“Perché non capire la vita da sola?”: questa frase apre Diario Ottuso, la brevissima autobiografia in cui Amelia Rosselli ha narrato in prosa quello che riteneva necessario ricordare degli anni di formazione che seguirono la tragedia dell’assassinio in Francia del padre Carlo e dello zio. Cosa vuol dire ‘capire la vita da soli’ e perché scegliere questo incipit per un libro nato con l’idea di scrivere un’autobiografia? Lo chiesi un giorno ad Amelia anche se avevo già in testa la risposta. Era stata lei stessa a esprimerla nella sua poesia, quando si lamentava degli ‘ideali maestri’ che l’avevano delusa, quelli da cui non aveva ricevuto insegnamenti o risposte.
Amelia abitava in un vicolo del centro di Roma, non lontano da piazza Navona. La sua casa era composta da un’unica stanza alla quale si accedeva per un breve corridoio; su questo corridoio affacciavano le porte del bagno e della cucina. La casa era tutta lì. Quando andavo a trovarla le portavo un pacchetto di sigarette lunghe e sottili. Le fumava con una specie di dimenticanza negli occhi, come se il gesto di portare la sigaretta alla bocca, e il fumo che ne usciva, le permettessero di allontanarsi per un momento dalle voci che da dentro l’assediavano.
In genere sedeva sul letto ma si alzava spesso per accostare le persiane o chiudere la finestra perché temeva che entrassero in casa raggi omicidi. Si sedeva e si alzava, parlava, faceva domande, fumava. Io restavo al mio posto, seduta vicino al tavolo da studio e osservavo i suoi spostamenti e soprattutto le mani che mentre parlava si muovevano con la leggerezza di piccole ali; erano piene di grazia, così lontane dalla fissità dello sguardo e dalla rigidità del corpo. Quelle stesse ali le vidi al suo funerale nelle mani del fratello.
Le avevo fatto la domanda sulla frase iniziale di Diario Ottuso perché ero curiosa di conoscere i nomi dei famosi maestri che non le avevano insegnato nulla (pensavo ad alcuni nomi della sua vita: Pasolini o i grandi artisti amati, come Guttuso, l’‘ideale fratello’ Rocco Scotellaro). Ma la sua risposta fu deludente, e un po’ curiosa: la frase non riguardava nessun maestro ma l’abitudine che aveva preso in quegli ultimi anni, di consultare i Ching, qualcosa di meno astrale dell’oroscopo ma altrettanto inaffidabile: basta con i Ching, meglio trovare la strada da sola.
L’incipit di Diario Ottuso non alludeva quindi a nessun nome nascosto, era tutto molto più semplice di quanto pensassi e legato a un preciso momento della sua vita: esattamente come nella poesia, dove Amelia ha scritto sempre di sé, di ciò che ha visto, sentito e sofferto nei tanti spostamenti della sua esistenza, nelle diverse lingue che parlava e con i diversi pronomi utilizzati al posto dell’‘io’per oggettivare la sua inclinazione lirica e far sembrare la scrittura “possibilmente pochissimo autobiografica”.
Chi si avvicina per la prima volta ai libri di Amelia Rosselli, in genere non riesce a trovare punti di collegamento linguistico o di riferimento temporale nei versi che sta leggendo ma sente che lì sta accadendo qualcosa di semanticamente ed esteticamente bello. Non sa come entrare in un universo di martellanti sonorità e abbagli e dove lo porteranno tutte le spezzature di frasi e vertigini di senso che incontra nella sua lettura, ma sa che sta leggendo poesia.
Per uscire dallo spaesamento e ritrovarsi, gli basterebbe leggere la breve biografia rosselliana prima di ritornare alla poesia; Diario Ottuso potrebbe essere infatti una guida per entrare nelle linee frammentate dei suoi versi, una sintesi prosastica ricca anch’essa di risonanze poetiche ma dove alcuni avvenimenti della vita e i fenomeni psichici della mente sono descritti in una forma più distesa. Utilizzando la sua biografia, tutto sarà più semplice di quanto non appaia a una prima, frettolosa lettura. Con la poesia è irrealistico fermarsi a un primo ascolto; occorre tornare su quanto si è letto; e riascoltare, ritornare, ancora e ancora. Da sempre penso che chi ama questo genere letterario debba avere alcune delle qualità del poeta: soprattutto pazienza e una particolare attitudine alla solitudine e al silenzio.
Lei, la voce
…
sono da qualche parte le tue mani, infilate nel taglio della [giacca
fredde della neve caduta in un improvviso scroscio [d’acqua
sopra la tua città di nero catrame. Sono mani pronte a [congiungersi
– malgrado il gelo di un inverno così poco mediterraneo –
mani sottili e nodose, due libere associazioni lanciate sulla [carta
dei numeri e delle possibilità
e poi cadute strette sul selciato di una chiostrina
…
(da Daniela Attanasio, Il ritorno all’isola, Nino Aragno, 2010)
Immagine: autografo di Amelia Rosselli.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).