Prosegue la seconda parte del nostro omaggio a Vittorio Sereni nel centenario della sua nascita, che lo ricorda attraverso le parole di una serie di autori nati tra la fine degli anni ’60 e la fine degli anni ’80 per dare una testimonianza del rapporto che le ultime generazioni hanno con la sua opera. I testi sono pubblicati secondo un criterio anagrafico e alfabetico.Nel secondo gruppo Gilda Policastro, Giovanni Turra, Corrado Benigni, Andrea Ponso, Alessandro De Santis.
Gilda Policastro – «Non lo amo il mio tempo, non lo amo»: appunti su Sereni nell’età dell’inesperienza
In un’intervista degli anni Settanta di recente riproposta da «Le parole e le cose», Vittorio Sereni parlava a un gruppo di giovani della propria poesia, spiegandone singoli versi, e offrendo un’immagine di sé piuttosto conforme all’idea che se ne ha dall’opera: di uomo schivo, misurato, serissimo. La poesia, spiegava in quell’occasione, è un modo per pagare il proprio debito con l’esperienza, per dare a quest’ultima valore e significato. L’esperienza è una delle categorie più scandalose del dibattito contemporaneo, e, nello specifico della poesia generazionale, è considerata una vera e propria tabe: la peggiore. Specie in quella zona ancora piuttosto nebulosa e dai confini mutevoli che è l’area della cosiddetta poesia di ricerca, quell’area, cioè, che antepone al senso il procedimento, all’esito estetico (ritmico, formale, versale) – e dunque esperienza in questo caso varrà anche come tradizione, come portato di un percorso culturale che non può dirsi solitario o darsi come autoreferenziale – il bisogno intellettuale (intellettualistico, intellettualizzato) della scrittura, e che probabilmente confonde o sovrappone il pudore dell’esibizione con l’interdetto della comunicazione. In un’intervista di oggi Nanni Balestrini ribadisce l’incompatibilità, anzi, l’inimicizia, l’alterità assoluta fra quest’ultima e la poesia. In coerenza con la propria opera, di un’impersonalità radicale, se composta col computer sin da tempi non sospetti. E però mai tanto radicale, a ben vedere, come quella dei suoi ‘’nipotini”, propugnatori o seguaci di pratiche come il googlism o il cut-up redivivo.
Se il quadro è il suddetto, non stupisce che l’archetipo sereniano di una poesia, scriveva Mengaldo, «rabbiosa e tenera», non agisca più da modello, se non per quella regione della poesia (di ricerca o no) che non smette di guardare alla lirica (e alla soggettività dell’esperienza) come alla sua matrice privilegiata: la poesia che si nutre di immagini e di significati, che si può persino spiegare (questa poesia parla di una frontiera che è sia un luogo fisico che ideale, quest’altra di un ritorno che è anche un bilancio della propria esistenza, quest’altra ancora descrive un incontro con l’ombra del padre, che avviene durante una partita di calcio, e così via). O, perché no, ricordare a memoria: «Nulla, nessuno, in nessun luogo mai»; «tutto si sa la morte dissigilla»; «non sanno d’esser morti/ i morti come noi, non hanno pace». I morti, appunto. Ma non ce l’hanno, vien da chiedersi, i googlist e i cut-upisti, un’esperienza? Un fatto vero, piccolo o grande che sia, un episodio memorabile o un frammento da sottrarre all’insignificanza del quadro, una gioia, un dolore, un lutto?
I morti, insieme all’amore, sono il grande collante della poesia di tutti i tempi. Ai morti si vuole ancora parlare, riscattando il vuoto, l’ingiustizia, l’alterità irrimediabile, il «senso di colpa di chi rimane», ha scritto in un memorabile studio Enrico Testa. E il colloquio coi morti attraversa, non casualmente, la poesia delle tre corone novecentesche: Montale Sereni Caproni. Ed è anche, se non soprattutto, in Sereni che, a partire da Gli strumenti umani (una cui sezione s’intitola Apparizioni ed ombre) fino a Stella variabile, si addensano i topoi catabatici classici (magari via Dante), a partire dal più abusato e commovente, il vano abbraccio tra il vivo e il morto, che parte da Odisseo con Anticlea, e viene poi imitato da Virgilio per Enea e Anchise. Quelle braccia del vivo che gli ritornavano fatalmente al petto, restituivano in forma plastica la finzione consapevole della poesia: per esigenze drammatiche si poteva pure incappare nel caro sembiante perduto, ma la possibilità dell’incontro si rivelava presto per ciò che era: una bella illusione («allungo un braccio. Stringo una spalla d’aria», in Autostrada della Cisa, dall’ultima raccolta di Sereni). L’illusione del revenant non può che alimentarsi di suggestioni antiche (nel dialogo ininterrotto o esperienza delle forme e dei temi già dati, e da ricollocare nell’oggi, che è la poesia di ogni tempo): la metamorfosi vegetale dell’ombra, ad esempio, come in quella poesia sereniana classicamente e modernamente evocativa, in cui «l’animazione delle foglie» valeva come «debito» tanto dantesco (da Inferno XIII) che montaliano (Incontro). C’è una possibilità, anche se effimera, presto destinata a dileguarsi, di contatto. C’è una residuale possibilità di ricongiunzione coi (poeti) morti nel proprio tempo. C’è una possibilità, se non altro, di dire. A patto di volersi staccare un momento dal pc e dalle sue tirannie, per lasciarsi chiamare, «proprio me/ dalla strada sotto casa/ in un’ora di notte».
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Giovanni Turra – Gli arborum bracchia di Vittorio Sereni
Amante dei classici e di Virgilio in particolare, traduttore dei Dialogues di Valéry nell’immediato dopoguerra, lettore attento di Proust e della Recherche, Vittorio Sereni conferisce tratti antropomorfici alla natura, riattualizzando l’antico motivo degli arborum bracchia.
Ricostruiamo per sommi capi la storia di questo topos. Nel mondo latino, anche per la particolare mobilità del lessico tra la sfera agricola e la lingua comune, l’immagine degli arborum bracchia, e cioè dei rami animati degli alberi, ricorre spesso: fra i tanti che la tentarono, Virgilio e Ovidio.
Dal secondo libro delle Georgiche, vv. 290 e ss.:
[…] l’ischio […] quanto più si tende con la cima / all’aria dell’etere, tanto più penetra con le radici negli Inferi [Tartara]. / […] resta ben saldo e molte discendenze [multos nepotes], / molte generazioni di uomini [multa virum saecula] crescendo vince con il suo durare; / allora tendendo ampiamente le braccia e i suoi forti rami [tum fortis late ramos et bracchia tendens], / da un lato e dall’altro sostiene col tronco un’ombra smisurata.
Si prenda ora il mito di Dafne (Met., I, 548 e ss.):
A preghiera appena finita, un pesante torpore le pervade le membra / il tenero petto si fascia di un’esile fibra, / i capelli in fronde, le braccia si allungano in rami [in ramos bracchia crescunt]; / il piede prima tanto veloce giace in pigre radici, / il volto svanisce in una cima: la sola lucentezza perdura in lei.
Se nella poesia di Virgilio rami e bracchia sono significanti diversi del medesimo referente, in Ovidio, al contrario, il referente si sdoppia: prima e dopo il processo di trasformazione («in ramos bracchia crescunt»). Il pathos s’inserisce nella natura per il tramite nuovo e potentissimo della metamorfosi.
Per brevità, riduciamo a un punto i venti secoli che ci separano da Augusto, e alla Roma imperiale subentri la Parigi occupata dai nazisti. Chiude il cerchio la traduzione francese delle Bucoliche ad opera di Paul Valéry. Negli anni della guerra il poeta di Sète scrisse anche il Dialogue de l’arbre, che dichiara la lunga frequentazione delle Georgiche. Ecco due loci significativi del Dialogue, nella partecipe versione di Sereni:
L’uno e l’altro [l’Albero e l’Amore] sono cosa che, da germe impercettibile nata, cresce e si fortifica e si estende e si dirama; ma di quanto s’innalza verso il cielo (o verso la felicità) di tanto deve sprofondare nell’oscura sostanza [i Tartara virgiliani; n.d.A.] di ciò che senza saperlo noi siamo.
E poco oltre:
Là, nel cuore stesso delle tenebre in cui si fondono e si confondono ciò che è della nostra specie e della nostra materia vivente, e ciò che è dei nostri ricordi e delle nostre forze e debolezze segrete, e infine ciò che è il sentimento informe di non essere sempre stati e di dover finire di essere, è riposto ciò che io chiamo fonte del pianto: l’ineffabile.[1]
Non c’è pensiero che, perseguito fino alle più immediate adiacenze dell’anima, non ci conduca su margini privi di parole.
Intesi quale specchio patetico delle nostre afflizioni, gli alberi compaiono anche nella Recherche. Proust li antropomorfizza facendone figura della memoria pura e spirituale che caratterizza la vita profonda della coscienza. Poco oltre la metà di All’ombra delle fanciulle in fiore (1919) si legge:
[…] mi slanciai più avanti in direzione degli alberi, o piuttosto verso la dimensione interiore in fondo alla quale li scorgevo dentro di me. Avvertii nuovamente, dietro il loro schermo, lo stesso oggetto conosciuto ma indistinto, e non riuscii ad afferrarlo. […] Nel loro gesticolare ingenuo e appassionato riconoscevo l’impotente rimpianto di un essere amato che ha perso l’uso della parola e sa di non poterci dire le cose che vorrebbe e che noi non riusciamo a indovinare. Presto, a un incrocio, la carrozza li abbandonò, trascinandomi lontano da ciò che credevo essere l’unica verità, da ciò che mi avrebbe reso veramente felice, quella carrozza assomigliava alla mia vita. […] Vidi gli alberi allontanarsi agitando disperatamente le braccia, come se dicessero: quello che non riesci a sapere da noi oggi, non lo saprai mai più. Se ci lasci ripiombare in fondo alla strada dalla quale cercavamo di issarci fino a te, tutta una parte di te stesso che noi ti stavamo portando cadrà per sempre nel nulla.[2]
Com’è stato evidenziato in corsivo, l’essere amato che ha perso l’uso della parola altri non è che Dafne; «gesticolare» e «braccia» rinviano invece a georg. 2, 290 e ss.. Altre espressioni infine, sebbene più diffuse e graduate, sono sovrapponibili a quanto Valéry avrebbe compendiato di lì a vent’anni.
E torniamo finalmente a Sereni, da cui eravamo partiti.
In Ancora sulla strada di Zenna, testo-chiave de Gli strumenti umani (1965), la situazione in cui si trova il poeta è analoga a quella descritta da Proust: come il giovane Marcel dalla carrozza in corsa, Sereni contempla gli alberi che si muovono al vento causato dal passaggio della sua automobile; alberi che, allo stesso modo del paragrafo proustiano, spariranno alla prima svolta.
Da Ancora sulla strada di Zenna:
Perché quelle turbate piante mi inteneriscono? / […] / quelle agitate braccia che presto ricadranno, / quelle inutilmente fresche mani / che si tendono a me e il privilegio / del moto mi rinfacciano… / Dunque pietà per le turbate piante / evocate per poco nella spirale del vento / che presto da me arretreranno via via / salutando salutando. / Ed ecco già mutato il mio rumore / s’impunta un attimo e poi sfrena / fuori da sonni enormi / e un altro paesaggio gira e passa[3].
L’umanizzazione delle piante è qui resa con braccia e tendere, attinti da Virgilio e ben noti a Valéry, e agitate, già occorso in Proust. In tutto sereniani risultano invece salutando e turbate. Ancora: al tipo virgiliano dell’albero che sfida e vince multos nepotes e multa virum saecula si accosta il motivo, forse leopardiano, dell’incessante e inutile ciclicità della natura.
Ne viene insomma che la memoria di Sereni, com’è proprio dei grandi, è intessuta della parola di altri scrittori. Nessun poeta, nessun artista di nessun’arte, preso per sé solo, ha un significato compiuto. La sua importanza, il giudizio che si dà di lui, è il giudizio di lui in rapporto ai poeti e agli artisti del passato.
Al riguardo, scriveva Eliot: «La tradizione non è un patrimonio che si possa tranquillamente ereditare […]. Essa esige che si abbia, anzitutto, un buon senso storico».[4] Il senso storico costringe a scrivere con la sensazione quasi fisica di appartenere al proprio evo, ma anche con la coscienza che tutta la letteratura europea da Omero in avanti ha una sua esistenza simultanea.
Il possesso del senso storico fa di Sereni un interprete attento e mai pedissequo di tutto quanto ci precede, e insieme lo rende più acutamente consapevole del suo posto nel tempo, quindi della sua e della nostra contemporaneità.
[1] P. Valéry, Tre dialoghi, trad. di V. Sereni (1947), Torino, Einaudi 1990, pp. 125-126.
[2] M. Proust, All’ombra delle fanciulle in fiore (1919), trad. di G. Raboni, Milano, Mondadori 1983, p. 354-356.
[3] V. Sereni, Poesie, a c. di D. Isella, Milano, Mondadori 1995, pp. 113-114.
[4] T.S. Eliot, Tradizione e talento individuale (1919), in Opere. 1904.1939, Milano, Bompiani 2001, pp. 393-394.
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Corrado Benigni – Il mio incontro con Vittorio Sereni
La prima volta che ho letto Vittorio Sereni è stata su un’antologia scolastica. Allora (oggi non lo so, anche se – ahimè – mi pare sia ancora così) era raro che il programma di letteratura italiana dell’ultimo anno di liceo andasse oltre autori nati dopo Ungaretti, Quasimodo e Montale. Tutto dipendeva dalla voglia e dalla sensibilità dell’insegnante. E io ho avuto questa fortuna: incontrare un professore che mi ha fatto conoscere e amare Sereni, poeta della generazione successiva alla grande triade del Novecento italiano.
«Sui tavoli le bevande si fanno più chiare/ l’inverno sta per andare di qua». Ricordo come ieri l’emozione che ho provato leggendo questi versi dalla sua prima raccolta “Frontiera”. Un vocabolario rarefatto, eppure densissimo di significati, per dire la fine di un’esperienza, di una stagione (della vita e della storia) cogliendone i segnali negli oggetti e nei suoi elementi naturali. Diciottenne, ho sentito subito mie queste parole: dopotutto anche per me stava finendo una stagione importante della mia esistenza e una nuova si affacciava: incerta, ma carica di attese. Così questi versi – limpidissimi e proprio per questo capaci di fare vedere le cose in profondità – mi hanno marchiato a fuoco e mi hanno immediatamente fatto amare questo poeta, la cui lezione sarebbe diventata esemplare per la mia scrittura. Anche se forse il vero incontro con questo poeta è avvenuto in età più adulta, con la lettura degli “Strumenti umani”.
Questo è il Sereni che preferisco, che sento più vicino, anche per alcune affinità tematiche con il mio lavoro: il pensiero della colpa, che attraversa sotterraneo tutta la raccolta, una colpa che sembra precedere ogni misfatto e poi la partecipazione al senso del male («parte del male tu stesso»), dove ogni cosa pare avvenire in una sorta di “tribunale della mente”. Di Sereni ho sempre ammirato la straordinaria capacità di trasformare in ricchezza la povertà lessicale e ho sempre sentito vicino il suo «naturale illuminismo lombardo, disponibile però a tutte le offerte della vita», come ha messo in luce Dante Isella.
In una lettera del 1961 il poeta di Luino scrive: «Non ho una cosa da affermare in assoluto, una mia “verità” da trasmettere. Ho dei conti da saldare con l’esperienza». Ecco, in poche semplici parole questo autore è riuscito a concentrare tutta la sua poetica e forse la sua visione del mondo. Come per Sereni, anche per me il linguaggio non è qualcosa su cui lavorare artificialmente né sperimentare, perché il linguaggio è tutt’uno con le cose e le esperienze che testimonia. Per questo deve essere essenziale, anche se all’interno di un testo complesso e ricchissimo di rimandi. Questa è la grande lezione di Sereni: innovatore della lingua, pur rimanendo sempre fedele alla classicità delle forme.
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Andrea Ponso – Vittorio Sereni. “nulla, nessuno, in nessun luogo, mai”
Forse basta un verso, un verso come questo, a dire la presenza di Sereni nel nostro tempo. Un tempo apparentemente lontano dalle possibili letture di queste poche parole, solo apparentemente buie e perentorie; un tempo dello spettacolo come coazione a ripetersi, diventando produttori e prodotti del “divertimento”, dell’intrattenimento a tutti i costi, anche negli ambiti in cui si propone la fruizione della poesia e della cultura; in cui la ricerca del consenso, dell’apertura e della partecipazione all’evento poetico, rischia di ridurlo alla sola sua riproduzione inerte – una presupposizione del poetico praticamente dilagante, che pare soffocare la stessa pratica della poesia.
Ma la ripetizione, la famosa coazione a ripetere che possiamo leggere e percepire in questo e in altri testi di Sereni, è, al contempo, impossibilità della fuga e suo inesausto e speranzoso tentativo; è un arrendersi e una “fedeltà” insieme, anche in questo verso, apparentemente così buio e nichilista – ma che, in realtà, kenoticamente abbraccia il negativo e l’inerte, ma non con un atteggiamento solamente negativo e inerte. C’è infatti, nell’iterazione, il carcere e il suono di un salire: quella “n” ribattuta che fornisce un ordo musicale e ritmico, di contro alla dolcezza dell’abbandono suicida delle “s”, striscianti verso un sonno dal quale pare veramente difficile svegliarsi e risorgere. La massima implicazione, quindi, coincide con la sua eccedenza – e le due cose non si escludono; e, anche per questo, possiamo davvero dire che quella di Sereni sia una forma poetica inclusiva e mai esclusiva.
Sereni sembra infatti avere compreso che la “partecipazione” del lettore e del pubblico, la sua partecipazione attiva, non è mai semplicisticamente data per scontata, e mai legata solo alla comunicazione dei significati: essa è piuttosto una esperienza integrale dell’umano, attraverso, appunto, tutti gli strumenti umani. Lo stesso autore non nasconde questa sua aspirazione a fare della poesia qualcosa “come un organismo vivente”. E, naturalmente, questo organismo vivente non può e non deve mai dimenticare ciò che è dimenticato, “quelle toppe d’inesistenza”, e i morti, che, nella poesia di Sereni, sono davvero fondamentali. Ma anche in questo caso, i morti e ciò che non è stato vissuto, diventano sia memoria, sia slancio per il futuro: “parleranno”. Ecco, ancora una volta, la potenza davvero vitale di questo verso: una sorta di cristiana “comunione dei vivi e dei morti”, potremmo dire, che raggiunge l’inesistenza scialba e priva di forze che potrebbe ricordare per molti aspetti la visione dello Sheol ebraico, in cui non si tratta di “anime” e nemmeno di “corpi”: siamo infatti in un non luogo residuale, propriamente dei refaim, dei “senza forze”. In questa debolezza, in questa sorta di indistinzione tra il sonno e la veglia, non a caso, si svolge gran parte della poesia di Sereni; e anche questa è “fedeltà” che mai diventa immobilismo e totale rassegnazione – sia come euforia che come disforia.
Sereni rimane sempre, ma positivamente e dolorosamente, un “reduce”, uno che sconta tutte le contraddizioni e le difficoltà del “partecipare” alla storia. Per noi, oggi, in tempi di spettacolarizzazione acritica del poetico, di infittirsi di incontri e letture, e festival e concorsi, in spesso maldestri tentativi di “portare la poesia alla gente” – per noi, dicevo, questa posizione storica del “reduce” e la sua difficoltà a “partecipare”, diventa forse una metafora e un monito non da poco, che non dovremmo mai dimenticare. Anche la “vergogna” del ruolo di poeta, che spesso abbaglia nelle riflessioni di Sereni e nei suoi versi, e i lunghi silenzi trascorsi tra alcuni dei suoi libri, non diventano mai semplicistico rifiuto o strategico gioco postmoderno: si tratta piuttosto di una reticenza che si fa inferno, ma in vista della condivisione vera; che non teme la solitudine e l’isolamento (ancora una volta, l’essere “reduce”, “residuale” e la non partecipazione”) – e che, se in qualche modo si fa “clausura”, è sempre in vista di una maggiore e più viva apertura.
Di fronte alll’euforia tachicardica e aritmica del mondo poetico attuale, questo verso di Sereni (e tutta la sua poesia) ci chiede forse una fedeltà dura ma umanissima, la capacità insomma di guardare e di ascoltare altrove, dove meno ci aspetteremmo di sentire davvero la vita e il suo pulsare; ci chiede di posare l’orecchio in quel ritmo e in quel significante della negazione – “nulla, nessuno, in nessun luogo, mai” – che forse, per chi ha la forza e la pazienza dell’ascolto, ha più vita di tanta spettacolarizzazione della cultura e dell’estetica; si tratti anche della voce e del ritmo di un gesto suicidario.
In caso contrario, temo, quelle “toppe d’inesistenza” – quella comunione che non è mai presenzialismo e mera comunicazione di soli significati o di sole sensazioni – rischiano davvero di non parlare più.
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Alessandro De Santis
Se devo dire subito qualcosa sul mio rapporto con Sereni, è che il primo Sereni con cui ho avuto a che fare seriamente si chiamava Emilio; per via dei miei studi storici infatti ho conosciuto prima Emilio Sereni, lo storico dell’agricoltura, e poi, solo qualche tempo più tardi, il poeta Vittorio.
Lui un luinese come quel Piero Chiara che leggevo da piccolo dai libri di mio padre, il Chiara ad esempio de Il piatto piange, verso tratto proprio da una lirica di Sereni: una delle più alte voci del novecento poetico, e non sono certo io a doverlo ribadire.
Ad usare il linguaggio diretto e intuitivo dei social network, che cos’è che mi piace della poesia dell’autore de Gli strumenti umani?
Mi piace il suo rispettoso vedere nell’esperienza una verità, sia pure tarlata dal peso di una minaccia. La sua misurata e rigorosa fedeltà alla natura stessa delle cose.
Mi piace la sua poesia variata, cromatica, mossa dall’attitudine a osservare di sano voyer, che vive le sfumature del colore come nel caso di quell’amaranto che è fulcro di Stella variabile.
Mi piace la sua etica letteraria esigente: tutta interiore, sottile, ma vissuta senza fatica, in un continuo dialogo con se stesso nei versi.
Mi piace l’amore per una solitudine nuda, fatta di cadute ma che non atterrisce; una genitrice di vitalità e cre-azioni.
Mi piace il suo essere un poeta di resistenza e di grazia, sempre in cerca, coinvolgente, mai retorico e perentorio.
Mi piace la sua volontà di partire dalla propria memoria: una memoria emersa, diretta, segnata dalle esperienze dell’esilio e della prigionia.
Mi piace il suo uso quasi ossessivo della ripetizione, come raffinata variazione, perpetuo fronteggiarsi di passato e presente nell’etere dell’identità; una temporalità che è ripetizione dell’esistere.
Una voce oscuramente familiare dunque per me Sereni, come quella di Paura seconda che: […] Con dolcezza mi disarma, | arma contro me stesso me.
Per Vittorio Sereni: testimonianze delle ultime generazioni /1
[Gli autori che hanno aderito all’iniziativa sono, in ordine anagrafico e alfabetico: Andrea Inglese, Guido Mazzoni, Giovanna Frene, Laura Pugno, Gabriel Del Sarto, Italo Testa, Gilda Policastro, Giovanni Turra, Corrado Benigni, Andrea Ponso, Alessandro De Santis, Massimo Gezzi, Azzurra D’Agostino, Roberto Cescon, Isabella Leardini, Matteo Fantuzzi, Carlo Carabba, Matteo Zattoni, Carmen Gallo, Franca Mancinelli, Mariagiorgia Ulbar, Tommaso Di Dio, Domenico Arturo Ingenito, Marco Bini, Guido Mattia Gallerani, Lorenzo Mari, Maria Borio, Davide Castiglione, Marco Corsi, Alessandra Frison, Francesco Iannone, Anna Ruotolo, Lucia Cupertino, Bernardo De Luca, Francesco Terzago, Dario Bertini, Giorgio Meledandri.]
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).