà calme» nel Baudelaire luziano; «[…] là fui vivo, / […] / Che memorie, che immagini abbiamo ereditate / […] che esistenze fuori della letizia e del dolore» nel Luzi lirico. E sul versante dell’esotismo, sempre del 1949 e antecedente a Marina, non si dimentichi la strofe conclusiva di Est: «Ah il tempo quali arcani giorni genera, / che viaggi, che ancore levate. / I relitti si vestono di fiori / e d’ansia, le chimere distendono le ali»(7). Il confronto sulla resa formale e sul contenuto di queste interferenze stilistico-lessicali provano la presenza di rapporto vicendevole tra langue luziana e baudelairiana; nel caso specifico de La vie antérieure, il simbolismo baudelairiano può avere per l’inquietudine esistenziale di Luzi — quella in cui si muta quello «spiritualismo ermetico-fiorentino» (da intendere in senso lato) che contraddistingue tutta la generazione del ’14 — il medesimo valore che una sinopia ha per un affresco.
In Parronchi, anch’egli in un momento di transizione rispetto al canone ermetico, l’evocazione dell’attesa metafisica (Un’attesa è il titolo della sua terza raccolta, 1949) si stringe più saldamente sul dato reale (da leggere, qui, scambiando vicendevolmente le funzioni di sostantivo e aggettivo dei due termini): la consistenza del vero con il quale il “vago” polisenso (per Parronchi più che mai di ascendenza leopardiana) si confronta sublimandolo (basti pensare ai titoli e alle immagini di sospensione delle sue prime due raccolte, I giorni sensibili, 1941, e I visi, 1943) perde nella resa baudelairiana la sua paradigmatica atmosfera al di fuori del tempo e dello spazio per assumere un tono più discorsivo:
A lungo ho abitato spaziosi loggiati
che il sole marino irradiava di luci
e i grandi pilastri diritti e maestosi
rendevano simili a grotte basaltiche, a sera.(8)
Nel 1955 la poesia di Parronchi acquisisce, attraverso il filtro più intimistico de L’incertezza amorosa (1952), una nitidezza di immagini sempre maggiore, come dimostrano le liriche de Il coraggio di vivere (1956); anche per quel che riguarda la traduzione, la fedeltà lessicale all’originale va in questa stessa direzione, facendo risaltare sia le differenze con la resa di Luzi sia le soluzioni meno aderenti al testo di Baudelaire. Se l’incipit «A lungo ho abitato» manca in un certo qual senso d’intensità di fronte al «Dimorai» luziano, che in quel solo verbo esprime la durata avverbiale dell’azione, rendendola assoluta, la scelta di Parronchi è certamente coerente con il francese «J’ai longtemps habité». Di contro, lo spostamento del sostantivo «le soir» — inciso usato da Baudelaire con valore avverbiale (altamente evocativo in quella posizione, come si rende conto anche Luzi, che lo utilizza in tal maniera) — oltre la misura calibrata del verso, reso oltretutto in forma di locuzione, ha l’effetto contrario all’«uso passepartout della preposizione a» di marca ermetica.(9) Anche in ragione del grado discorsivo esplicito che denota la poesia di Parronchi già a partire dalle raccolte degli anni Quaranta, quelle più strettamente legate all’ermetismo, la sua appartenenza innegabile al clima poetico di quegli anni — del tutto evidente in molte soluzioni linguistiche del poeta (sia sufficiente a riprova la quartina finale di Saluto, contenuta ne I visi: «tornerò qui d’intorno ad alitare / dolce forse così come la neve / cade i freddi cortili, ai davanzali / delle case ove in quiete ombre s’avverano».) — convive con scelte lessicali e soluzioni stilistico-sintattiche che non alimentano, di pari grado a Bigongiari e Luzi, i capitoli di quella “grammatica ermetica” abbozzata da Mengaldo. La propensione a un «romanticismo visionario»(10), quello tipico di Nerval (di cui non va dimenticato il ruolo di traduttore), e la lezione surrealista di Eluard (presente anche nel Quaderno francese) misurano l’ermetismo parronchiano su un diverso grado di incidenze, all’interno del quale il poeta utilizza un ventaglio espressivo da subito più eccentrico rispetto al canone ermetico. Il riverbero sulla pratica traduttoria si mostra sia nella «pronuncia arcaizzante non esente da punte auliche nelle sue traduzioni»(11) sia in una certa onirica lucidità del dettato poetico («di sogno lucido»(12) parla Parronchi a proposito di Nerval). È nel solco di questa più commista attuazione di registri che Parronchi compie anche appropriazioni poetiche, come accade in modo lampante con Mallarmé. Si prenda il verso in chiusura del Toast funèbre: «Et l’avare silence et la massive nuit»(13), che nella versione italiana diventa un personalissimo spunto intertestuale – ossia il verso finale dell’Ultimo canto di Saffo leopardiano —: «E l’atra notte e la silente riva».(14)
Rimanendo ancora sul piano del confronto tra i due poeti, si vedano i modi rivelatori con cui viene resa la celebre Il n’y a pas de paradis di André Frénaud, risposta a un’altrettanto celebre affermazione di Dylan Thomas, gli intenti del quale erano quelli di far udire «la musica del Paradiso». Da Parronchi:
Non so udire la musica dell’essere
Non ebbi potestà d’immaginarlo
Il mio amore s’accresce a un non amore
Non procedo che acceso al suo rifiuto
Mi portan via le sue braccia di nulla
Il suo silenzio mi separa dalla vita!
L’essere che arde sereno io l’assedio
E quando alfine sto per coglierlo negli occhi
La sua fiamma ha bruciato i miei m’ha incenerito
E che è dopo che è
poesia il suo miserabile sussurro
è questo il nulla non il paradiso.(15)
Si noti come il poeta traduttore lasci scivolare la lirica in un unico lungo periodo di due strofe che è destinato a scontrarsi, al terzultimo verso, nel singhiozzante «E che è dopo che è», cui segue la sola coppia di versi che non hanno maiuscola. Quel verso non si spiega neppure a partire da un confronto con l’originale, lontano da una soluzione sintattica tutto sommato così poco elegante.
La sola risposta possibile ci viene da un certo gusto di Parronchi nell’unire monosillabi e bisillabi in modo non eufonico o in catene: «voce ne non ci dà» in E’ qui; «e a un» in Scorciatoia della luna; «non ci se ne» in Canzonetta urbinate; «e è la» in Pietà dell’atmosfera; ma anche un monosillabo con un polisillabo come: «e essendone» in Libertà; nella stessa; ancora: «e a un» in «Sunset Boulevard»(16). C’è poi – forse un’opzione sintomatica perché autonoma, forse un fraintendimento – la scelta del pronome enclitico maschile per il femminile nel secondo verso, che si riferisce quindi all’«essere» e non alla «musica». Si veda invece Luzi:
Udire non m’è dato
la musica dell’essere
né ho avuto potere a immaginarla
s’alimentava il mio amore a un non amore
se avanzo è il suo rifiuto che mi sferza
mi porta via tra le sue grandi braccia nulle
il suo silenzio mi divide da me dalla mia vita !
Essere bruciante nella sua serenità che assedio
quando infine son lì che lo colpisco agli occhi
già la sua fiamma m’ha scavato i miei già m’ha ridotto in
[cenere
e dopo che importa il balbettio del poema
è nulla questo non è il paradiso.(17)
In questo caso, il poeta traduttore sembra quasi soffrire del suo limite, quello di non poter «udire» – verbo messo così in risalto nella sede iniziale del primo verso – «la musica dell’essere», successivo elemento che Luzi vuole parimenti distinguere rispetto al singolo verso francese «Je ne peux entendre la musique de l’être». In una forma più dilatata e frastagliata sul piano formale, la scelta in atto altro non è che lo specchio dello slancio esistenziale e dell’afflato religioso luziani. Il percorso espressivo dei versi ridà verbalmente l’intensità esperienziale della passione (in senso penitenziale, ergo cristiano), laddove Parronchi usa un vocabolario da visione (dantesca, nell’essenza). Siamo alla metà degli anni Sessanta con questa traduzione luziana, ossia all’altezza della raccolta Dal fondo delle campagne (1965). Di questo secondo momento di Luzi coglie precisi aspetti Mengaldo:
[…] egli approfondisce la metafisica, tra cristiana e platonica, dell’identità e reciproca reversibilità, meglio perpetua oscillazione, di divenire ed essere, mutamento e identità, tempo ed eternità […]. Situazione […] purgatoriale, talora sceneggiata […] attraverso campi metaforici del fuoco e dell’ardore […](18).
Si tratta, non a caso, di elementi che Luzi addiziona all’originale di Frénaud, come il verbo «sferza» che ricopre un chiaro significato penitenziale rispetto al francese «attisé» (in Parronchi, un più conforme «acceso»). Un antecedente a quel campo metaforico — seppure congiunto alla rigenerazione dalla cenere propria del mito della fenice – era già ne L’alta, la cupa fiamma, lirica compresa non a caso nel Quaderno gotico. La raccolta segna infatti il recupero di un registro eccentrico, perché impregnato nei temi e nel lessico dell’esperienza stilnovistica (anche in questo frangente, tale scelta ha la funzione di filtrare la lingua nel momento di transizione tra stagione ermetica e presente).
Non si può escludere che una sorta di retrocessione temporale del registro a un suo più alto (e spirituale) versante espressivo abbia agito da stimolo per la scelta dei vocaboli di quella lirica, legata com’è a una sorta di “sublime stilistico” in cui Luzi assorbe religiosamente l’idea stessa dell’essere; in questo senso, e in controtendenza rispetto all’evoluzione della sua poesia, risalta ancor più uno di quegli elementi da koiné ermetica qual è la «libertà di manovrare i nessi preposizionali» e nella fattispecie, a differenza di Parronchi, il già ricordato uso «passe-partout della preposizione a»: soprattutto nella (19) resa di «Je n’ai reçu le pouvoir de l’imaginer» in «né ho avuto potere a immaginarla», dove la preposizione di non avrebbe commesso infrazione. Si noti, ancora, la scelta dell’uso assoluto del sostantivo «potere», che senza articolo risuona al pari di una sanzione subita (in continuità con la condizione penitenziale di fondo), distinguendosi fortemente dall’espressione più prosaica “non avere il potere di”.
Si leghi infine all’aura formulaica dell’espressione la scelta del tempo imperfetto per il verbo «s’alimente» («s’alimentava») e l’indeterminatezza della congiunzione «se» (aggiunta): la soluzione luziana toglie al secondo verso della coppia «Mon amour s’alimente à un non-amour. / Je n’avance qu’attisé par son refus» il valore di conseguenza, lasciando alla «perpetua oscillazione, di divenire ed essere» del soggetto tutta la responsabilità di un’incomprensione.
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Note:
*1 Questo estratto è parte di un saggio più ampio che nasce dalla rielaborazione della mia tesi di laurea intitolata Il quaderno di traduzione come genere letterario (Dipartimento di Italianistica dell’Università degli Studi di Pisa, A.A. 2001/2002). Nel frattempo, molti studi sulla traduzione hanno analizzato nel dettaglio autori e temi della mia tesi. Pubblicazioni di notevole rilievo sono state quelle di Franco Buffoni (a cura di), La traduzione del testo poetico, Milano: Guerini e Associati 1989 (poi Milano: Marcos y Marcos 2004); ID, (a cura di), Ritmologia. Il ritmo del linguaggio. Poesia e traduzione, «I Saggi di Testo a fronte», Milano: Marcos Y Marcos 2002; ID., Con il testo a fronte. Indagine sul tradurre e sull’essere tradotti, Novara: Interlinea 2007. Voglio ricordare, inoltre, il recente lavoro di Leonardo Manigrasso, Capitoli autobiografici. Poeti che traducono poeti dagli ermetici a Luciano Erba, Firenze: FUP 2013, nel quale si discutono in parallelo molti degli autori e dei testi selezionati per la mia tesi. Seppure l’approccio analitico di Manigrasso differisca dalla mia impostazione teorica, molti sono anche i punti di tangenza, specie per quel che riguarda Bigongiari, Luzi e Parronchi. Per questa ragione, il volume di Manigrasso è un riferimento essenziale per colmare il quasi tredici anni di tempo intercorsi tra la mia ricerca e gli sviluppi della questione sui «poeti traduttori di poeti» nel Novecento italiano.
2 Cfr. M. Landi, La metafisica imperfetta: Baudelaire e il primo Luzi, consultato 03/10/2014 su http://semicerchio.bytenet.it/articolo.asp?id=543
3 Ibid., p. 84, e M. Luzi, La cordigliera, p. 24.
4 M. Luzi, La cordigliera, p. 25.
5 M. Landi, La metafisica cit. (on line)
6 M. Luzi, L’opera poetica, Mondadori, Milano, 1998, p. 188.
7 Ibidem, p. 187.
8 A. Parronchi, Quaderno, p. 85.
9 P. V. Mengaldo, Il linguaggio della poesia, in Francesco Mattesini (a cura di), Dai Solariani agli Ermetici, pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, collana VITA E PENSIERO, Milano, 1989. p. 8.
10 P. V. Mengaldo, Poeti, p. 649.
11 L. Manigrasso, Capitoli autobiografici. Poeti che traducono poeti dagli ermetici a Luciano Erba, Firenze: FUP 2013, p. 21.
12 A. Parronchi, Il dualismo di Nerval, in «La Chimera», II, 14, maggio 1955. La citazione è stata ripresa da L. Manigrasso, Capitoli cit., p. 63.
13 Ibidem, p. 128.
14 Ibid., p. 129. Si ricordi, in proposito, quanto si era riportato in nota per Bigongiari che nella sua versione trapiantava un emistichio dantesco.
15 Ibid., p. 223.
16 Tutte le citazioni vengono da liriche raccolte in Pietà dell’atmosfera. Si noti, in Scorciatoia della luna, ancora un verso leopardiano: «Che fai tu luna in cielo?».
17 M. Luzi, La cordigliera, p. 77.
18 P. V. Mengaldo, Poeti, p. 651.
19 Ibidem.
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Il nostro dossier Per Mario Luzi (1914-2014) ha fino ad ora proposto:
– Milo De Angelis, Breve viaggio tra le ombre di Mario Luzi;
– Stefano Verdino, Uno scritto disperso di Mario Luzi.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).