Philip Levine, “Notizie del mondo”

da | Ago 14, 2015

Cosa vuol dire, oggi, essere un poeta laureato? Quando si figura nella testa una domanda del genere, il primo pensiero, nella nostra mente, corre sempre al discorso da Nobel pronunciato quarant’anni fa – ormai – da Montale, intorno alla poesia e alla sua capacità di capire e raccontare il mondo. Quando nel 2011 la Libreria del Congresso ha proclamato Philip Levine poeta laureato d’America dopo W.S. Merwin, James Billington – membro dell’associazione – ha usato parole inequivocabili: «I find him an extraordinary discovery because he introduced me to a whole new world I hadn’t connected to in poetry before». Forse resta ancora da capire il significato di quel «whole new world», ma è sintomatico il fatto che si avverta, fra i lettori, l’esigenza di percepire l’innovazione come qualcosa di presente e di futuro in poesia. E che l’innovazione non coincida con la sperimentazione linguistica o ideologica risulta chiaro in queste – postume – Notizie del mondo tradotte da Giuseppe Strazzeri. L’unico sistema di interpolazione, di finzione della realtà (scartata decisamente l’ipotesi del linguaggio) è rappresentato dalla vita: i valori che Levine inserisce nella sua scrittura non differiscono molto da quelli che noi conosciamo come “strumenti umani” e ci appaiono piuttosto come concertate ipotesi di una regolarità di respiro e di misura. «I find more energy in my earlier work.» dice il poeta di se stesso «More dash, more anger. Anger was a major engine in my poetry then. It’s been replaced by irony, I guess, and by love»: ironia come capacità di azione e di macro-alterazione dello sguardo; amore come partecipazione.

Levine, classe 1928, è cresciuto a Detroit, “città vitale” nelle sue parole, città dura e operosa. I suoi genitori erano immigrati ebreo-russi, ma per qualche tempo ha vissuto nella convinzione (da loro imposta) di avere origini spagnole: da qui il coinvolgimento – non solo emotivo – per l’anarchismo iberico e le storie della guerra civile spagnola, spesso evocate nei suoi componimenti. Il padre di Levine morì quando lui aveva cinque anni, lasciando la famiglia in condizioni piuttosto difficili – così che prima di abbracciare la poesia, nell’età della sua formazione, questo poeta ha compiuto una serie di lavori da lui stesso definiti “stupidi”: ha costruito cambi automatici per la Cadillac, ha lavorato in catena di montaggio per Chevrolet, è stato camionista per Railway Express. Le sue prime poesie, spesso scritte in agili settenari, non potevano che essere cariche di “rabbia”: evocazioni neanche troppo simulate di un mondo vissuto a muso duro, faccia a faccia con la gente dei suoi quartieri. Poesie, insomma, che non potevano abbracciare nessun sogno americano, se ancora un sogno resisteva. Quella di Levine è una poesia che appare fin da subito profondamente hardista, che riposa – senza mai assopirsi – nella consapevolezza e nella certezza che questa vita vale la pena di essere vissuta, comunque, a qualunque prezzo. Un progetto – o un’idea di progetto – per il quale le parole diventano il senso di una vita condotta prima e dopo la storia, ben oltre prima persona: «Fact is, silence is the perfect water: / unlike rain it falls from no clouds / to wash our minds, to ease our tired eyes, / to give heart to the thin blades of grass / fighting through the concrete for even air / dirtied by our endless stream of words» (si legge in He Would Never Use One Word Where None Would Do, nella raccolta del 1999 intitolata The Mercy). Fuori da questa grazia, però, è bene ribadire che c’è una fisicità latente e mai sopita nella poesia di Levine, tale da renderla illeggibile o persino priva di significato, se non considerata. Niente può esistere a meno che non venga sottratto – fugacemente o in maniera più distesa – alla catena darwiniana. Quell’effort che costringe a compiere una scelta agglutinante di immagini e sensazioni, con quell’unico filtro costituito dall’intonazione al vero e al concreto. Insieme alla lingua Levine sa che esistono delle concause piuttosto meccaniche, delle relazioni o reazioni prevedibilissime che sottraggono l’azione stessa al caso e restituiscono alla visione un significato prossimo alla semplice possibilità del vedere. «… and where sight vanishes / into nothing, into the new world no one has seen, / there has to be more than dust, wind-borne particles / of burning earth, the earth we lost, and nothing else», dice nel suo nuovo ultimo libro il poeta: dice della possibilità di vedere oltre le cose – di vedere quel futuro negato dalla biologia e dell’ereditarietà di mali che sono prima individuali e poi collettivi. E il primo male sta nel credere di non poter avanzare nella consapevolezza di potere esistere (e resistere) nonostante il mondo. È così che, come in mezzo alle onde, passano le esistenze che Levine ci racconta: la sua come la vita di un altro; come quella di un io-paziente d’ospedale di fronte a un giovane prete; come quella di Sol-Solly-ragazzocane che risponde alla chiamata di una madre impassibile e dolente di fronte al tempo; come tutte quelle persone che vivono nel silenzio e fanno il rumore della realtà intorno. Il fiato della memoria cerca poi di cucire insieme le vite che s’incontrano nel sangue e nel metallo – nella guerra giocata con l’artiglieria e in quella delle macchine del mondo moderno. L’uomo che entra in conflitto col mondo e lo sfida continuamente, fino a costringerlo al suo ritmo.

Ecco perché nella sua ultima raccolta Levine ci parla di «notizie del mondo» e non di notizie “dal” mondo. Non ci sono stanze segrete da cui si guarda appartati la realtà, ma la mano e la penna sono sempre coinvolte nella definizione di ciò che è detto – fra mente e azione non c’è nessuna frattura, e la loro unione sta nella voce di chi intende raccontare la Storia.

Ecco, allora, che prima di offrire dei modelli, prima di formulare teorie o canoni (e perciò citare i corsi di Robert Lowell e Jarry Berrymann frequentati presso l’Iowa Writers’ Workshop; oppure le lezioni di Yvor Winters a Stanford; oppure la comunanza con quella generazione Beat che ha segnato le esistenze di Adrienne Rich e Robert Bly, assieme ai “traumi” reali e concreti della già citata guerra civile spagnola e della guerra in Vietnam; oppure ricordare quel vitalismo non panico ma fattuale che caratterizza alcune stanze della Song of Myself di Whitman) – se qualcosa si avverte di necessario, nell’accostarsi alla poesia di Levine come di qualunque altra, è proprio l’esigenza di leggerla, di entrare a contatto con essa. Se le “notizie” costituiscono una possibilità d’accesso, il mondo è il suo scenario più evidente. Un mondo non lontano, non avulso, non estraneo alla sensibilità di qualcuno – ma appassionante, coinvolgente, avvolgente (come lo è stato per le poesie di Jorie Graham divenute simbolo delle proteste di Wall Street) e per questo devastante. È questa la via che permette di passare, senza sbalzo, il discrimine fra senso di umanità e percezione della dignità dell’uomo, secondo coscienza (coscienza di ruolo prima che di classe) e secondo opinione (non dimentichiamo che qui non si tratta di “breaking news”, non siamo davanti a un poeta che possa dirsi soltanto civile, ma della necessità di ricostruire il significato di ciò che accade o è accaduto nella difformità degli eventi).

Del resto, per citare uno dei titoli di Levine – e forse uno dei più celebri, per la concomitanza con il conferimento del premio Pulitzer nel 1994 – quando un poeta prende la parola ha un solo compito, una sola missione da adempiere: The Simple Truth.

***

Una storia

Chiunque ama una storia. Cominciamo con una casa.
La possiamo riempire di stanze ordinate e riempire le [stanze
di cose – tavoli, sedie, madie, cassetti
chiusi a celare minuscoli lettini dove i bambini un tempo [dormivano
o grandi cassetti aperti in uno sbadiglio a rivelare
indumenti piegati con cura lavati fino alla consunzione,
mai indossati, stantii nell’attesa di essere logorati.
Ci dovrà essere una cucina, e la cucina
dovrà avere una stufa, forse una di ferro, grande
con un grosso tubo nero che svanisce nel soffitto
fino a raggiungere il cielo ed esalarvi odori e complicità.
Questo era il centro della vita di qualsiasi famiglia
si trovasse qui, questo e l’acquaio ingiallito
intorno allo scarico dove l’acqua, sporca o pulita,
scorreva senza spiegazione, un po’ come il punto
di tutto questo, la storia che abbiamo promesso e ancora [potremmo riuscire a raccontare.
Non fraintendiamo, qui c’era una famiglia. Vedete
il sentiero scavato nel linoleum dove il legno,
grigio, di pino certamente, si intravede.
Il padre se ne stava lì, in piedi nel mezzo della propria vita
a invocare un cielo che immaginava certo in ascolto
sopra il tetto. E quando nessuno rispondeva
si può ancora vedere il punto in cui il tallone premeva [ancora
e ancora, anche se gli era stato insegnato
a non chiedere mai. Non che la vita fosse troppo crudele;
avevano per prima cosa acqua di pozzo da pompare,
una stufa che scaldava, una madre presso l’acquaio
tutto il giorno intenta a osservare nostalgica
il punto in cui la foresta una volta raccoglieva i versi
di orsi appena nati – anch’essi una famiglia – e canti
di uccelli fuggiti tanto tempo fa quando il fitto del bosco si [era arreso
un albero alla volta, all’arrivo dei taglialegna
coi loro thermos di caffè bollente. Il punto logoro del [davanzale
é quello su cui Mamma appoggiava la testa quando nessuno la vedeva,
quei due orli macchiati erano punti d’appoggio per le [mani
su cui lei contava; non l’hanno mai tradita.
Dov’è adesso? Pensi di avere diritto
a sapere tutto? Figli abbastanza piccoli
da stare in una madia, abbastanza grandi da avere stanze
tutte per sé e poi abbandonarle, il padre
con la destra alzata contro il cielo?
Se sono domande troppo personali, allora dicci,
dove sono i boschi? Devono esserci stati,
l’intero continente era coperto d’alberi.
L’abbiamo letto tutti a scuola e lo davamo per vero.
Eppure tutto ciò che vediamo sono case, file e file
di case fin dove arriva lo sguardo, e dove lo sguardo [svanisce
nel nulla, nel mondo nuovo che nessuno ha visto,
ci dev’essere più che polvere, particelle portate dal vento
di terra ardente, la terra che abbiamo perduto, e niente altro.

*

Suite di Dearborn

1

Di mezza età, sommamente annoiato
dalla propria moglie, un lavoro che odia,
in preda all’insonnia, si alza
dal letto e gira per la sua magione
in vestaglia e ciabatte, chiedendosi
se questo è proprio tutto ciò
che occorre per diventare Henry Ford,
l’uomo che ha creato
il mondo moderno. I cieli
sopra la grande fabbrica sul Rouge
sono neri di fuliggine, senza stelle,
il mondo intero . senza stelle adesso, tutto
perch. . stato lui a renderlo
a sua immagine, gratificazione non da poco.

2

Lunedì arriva come di dovere, con una pallida
luna che affonda dietro gli olmi.
Ci dicevano che un’alba nuova
era in arrivo, magari trattenuta
dal traffico sul Grand Boulevard
o da Henry, il signore di Dearborn
che disdegna di condividere la luce
con i non illuminati tra di noi.
Questo accadeva sessant’anni fa.
Il giorno arrivò, un sole debole
e tuttavia reale,
la sua luce torbida a inondare
muri, finestre, palpebre mentre
la buona vecchia luna si abbandonava al sonno.

3

Da ragazzo conoscevo questi campi
colmi di phlox selvatica ad aprile,
in cui di notte la volpe dalla coda rossa
arrivava a cacciare e l’assiolo
solcava l’aria in un improvviso balzo
assassino. Amavo quel mondo
coi suoi piccoli boschi a trattenere
la propria oscurità e i laghi fermi,
limpidi come ghiaccio, che trattenevano le stelle
ogni notte fino all’aprirsi dell’alba
su lotti di terra picchettati,
identificati e nominati, fienili e stalle,
case bianche dagli occhi serrati
contro l’intrusione di sguardi altrui.

4

L’inferno è qui in fonderia
dove le presse giganti stampano
parti di carrozzeria e l’odore
della pelle che brucia ci si insinua
nei capelli e sotto le unghie.
Il vecchio, Re Henry, timbra
il turno di notte assieme a noi,
i suoi amati negri ed ebreucci,
per lavorare fino a quando le finestre frantumate
ingrigiranno. C’è una giustizia
dopotutto, c’è un inno luminoso
per l’occasione, qualcosa
di triste e familiare, con parole che noi tutti
cantiamo, come Time on My Hands.

*

Notizie del mondo

Una volta usciti da Barcellona la strada saliva lasciandosi indietro piccoli casali abbarbicati ai fianchi grigi e gessosi delle colline. L’ultima persona che scorgemmo era una ragazza alla fine dell’adolescenza in vestito nero & grembiule grigio che reggeva un pollo a testa in giù per gli speroni. Levò lo sguardo & ci sorrise. Un’ora dopo la terra si spalancava in giganteschi prati verdi. Alla frontiera un poliziotto chiese in uno spagnolo gutturale, brutto quasi quanto il mio, perché fossimo diretti ad Andorra. «Turismo» dissi. Ridendo, ci lasciò passare. Le pareti di roccia della valle erano così ripide che la città era ammassata in una strada in tutto. Fili azzurri di fumo salivano diritti verso il cielo che si oscurava. Il mattino seguente trovammo ciò che cercavamo: la radio perfetta, made in France, portatile, leggera, un po’ pacchiana con la sintonia colorata & le manopole cromate, economica. «La ricezione è scarsa per via delle montagne» disse il negoziante, quindi sintonizzò sulla stazione comunista indirizzata alla Spagna. «Comunista?» dissi io. Oh, certo, erano arrivati venticinque anni prima in fuga dai tedeschi & si erano fermati. «A quei tempi» disse «tutti eravamo rossi.» «E adesso?» dissi. Adesso poteva vendermi qualunque cosa volessi. «Qualunque cosa?» Annuì. Un uomo alto, ingrigito, il volto scavato all’essenziale. «Una Cadillac?» Ma certo, poteva fare una chiamata & averla davanti all’uscio – diede un’occhiata all’orologio da tasca – per le quattro del pomeriggio. «E una star del cinema americano?» Con una mano sulla guancia non rasata, levò lo sguardo alle travi nere del soffitto. «Per quella direi una settimana.»

Vedi anche Philip Levine, Notizie del mondo

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).